“Lingue d’Europa. Elementi di storia e di tipologia linguistica” di Nicola Grandi ed Emanuele Banfi

Prof.ri Nicola Grandi ed Emanuele Banfi, Voi siete autori del libro Lingue d’Europa. Elementi di storia e di tipologia linguistica edito da Carocci: come si è articolato il processo di indoeuropeizzazione dell’Europa?
Lingue d’Europa. Elementi di storia e di tipologia linguistica, Nicola Grandi, Emanuele BanfiIn merito a come si è andato via via formando il processo d’indoeuropeizzazione del quadro linguistico europeo va ricordato che, tra i secoli XIX e XX, si è avuta una straordinaria produzione di contributi scientifici nei quali, con metodi sofisticati e con il ricorso a diverse discipline (archeologia, paletnologia, demologia e varie filologie), studiosi di linguistica storica (e, tra gli italiani, andranno ricordati almeno i nomi di Graziadio Isaia Ascoli, di Vittore Pisani, di Benvenuto Terracini e di Giacomo Devoto) hanno cercato di definire e descrivere i rapporti intercorrenti tra i diversi gruppi linguistici costituenti la macro-famiglia delle lingue indoeuropee considerando tali rapporti in relazione a un ipotetico e ‘unitario’ ambiente linguistico-culturale. In sintesi, si sono avute le seguenti principali teorie: secondo la cosiddetta ‘teoria tradizionale’ il primo processo di indoeuropeizzazione dello spazio linguistico europeo andrebbe collocato all’altezza del V-IV millennio a.C. e sarebbe connesso con migrazioni di ‘guerrieri-pastori’ che, nell’età del bronzo, si sarebbero mossi dall’Asia centrale verso Occidente e si sarebbero via via stanziati nelle sedi ove attualmente sono presenti genti parlanti lingue indoeuropee. E però, secondo la cosiddetta ‘teoria della dispersione neolitica indoeuropea’, migrazioni di genti provenienti dall’Asia centrale sarebbero avvenute a partire già dal VII millennio a.C. e centri di irradiazione del processo di indoeuropeizzazione dell’area europea sarebbero state la penisola anatolica e la penisola balcanica. Infine, secondo la cosiddetta teoria della ‘continuità uralica’, forte anche di contributi derivanti da indagini d’ordine genetico, il processo di indoeuropeizzazione dell’Europa sarebbe dovuto a discendenti dello homo sapiens, che, a partire dal paleolitico e muovendo dall’Europa medio-orientale e più in particolare dall’area uralica, si sarebbero distribuiti in due direzioni: verso l’Asia centrale e meridionale e verso l’Occidente europeo e mediterraneo.

Quale ruolo hanno avuto il greco e il latino nella “modellizzazione” culturale e linguistica dell’Europa?
L’Europa, nella complessità delle sue diverse componenti, è incomprensibile se non si tiene conto del ruolo e della funzione che tradizioni culturali di mediazione greco-latina hanno avuto nella formazione dell’identità socio-culturale e linguistica dei vari tasselli che costituiscono il macro-spazio europeo: lo testimonia il grande, straordinario patrimonio linguistico comune (lessico colto, soprattutto) che, presente praticamente in tutte le lingue d’Europa, è riconducibile appunto alle lingue greca e latina. In tale processo è possibile individuare due essenziali ‘snodi’ temporali: il primo di essi è riconducibile alla fase in cui, all’altezza dell’età imperiale romana, il greco e il latino avevano raggiunto un livello di notevole convergenza linguistica favorita, per altro, dal fatto che entrambe le lingue erano divenute il vettore, in Europa, del messaggio cristiano; il secondo ‘snodo’ coincide con la rottura, in età alto-medievale, dell’equilibrio tra le due lingue e con la formazione di due ‘poli’ d’influenza rappresentati, per l’Europa occidentale, dall’ambiente romano-germanico e, per l’Europa orientale, da quello bizantino-costantinopolitano. Da un lato quindi l’Europa carolingia, erede dell’ideale imperiale romano; dall’altro l’Europa bizantina, erede di Costantinopoli, la ‘seconda Roma’: l’Europa carolingia strettamente ancorata alla grande cultura latino-medievale, l’Europa bizantina ancorata alla egualmente grande cultura greco-medievale, matrice della cultura bizantino-slava. Da questo scenario dipende, del resto, la scissione, ancora oggi ben percepibile, tra le dinamiche linguistiche e socio-culturali intercorrenti tra i paesi dell’Europa occidentale e quelli dell’Europa orientale.

Quando compaiono le prime testimonianze dei gruppi linguistici romanzo, germanico e slavo?
Il celebre ‘Dispositivo del Concilio di Tours’ (a. 813) mirante a permettere la predicazione nei singoli volgari romanzi e germanici può essere considerato la prima testimonianza istituzionale della ‘funzionalità’ di sistemi romanzi e germanici; a pochi decenni dopo (a. 842) risalgono gli egualmente celebri ‘Giuramenti di Strasburgo’ stipulati tra Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo redatti sia in romana lingua (una varietà romanza di base antico francese o provenzale) che in teudisca lingua (una varietà germanica basata sul francone renano). In ambito italo-romanzo la prima testimonianza di un volgare (campano) è rintracciabile nei cosiddetti ‘Placiti capuani’ (a. 960); in ambito ibero-romanzo, le prime testimonianze di un volgare aragonese risalgono al secolo IX; al secolo X risalgono quelle di un volgare catalano; quelle di un volgare asturiano-leonese si collocano all’altezza del secolo XII e quelle di un volgare castigliano sono da attribuire al secolo XIII. Assai più tarde sono invece ascrivibili le testimonianze di sistemi romanzi-balcanici: le prime testimonianze dell’antico dalmatico, in documenti zaratini, risalgono al secolo XIV; singole parole riferibili al quadro romeno si ritrovano in testi paleoslavi del secolo XIV, ma il primo vero e proprio testo redatto interamente in romeno è una lettera del boiaro Neacşu di Cîmplung a Johannes Benker, sindaco di Braşov (a. 1521). Quanto alle prime testimonianze riconducibili al macro-gruppo linguistico slavo, esse risalgono al cosiddetto ‘antico slavo ecclesiastico’, una lingua sostanzialmente artificiale, creata su modello del greco bizantino, a metà del secolo IX dai due fratelli tessalonicensi Costantino-Cirillo e Metodio, gli ‘apostoli’ delle genti slave: a loro si deve il processo di cristianizzazione del mondo slavo (principalmente) secondo linee d’azione proprie della Chiesa bizantina-costantinopolitana.

Quale posizione occupano in Europa l’arabo, le lingue uraliche e le lingue turciche?
Eredità della presenza araba in Europa (la Sicilia fu sotto dominio arabo dall’827 al 1090; l’arcipelago maltese fu egualmente sotto dominio arabo dall’870 al 1090; la penisola iberica fu ampiamente sotto dominazione araba per più di sette secoli, dal 711 al 1492) sono, oltre che significativi monumenti architettonici e testimonianze di impianti urbani e di vasti territori, anche numerosissimi elementi lessicali (qualche esempio, in castigliano: alcade, alarde, arroz, almacén, ecc.; in siciliano, parole quali: zagara, raisi, coffa, carrubba, meschinu, ecc.). E però, oltre a tali testimonianze, particolarmente significativi sono i numerosi, importanti prestiti ricorrenti nella quasi totalità delle lingue d’Europa e dipendenti dall’influsso che ebbe per tutta l’Europa medievale la cultura scientifica araba, mediata dalle traduzioni in latino di testi arabi. Segnalo, esemplificando con l’italiano, alcuni di tali prestiti: algebra, logaritmo, cifra, zero, azimut, nadir, almanacco, taccuino, alchimia, alcool, ecc. Quanto all’oggi, l’arabo è ben radicato in alcuni paesi europei, quale lingua di importanti comunità di immigrati provenienti soprattutto dai paesi arabofoni dell’Africa nord-sahariana e del Medio Oriente: così in Francia, così anche in Germania, in Inghilterra, e anche in Italia, soprattutto nei grandi centri urbani.

Quanto alle lingue uraliche presenti in Europa, le più importanti sono l’ungherese (o magiaro), parlato prevalentemente in Ungheria (ma minoranze magiare sono presenti anche in Austria, Slovacchia, Slovenia, Serbia, Romania, Ucraina); il finnico (o suomi) parlato, oltre che in Finlandia, anche da minoranze distribuite tra Russia, Svezia, Norvegia; l’estone, parlato in Estonia; il lappone, diffuso in Norvegia, in Svezia e nella Confederazione degli Stati Indipendenti (in Russia, nelle regioni di Koltta e Kola). Di nuovo e sempre all’interno della Confederazione degli Stati Indipendenti sono egualmente presenti popolazioni di lingua uralica: significative sono le comunità parlanti il mordvino, il votiaco (o udmurt), l’ostiaco e il sirieno. Quanto alle lingue turciche diffuse in Europa, la più importante di esse è il turco di Turchia che – oltre ad essere parlato nel lembo europeo di Turchia, là ove sta la popolosissima conurbazione di Istanbul – è, per consistenza numerica di locutori, la seconda lingua parlata in Germania: si tratta, a questo proposito, della lingua dei consistenti nuclei di immigrati turchi, provenienti soprattutto dall’Anatolia e ormai perfettamente radicati nei grandi centri urbani tedeschi. Parlanti il gagauso, lingua turcica del ramo meridionale, sono presenti in Moldavia, in Ucraina e in Bulgaria. Infine, nella Confederazione degli Stati Indipendenti sono parlate alcune altre lingue turciche: il ciuvascio, il tataro, il baschiro, il karaita (o karaim), il kipciàk e il kumuk.

Quali dinamiche hanno determinato i processi di formazione delle moderne lingue europee?
Le dinamiche che hanno caratterizzato i processi di formazione delle moderne lingue europee sono molto complesse e articolate, in parte già menzionate nelle risposte precedenti. Dobbiamo ovviamente distinguere tra dinamiche che hanno agito su scala, per così dire, locale, quindi che hanno caratterizzato subaree, gruppi di lingue o singole lingue; e dinamiche più generali, con le quali, in qualche modo, ogni moderna lingua europea ha avuto a che fare. Concentrandoci su queste ultime, non si può non fare riferimento ai tre grandi ‘motori’ dell’Europa linguistica: il greco, il latino e l’arabo. In modo più o meno diretto ogni lingua d’Europa oggi porta i segni, a volte forse poco visibili, dell’apporto che queste lingue hanno dato alla costruzione della moderna Europa linguistica. Se oggi solo a Malta una lingua semitica mantiene lo statuto di ufficialità, in passato la presenza araba è stata, come si è detto, ben più ampia e radicata; possiamo ricostruirla innanzitutto in base ai toponimi, come quelli che incontriamo in Sicilia (Marsala, Calatafimi, ecc.) o in Spagna. Ma l’influenza dell’arabo va ben oltre i confini delle regioni che sono state direttamente arabizzate ed appare evidente ad esempio dal lessico scientifico, come si è detto poco sopra.

Quanto al greco ed al latino, essi hanno plasmato la quasi totalità delle lingue europee, o per filiazione diretta o per influsso indiretto. Per il latino un dato evidente è la diffusione del suo alfabeto anche in aree dove erano in uso sistemi di scrittura diversi (la già menzionata Malta, alcune zone dei Balcani, la Turchia, ecc.).

Conviene però spendere poche parole su alcune dinamiche di respiro meno ampio, ma assai significative. Mi riferisco a quelle che hanno portato alla creazione di due aree linguistiche, quella dei Balcani e quella detta ‘di Carlo Magno’, nell’Europa centrale e settentrionale. Un’area linguistica è una regione in cui sono parlate lingue diverse che, a seguito di contatti sistematici e di lunga durata tra i loro parlanti, hanno sviluppato tratti comuni, cioè hanno cominciato ad assomigliarsi sempre più. In Europa un processo ha coinvolto appunto i Balcani, soprattutto il neogreco, il serbo, il croato, lo sloveno, il bulgaro, il rumeno, l’albanese; e l’area ‘renana’, coinvolgendo il tedesco, l’inglese, il francese, le varietà settentrionali dell’italiano. In queste due aree, le lingue hanno avviato un processo di convergenza, che ha portato allo sviluppo di ‘grammatiche’ piuttosto simili. In sostanza, una sorta di unificazione linguistica che, in alcuni casi, ha precorso quella politica!

Quali sono i caratteri essenziali dei gruppi linguistici indoeuropei e non indoeuropei dell’Europa contemporanea?
Proprio a seguito di questi processi di convergenza, oggi possiamo individuare alcuni tratti ricorrenti nelle lingue europee. Sul lessico ci siamo già soffermati sopra: oggi le lingue europee contano su un bagaglio comune molto ampio di voci lessicali relative soprattutto ai linguaggi tecnici e specialistici.

Ma anche al di là del lessico si scorgono tratti di ampia diffusione. Ovviamente l’omogeneità strutturale è maggiore tra le lingue indoeuropee, che condividono la medesima filiazione genealogica. In esse troviamo una tendenza molto marcata ad una riduzione del sistema dei casi nominali, che raggiunge l’estremo in molte lingue romanze, nelle quali la declinazione sparisce. Un altro tratto ricorrente, e abbastanza inusuale in prospettiva interlinguistica, è quello relativo alla presenza di due articoli, uno definito/determinativo e uno indefinito/indeterminativo. Anche il sistema degli ausiliari è abbastanza omogeneo e imperniato su essere e avere. Le lingue indoeuropee, poi, tendono ad avere, una sintassi imperniata sul principio per cui l’elemento reggente precede quello retto. Ogni struttura sintattica, infatti, è gerarchica e c’è un elemento sovraordinato, che ‘governa’ gli altri. Nelle lingue indoeuropee, la tendenza è collocare per primo l’elemento che ‘governa’: il verbo, dunque, precede il complemento oggetto; il nome tende a precedere l’aggettivo; ci sono preposizioni (e non postposizioni), ecc.

Le lingue non indoeuropee hanno una maggiore difformità, che però non ci impedisce di individuare alcuni tratti ricorrenti. Uno riguarda la sintassi ed è speculare a quello appena evidenziato per le lingue indoeuropee: nelle lingue non indoeuropee l’elemento che ‘governa’ tende a collocarsi dopo gli elementi retti (quindi il verbo segue il complemento oggetto, il nome segue l’aggettivo, ci sono postposizioni, ecc.). Un altro fenomeno di vasta attestazione l’armonia vocalica, cioè un processo di assimilazione ‘a distanza’, per cui la prima vocale della parola tende a modificare le vocali successive (questo fenomeno è attestato ad esempio in turco, in alcune lingue ugro-finniche, ecc.). Infine, possiamo citare una struttura della parola (detta ‘agglutinante’) in cui ogni elemento formale tende ad avere un rapporto biunivoco con il significato: ogni ‘segmento’ della parola, cioè, significa una cosa sola, sia essa lessicale o grammaticale. Sono più rare, cioè, forme come la desinenza latina –ibus, che esprime contemporaneamente l’informazione di numero (plurale) e quella di caso (potendo essere sia dativo che ablativo).

Il basco sfugge ad ogni classificazione linguistica: quali ipotesi si fanno circa la sua origine?
Non è corretto affermare che il basco sfugge ad ogni classificazione linguistica. Sfugge, certamente, alla classificazione genealogica: ad oggi ci è impossibile assegnare il basco ad una famiglia linguistica. Si tratta di una lingua verosimilmente preindoeuropea, quindi di antichissima origine e di complessa attestazione, vista la diffusione relativamente recente della scrittura. Possiamo limitarci a ipotizzare che facesse parte di una famiglia estintasi a seguito dell’indoeuropeizzazione.

Ma il basco non sfugge ad altre classificazioni linguistiche, come quella tipologica, che organizza le lingue in base ad analogie strutturali e non a legami di parentale. In questo senso il basco è ‘classificabile’ come ogni altra lingua: ad esempio, ha morfologia agglutinante, una sintassi orientata alla sequenza ‘elemento retto-elemento reggente’, ecc. E ha un tratto peculiare, tra le lingue europee: quello del sistema di casi ergativo-assolutivo, che, a differenza del sistema nominativo-accusativo, lega la desinenza di caso al ruolo semantico, e non solo sintattico, che un elemento svolge.

Proprio per la scarsa documentazione sulla storia più antica di questa lingua è bene essere molto cauti rispetto alle ipotesi sulla sua origine e, in un certo senso, conviene ‘accontentarsi’ prudenzialmente di una buona classificazione tipologica.

Emanuele Banfi, glottologo e linguista generale, è accademico corrispondente dell’Accademia della Crusca, accademico dell’Academia Europaea e dell’Accademia Ambrosiana. Si interessa prevalentemente di temi di linguistica storica, in particolare del ruolo della grecità linguistica quale tassello essenziale del quadro europeo e del cinese quale grande “lingua-tetto” per le lingue dell’Estremo Oriente e del Sud-Est asiatico.
Nicola Grandi è professore ordinario di Glottologia e Linguistica all’
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Si è occupato di formazione delle parole, in particolare di morfologia valutativa, pubblicando, con Livia Körvelyessy, l’Edinburgh Handbook of Evaluative Morphology; attualmente la sua ricerca si focalizza sulla variazione intra- e interlinguistica, nel quadro di un’interazione tra tipologia linguistica e sociolinguistica. È coordinatore nazionale del progetto UniverS-Ita. L’italiano scritto degli studenti universitari: quadro sociolinguistico, tendenze tipologiche, implicazioni didattiche e condirettore del sito divulgativo Linguisticamente.org. Nel 2017 ha vinto, assieme a Francesca Masini, il premio nazionale di divulgazione scientifica per la classe delle scienze umane con il volume Tutto ciò che hai sempre voluto sapere sul linguaggio e sulle lingue.

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