
Quanto è naturale una lingua pianificata?
Parlando di lingue inclusive ci siamo avvicinati al tema della pianificazione. Niente si crea dal nulla, neanche le lingue inventate. Così, quando cerchiamo di costruire lingue universali “a posteriori”, partiamo da quelle che conosciamo meglio, le smontiamo, le contaminiamo e realizziamo strutture più semplici: formazioni lessicali di significato trasparente e agglutinazioni, cioè sequenze di prefisso-tema-suffisso o morfema (anche multiplo) che accumulino ordinatamente informazioni morfosintattiche: il genere, il numero, la funzione logica dei nomi e dei pronomi, tempo, aspetto, forma, persona dei verbi. Così è costruito, ad esempio, l’esperanto, la lingua pianificata più diffusa al mondo e quindi anche la più inclusiva. Se lo si confronta con la lingua naturale più diffusa al mondo, l’inglese internazionale, si osserva quanto è più intuitivo e facile da imparare l’esperanto. Questo però non gli basta per contrastare la fortuna dell’inglese, per il solito motivo che una lingua si impone sulle altre non per ragioni estetiche, non per ragioni di economia di sforzo, ma per il suo prestigio, tutto legato a motivazioni extralinguistiche; ci vuole, come si sa, un esercito e una flotta, o, per meglio dire, una primazia politica, militare, economica. L’esperanto è un progetto con una forte carica ideale e non a caso si associò al pacifismo del primo dopoguerra. Nel libro ne parla Davide Astori che lo conosce bene e lo ha presentato in un corso all’Università di Trento, dove ha smontato per gli studenti, pezzo per pezzo, la struttura semplice dell’esperanto. Ma anche l’esperanto funziona bene per chi ha competenza nativa di lingue europee (romanze, germaniche e slave) e competenza culturale del latino; dunque è una lingua pianificata, ma sulla base di lingue naturali. D’altro canto, ci dice Astori, esistono nel mondo famiglie che parlano esperanto e crescono i figli con l’esperanto lingua prima. In questi esperantofoni la lingua pianificata ridiventa naturale perdendo le geometrie essenziali e astratte con cui era stata concepita; riacquista quel tanto di irrazionale che hanno le lingue dell’uso vivo: forme doppie, sinonimi, analogismi. Insomma si muove.
Quale importanza rivestono i progetti di «lingue universali» del Seicento?
Di questo nel libro parla Giorgio Graffi, linguista che da anni si dedica alla storia del pensiero linguistico e grammaticale in particolare. Al convegno ha portato il caso dello scozzese George Dalgarno e del vescovo inglese John Wilkins, entrambi interessati al problema delle lingue universali negli anni centrali del XVII secolo, entrambi nominati da Umberto Eco (La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, 1993). In loro come, indipendentemente da loro, in Francia a Port-Royal, si vede come non fosse più il latino il modello di una lingua perfetta. L’aristotelismo porta questi grammatici a cercare, d’anticipo su Chomsky, degli universali linguistici: categorie grammaticali e categorie logiche sottostanti a quelle grammaticali. Wilkins scompone analiticamente il significato della parola per trovare in esso un sistema di relazioni. Una lingua ideale elimina i difetti delle lingue naturali che, al solito, sono rappresentati dai doppioni e dalle eccezioni alle regole, insomma da tutto quello che si è stratificato nel tempo portando disordine e spreco. Una grammatica filosofica è fondamentalmente una grammatica razionale. Lo scopo di Dalgarno e di Wilkins era quello di favorire la comprensione universale. Ancora più estremo sarà lo sforzo di Leibniz di dare alla lingua perfetta un carattere matematico, puntando sull’univocità e l’analizzabilità; così ai casi della declinazione latina preferirà i complementi preposizionali delle lingue volgari. Il latino mostrava difetti che le lingue moderne, romanze e germaniche, potevano correggere.
R. R. Tolkien fu tra i più prolifici glottoteti della storia: di quale valore linguistico sono i Linguaggi di Arda?
Non ce ne siamo occupati, pur ritenendo l’argomento interessante. Pur trattandosi di una creazione letteraria, rivela nell’autore del Signore degli Anelli una solida competenza dei problemi linguistici. Ma, insomma, Tolkien era linguista di formazione e di professione e la sua narrativa è una proiezione fantastica delle sue idee sulla lingua e delle sue osservazioni su idiomi di diverse famiglie linguistiche, su lingue di minoranza e su giochi linguistici. Le lingue della Terra di Mezzo hanno una storia che ricorda gli stemmi ad albero della grammatica storico-comparativa. Hanno origini, evoluzioni, speciazioni del tutto corrispondenti a quelli delle lingue naturali. Formano dialetti e varietà di contatto, o cercano di superare le differenze costituendo delle koinè e delle lingue di mediazione. E ogni volta che Tolkien inventa un tipo linguistico entra nei problemi di una struttura grammaticale, con preziose intuizioni tipologiche.
Quali caratteristiche comuni presentano lingua franca e pidgin?
Al tema della lingua franca abbiamo appena dedicato il secondo convegno della serie aperta da quello di cui parliamo; lo abbiamo intitolato Lingua franca, lingue franche, riunendo in una giornata specialisti della lingua franca per eccellenza, quella mediterranea, chiamata in tempi recenti sabir, di base romanza, e specialisti di lingue franche in epoche e luoghi diversi, dal nahuatl della Nuova Spagna (il Messico precoloniale), alle lingue franche a base araba dell’Africa orientale o al dyula dell’Africa occidentale. Una lingua franca è comunque un pidgin che nasce di necessità in situazione di contatto per esigenze di comunicazione commerciale (nei porti del Mediterraneo, ad esempio) o associata alla mobilità (lingua itineraria) e anche al colonialismo e allo schiavismo. La lingua franca barbaresca era usata con gli schiavi cristiani dai loro padroni, i corsari barbareschi, arabofoni, nelle grandi città porto del Maghreb: Algeri, Tunisi, Tripoli. In queste situazioni di contatto il parlante semplifica la propria lingua per rendersi più comprensibile, proprio come facciamo nel baby talk rivolgendoci ai bambini piccoli o come facciamo rivolgendoci a stranieri (foreigner talk). Nasce così l’uso dell’infinito al posto del verbo flesso presente, imperfetto o futuro, e l’uso del participio al posto del perfetto (conta più l’aspetto che il tempo del verbo: se, cioè, l’azione sia o no compiuta); oppure la neutralizzazione di singolare e plurale nei nomi (i signor, ecc.); l’obliquo dei pronomi esteso al soggetto (mi ‘io’) e l’oggetto diretto e indiretto introdotto da per. Ha spiegato molto bene questi meccanismi di semplificazione Hugo Schuchardt in un famoso articolo del 1909, Die Lingua franca, tradotto in italiano da Federica Venier (La corrente di Humboldt, 2012). Oggi che abbiamo un’importante immigrazione di provenienza anche molto esotica notiamo ancora che lo straniero nella sua interlingua (l’italiano in via di apprendimento) tende a generalizzare la terza persona del verbo mentre noi italiani spesso gli parliamo con l’infinito.
Che nesso esiste tra lingue inventate e saperi segreti?
Qui nasce il problema della segretezza di una lingua, quindi dell’esclusione dal suo accesso. La ragione può essere trovata in motivazioni religiose o in chiusure professionali (lingue speciali) o di gruppo sociale (gerghi). Ma proprio per il gergo si è potuto chiarire bene cosa sia la sua “segretezza”: non l’accorgimento per ingannare le forze dell’ordine (i gerganti si guardano bene dal farsi riconoscere come tali da chi potrebbe loro nuocere), ma un elemento di forte coesione di gruppo legato al tema della diversità specifica e dell’orgoglio di essere marginali. Va detto che anche la cultura letteraria è sempre stata discriminante e escludente a causa delle lingue che la rappresentavano, nella nostra tradizione occidentale le lingue classiche, greco, latino, ebraico, poi le lingue veicolari delle persone colte. Quand’ero bambina mi stupivo di leggere nei frontespizi di alcuni libri della biblioteca di mio papà, libri di storia dell’arte, la dizione “per (sole) persone colte”. Ancora oggi è discriminato culturalmente chi è poco scolarizzato, ma anche chi non padroneggia l’inglese o il linguaggio informatico.
Serenella Baggio insegna Storia della lingua italiana all’Università di Trento. Ha curato con l’Accademia delle Scienze di Vienna e ora con l’Accademia della Crusca la pubblicazione dei materiali sonori raccolti nei campi di prigionia della prima guerra mondiale. Condivide con la Technische Universität e la Biblioteca Universitaria di Dresda un progetto di studio dei manoscritti italiani nelle collezioni sassoni. Monografie: Prezioso e dimesso: la lingua di Arturo Loria al tempo di “Solaria” (Trento, 2004); “Niente retorica”: liberalismo linguistico nei diari di una signora del Novecento (Trento 2012).