“«Lingua mortal non dice». Guida alla lettura del testo poetico” di Uberto Motta

Prof. Uberto Motta, Lei è autore del libro «Lingua mortal non dice». Guida alla lettura del testo poetico edito da Carocci: quali dimensioni interagiscono in un testo poetico?
«Lingua mortal non dice». Guida alla lettura del testo poetico, Uberto MottaIl discorso potrebbe essere molto lungo e complesso, nella misura in cui sarebbe opportuno storicizzare e distinguere l’articolarsi dell’espressione poetica attraverso i secoli. Altro è la poesia, per restare anche soltanto all’ambito della tradizione italiana, per gli autori della cosiddetta Scuola Siciliana, ed altro per Francesco Petrarca; una cosa è scrivere una poesia per esempio nella Milano di Giuseppe Parini, e un’altra nella Milano di Eugenio Montale o Vittorio Sereni. Con una coraggiosa ma forse necessaria semplificazione, però, si potrebbe dire che, nel testo poetico, le dimensioni che interagiscono sono essenzialmente due: da una parte c’è il vissuto esperienziale dell’autore, la ferita, superficiale o profonda, che il semplice fatto di vivere lascia nel cuore, nella coscienza o sensibilità o memoria di ciascuno. Non la poesia, ma almeno la disposizione alla poesia, il desiderio – anche inconsapevole – della poesia nasce sempre a partire da una ferita, da una impressione che, magari inavvertitamente, va a depositarsi in profondità, tra le fibre più intime del soggetto. A volte la vita, l’esperienza si impongono con una tale repentina forza che l’orma, la traccia lasciate dentro di noi paiono, letteralmente, indicibili, irriducibili a tutto ciò che è stato vissuto e scritto prima. Ed è proprio a partire da questo scacco, da questo fallimento, come lo chiamava Sereni, che inizia il ‘lavoro’ del poeta, su quella che possiamo considerare la seconda dimensione essenziale. Si tratta infatti, con un inseguimento che può essere anche molto prolungato nel tempo, molto faticoso, di trovare le parole, le forme, le immagini capaci di dare un corpo, una sostanza espressiva a quell’urto, a quell’offesa di cui ho detto. Ancora Sereni diceva che si convive a lungo con i fantasmi di poesie non scritte: la poesia nasce quando finalmente a questi fantasmi si riesce ad attribuire un corpo verbale.

Quali fattori essenziali occorre considerare nella lettura e nell’analisi di un testo poetico?
Nello scrivere questa Guida alla lettura del testo poetico, sinceramente, la mia prima preoccupazione è stata quella di non uccidere, di non soffocare la poesia, la gioia e il godimento, il tormento e la tensione che sempre la lettura della poesia dovrebbe procurare. Dall’inizio alla fine ho cercato di evitare di far credere che la poesia possa essere ridotta a campo di applicazione per metodi, tecniche, dispositivi…

Mi viene a mente una battuta esemplare di Roman Jakobson. Interrogato circa l’utilità, la necessità di metodi d’analisi molto sofisticati, come per esempio quelli che lui stesso aveva applicato ai testi di Baudelaire, Jakobson risponde: è come con le rose. Perché si regala una rosa? Per condividere la sua bellezza, il suo colore, il suo profumo, la sua forma, la sua preziosità… non perché chi la riceve si metta immediatamente a studiarla al microscopio, in laboratorio. Nessuno regala una rosa perché chi la riceve vada immediatamente in biblioteca, a prendere un manuale di botanica che della rosa sveli i parametri storici e genetici che ne consentono la classificazione… Eppure, conoscere come quella forma, quel profumo, quel colore si producono, cioè – fuor di metafora – provare a logicizzare e razionalizzare il mistero, l’impatto che ha su di noi il mistero di una bellezza che ci si offre nella sua imprendibile gratuità, mi rende capace di godere meglio di quella bellezza.

Con la poesia dovrebbe succedere un po’ la stessa cosa. In primis ci deve essere, ci dovrebbe essere sempre il fascino, l’incantamento, il piacere del testo. Il grande filologo Gianfranco Contini nel 1965, in relazione al caso sublime della poesia di Dante, lo aveva detto con grande chiarezza: rivendico il diritto di godere prima di capire. E ciò vale tanto per la poesia antica come per quella moderna e contemporanea.

Poesie come Carnevale di Gerti o Dora Markus, per fare due esempi montaliani, nella mia personale esperienza sono state letteralmente, a una prima lettura, incomprensibili. Eppure si deve partire da lì, di fronte a questo, come lettori, occorre arrendersi: è un’incomprensione rigenerante, che cattura e che sollecita, che spinge lo sguardo a voler andare più a fondo. La prima volta che ho letto Dora Markus ero uno studente all’ultimo anno delle scuole superiori; e non ho capito nulla: ma ho sentito che avevo davanti qualche cosa che, misteriosamente, mi riguardava, e mi riguarda. È una simile attrazione, o repulsione, magnetica, se vogliamo, il primo fattore essenziale. Poi falla fascinazione nasce il desiderio di capire, di studiare, di analizzare, per provare a razionalizzare quella scossa, quel fremito che la lettura ci ha trasmesso. Si innesca così una feconda dialettica: nasce un pendolarismo tra i due poli, quello dell’amore e quello della scienza. Se si vuole essere dei veri scienziati della poesia, bisogna esserne davvero innamorati, altrimenti si sarà al più degli abili tecnici. Succede, in fondo, con la poesia come con le persone.: è un incontro generatore di curiosità, sorpresa, stupore, che fa nascere il desiderio di saperne di più. Mai viceversa.

Quale importanza hanno la la metrica e lo stile nella valutazione di una poesia?
La poesia, banalmente, è scritta in versi: e questo non è un accidente, è essenziale. Vuol dire che il discorso, il testo, respira obbedendo non a uno ma a due cuori: il cuore logico della sua organizzazione sintattica e del pensiero che in essa si distende, e il cuore musicale della sua partitura ritmica. Attilio Bertolucci, davanti ad alcuni studenti delle scuole medie, cercando di spiegare questo punto, citava il primo verso dell’Infinito di Leopardi. “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”. E poi lo riscriveva: Questo colle ermo mi fu sempre caro. Le parole – commentava Bertolucci – sono le stesse, il contenuto letterale dell’enunciato non cambia, ma la poesia è svanita. Perché? Che differenza c’è tra “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” e Questo colle ermo mi fu sempre caro? Lo spostamento del soggetto grammaticale – quest’ermo colle – alla fine dell’endecasillabo crea una tensione, produce una suspence che riempie il verso di energia, dinamizzandolo dall’interno: lascia il lettore con il fiato sospeso, fino al compimento ritmico dell’enunciato. La dichiarazione d’amore di Leopardi, perché di questo si tratta, comincia d’altro canto con il più drammatico degli avverbi: Sempre. Chi scrive è un giovane di poco più di vent’anni: ma immediatamente colloca i suoi affetti, le sue predilezioni – quel luogo, quel colle che sono il sigillo stesso della sua identità umana e poetica – nella sfera dell’atemporalità. L’avverbio Sempre evoca per l’appunto quella dimensione che spaventa, di fronte alla quale le umane dichiarazioni di fedeltà sembrano recalcitrare. All’opposto Leopardi, con un gesto che è stilistico e metrico, ma anche psicologico ed ideologico, pone in testa a questa sua straordinaria lirica Sempre: con una semplice inversione dell’ordine delle parole nel verso, promuove l’avverbio e lo illumina per aiutare il lettore a cogliere subito la gravitas di quanto ci sta per confidare. Sempre caro: i due bisillabi piani, con la successione di sillabe toniche e atone e la ripetizione della consonante R, creano una musica insieme solenne e pacata, come si addice a ciò che è il risultato non di un’emozione effimera, passeggera, ma di un lungo meditare su se stessi e sul senso della propria vita. Eccetera.

Ho insistito un po’ scolasticamente su questo esempio, per tentare di mostrare come la metrica e lo stile siano davvero la sostanza autentica del discorso poetico. Ci sono le idee, i sentimenti, le intuizioni… ma questi elementi, sostanzialmente extrapoetici, assumono il loro più proprio e specifico valore proprio per le sfumature e gli approfondimenti generati dalla partitura ritmica e musicale a cui appartengono.

Quali diverse forme può assumere un testo poetico e in che modo la forma di una poesia ne condiziona l’espressione?
In parte credo di avere già risposto a questa domanda. Storicamente si deve aggiungere che nel lungo arco di sviluppo della tradizione poetica italiana, all’incirca dalla metà del Duecento a oggi, si constata facilmente una oscillazione tra spinte innovative e tendenziale fedeltà. Tra desiderio di attingere, ogni volta, alla forma nuova e unica ed esclusiva, che possa davvero dire quanto urge nella coscienza di chi scrive, e reimpiego o ricalco di moduli e forme già sperimentati e codificati, che hanno dimostrato la loro funzionalità e plasmabilità. Da una parte molti autori, specie tra i contemporanei, hanno più volte ribadito l’impossibilità di appoggiarsi al già fatto: è come se la ‘forma’ dovesse ogni volta essere reinventata, in ragione e per effetto delle sollecitazioni che agiscono all’origine della scrittura. Ma questa ri-creazione, d’altro canto, specie dentro una tradizione sublimemente conservativa come quella italiana, non avviene mai ex nihilo. Niente di più fuorviante che credere, diceva ancora Contini a proposito di Leopardi, che il poeta si inventi ogni volta forme e ritmi dal nulla. Le sue letture, le sue esperienze di scrittura precedenti interagiscono e in qualche modo guidano la sua mano.

Quale importanza rivestono l’intertestualità e le circostanze storiche della sua composizione?
Partiamo dal secondo punto. La storicizzazione è sempre indispensabile per una corretta valutazione. L’autore di un testo poetico, infatti, trae le sue motivazioni, consapevoli o meno, e i suoi referenti, dal tessuto storico, geografico e culturale in cui vive. Il lettore, specie se appartiene a un’altra epoca o a un’altra cultura, per comprendere il testo deve riuscire a collocarlo nella giusta prospettiva. De ve collocarlo dentro le coordinate che ne hanno reso possibile e condizionato la costruzione. Come ha detto Cesare Segre, «una lettura che consideri il testo in sé, mettendo tra parentesi il contesto, è impossibile». Chi scrive parte sempre dalla realtà storica di cui ha fatto esperienza, sintetizzandola in modo implicito o esplicito, e facendo evidente ricorso ai codici comunicativi, (linguistici, formali, simbolici, propri della sua epoca. Il poeta può rievocare espressamente nel testo episodi o dati storici, che il lettore deve conoscere per accedere al suo messaggio.

Ma più in generale, all’atto della composizione, elabora un discorso codificato in base ai parametri reali e immaginari della sua cultura, che spesso differisce in maniera radicale da quella del lettore. L’invenzione letteraria è impregnata di vissuto: non può che nascere a partire dalle esperienze linguistiche e letterarie del suo autore, dai libri che ha letto e dalle persone che ha incontrato, dai luoghi che ha conosciuto e dagli ideali o sogni per cui si è battuto. Con una poderosa operazione di sintesi, ma anche di metamorfosi e travestimento, un intero percorso di vita, per lo più all’interno di una collettività con cui si sono, almeno in parte, condivise paure e aspirazioni, è ripensato e rielaborato nel dare voce all’espressione poetica.

Inoltre. Un grande e grave errore di prospettiva, come dicevo prima, è credere che l’originalità, l’unicità eccezionale, la creatività pura siano l’unico modo di essere e di porsi del linguaggio poetico. La poesia è anzi l’opposto; per la sua stessa natura è arte supremamente allusiva, che nasce passando per il filtro della memoria, della cultura dell’autore. Si giova, più o meno consapevolmente, della tecnica del riuso, per attivare i propri percorsi di significazione, per portare a compimento il desiderio di una piena risoluzione dell’urgenza interiore nel testo.

Le parole hanno un loro significato letterale, diretto e immediato, che troviamo spiegato nei vocabolari. Ma all’interno del testo poetico un senso più profondo e completo si genera per effetto di una trama di allusioni che esse attivano con altri testi della tradizione letteraria, precedente o contemporanea. Il riuso, calcolato o involontario, consapevole o irriflesso, è sempre generatore di senso, nella misura in cui la scrittura poetica, fin dalle origini della cultura artistica occidentale, si pone come un gesto di dialogo: non solo dell’autore con i suoi lettori, ma anche dell’autore con gli autori che lo hanno preceduto. La parola poetica è sempre, in quest’ottica, una parola di consenso o di dissenso rispetto a un discorso che la precede ed è già in corso, avvertito, di volta in volta, come esemplare, autorevole, provocatorio, meritevole di sviluppo, verifica, discussione, fino alla critica e alla più radicale confutazione. In un celebre saggio del 1942, intitolato Arte allusiva, il grande filologo classico Giorgio Pasquali ha spiegato la questione con un’immagine credo efficace: La parola poetica è come acqua di un fiume che riunisce in sé i sapori della roccia dalla quale sgorga e dei terreni per i quali è passata.

Quali valori fonosimbolici caratterizzano il testo poetico?
La musica del testo – è stato suggerito a proposito di Dante –, cioè l’effetto prodotto dalla materiale consecuzione di suoni vocalici e consonantici, traduce in una sensazione acustica una particolare condizione spirituale o esistenziale, oggettivandola. Le parole in poesia, oltre che veicolare il loro significato, creano rapporti di suono, i quali, potenzialmente, interagiscono con il senso del testo, arricchendolo, approfondendolo, enfatizzandone taluni snodi e passaggi. Come accade nella musica e nella danza, anche in poesia suoni e ritmi, di per sé, astrattamente considerati, privi di significato, attraverso la costruzione di rapporti di simmetria, asimmetria, iterazione, parallelismo, eccetera concorrono alla determinazione del senso complessivo del discorso. Questa prospettiva di ‘ascolto’ del testo poetico, in particolare, è stata perseguita da Giorgio Orelli, con finissime indagini che hanno portato alla luce la capacità propria dei grandi autori della tradizione, antica e moderna, di utilizzare il suono delle parole e il ritmo dei versi come cassa di risonanza del loro contenuto, come dimensione dentro la quale il significato letterale riecheggia con variazioni e sfumature d’accento.

Si impongono subito due precisazioni, a scanso di equivoci. Il poeta non è sempre, immediatamente e fino in fondo consapevole dell’autonoma forza, della dinamica evocativa che i fenomeni fonici attuati nel testo possiedono. Sulla loro intenzionalità il lettore si deve interrogare caso per caso, pur sapendo che poeti del calibro di Dante, Petrarca o Leopardi dimostrano mediamente un grado molto elevato di controllo. E sapendo che l’eventuale non intenzionalità di un fenomeno non lo rende meno interessante. Chi scrive poesia, infatti, almeno in parte si rimette e si affida alla possibilità che suoni e ritmi del discorso generino un proprio ‘messaggio’. È una qualità propria del testo poetico: il suono linguistico assume funzione rappresentativa.

Prendiamo due esempi celebri ed estremi. All’inizio del VII canto dell’Inferno Dante dà voce alla minaccia proferita dal demonio custode del cerchio dove sono puniti avari e prodighi; parla in un linguaggio misterioso e quasi incomprensibile, inventato dal poeta, ed esclama: «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!». In maniera simile, nel canto XXXI il gigante Nembrot grida: «Raphèl maì amècche zabì almi». Al di là dei legittimi tentativi compiuti dagli studiosi per riconoscere, dietro queste combinazioni foniche, termini latini greci o ebraici deformati, Dante qui si affida quasi completamente ai suoni della lingua, che, anche se letteralmente potrebbero non voler dire nulla, o risultare comunque incomprensibili per i lettori, per la loro asprezza veicolano un senso di minaccia, di rabbia impotente e di crucciato stupore, da parte delle due creature infernali, al cospetto di un vivo. Si parla in questi casi quando, cioè, i materiali fonici assumono valore simbolico, generando linee di significazione al di là del senso letterale del testo, di fonosimbolismo.

Quale valore e quale potere ha la poesia?
A questo è dedicato l’ultimo capitolo del mio libro. Per non ripetere quanto lì ho scritto, e per provare invece ad affrontare la questione da un’altra prospettiva, faccio riferimento a un saggio molto bello e molto importante dedicato a Petrarca da Andrea Zanzotto. Riflettendo sul mondo poetico del maggiore dei nostri lirici, Zanzotto elabora alcune categorie che mi sembra possiedano una tenuta anche al di là del caso specifico. Perché la poesia? si chiede Zanzotto. Il distacco, osserva, è la condizione originaria del gesto poetico, e il suo primo effetto benefico: la poesia, che la si scriva o la si legga, trae la sua forza dal dubbio, dall’allentamento della capacità o disponibilità del soggetto a partecipare a questo modo di essere del mondo. Entrando nell’universo del poetico, aprendo semplicemente un libro di poesia, per un verso smetto di vivere, e per l’altro sono condotto ad osservare la vita, la realtà da una prospettiva nuova, da una angolatura imprevista e inattesa. Se la poesia è una ‘bolla’ al riparo dalle forze urticanti del presente, se la poesia si legge e si scrive nella propria ‘cameretta’ – come la chiamava Petrarca –, non è però una bolla sterile. Quel che lì si genera, radicalmente, è la domanda, la denuncia, la messa in discussione. Zanzotto citava l’incipit del sonetto 323: Che fai? che pensi? che pur dietro guardi? E in quei tre interrogativi coglieva la sintesi di tutto il Canzoniere: sono tre domande che Petrarca rivolge a se stesso e a tutti, in cui la frustrazione si traduce in spasmodica ricerca di verità e identità.

Questo è, generalizzando, il valore o potere della poesia: rendendoci consapevoli della limitatezza del nostro io, obbligandoci a relativizzare e ridiscutere le nostre apparenti certezze e sicurezze, ci spinge ad andare un passo più in là. Ci restituisce a una vitalità non più addomesticata, ma originaria. C’è la frustrazione: cioè c’è sempre, all’origine della scrittura poetica, un rifiuto, un disagio, un senso di insoddisfazione, un bisogno di protesta e di denuncia di fronte ai limiti, di fronte alle storture della storia e di ogni super-io. Anche il poeta più integrato, più soddisfatto, per prendere la penna in mano ha bisogno di questo guizzo, di questo senso profondo, e profondamente morale, di una mancanza, di un deficit, di una nostalgia. E poi, a partire da qui, si destano la ricerca, il desiderio, il sogno di una ipotesi diversa, migliore. Anche Leopardi ne ha parlato: attraverso la messa in crisi del quotidiano, denunciandone la natura deludente, la poesia ne auspica, più o meno esplicitamente, il superamento. Questo invito a ‘superarci’ è il regalo che la poesia offre a ogni lettore. È la sua, come la chiama Zanzotto, ‘buona testimonianza.

E forse in questo senso si può anche intendere il concetto di sacralità della poesia, persino ovvio nelle sue primissime attestazioni storiche, quando cioè il poeta era insieme un medico, un mago e un sacerdote. È vero che quella del poeta non è in genere una parola facile, immediata, e neppure conciliante: però è una parola efficace, ‘magica’. Quale auspicio del non-ancora, quale immaginazione di un futuro compimento, che consenta di intuire quello che davvero ci corrisponde, e che invece l’orizzonte spesso limitato del presente ci sottrae. E qui si tornerebbe all’Infinito di Leopardi…

Uberto Motta è professore ordinario di Letteratura italiana presso l’Università di Friburgo (CH). Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso l’Università Cattolica di Milano. Come visiting professor ha insegnato inoltre presso le università di Mosca, Novgorod, Budapest e Basilea. Nelle sue ricerche si è occupato prevalentemente della letteratura del Rinascimento e del Novecento. Tra le sue principali pubblicazioni: Ritrovamenti di senso nella poesia di Zanzotto, 1996; Castiglione e il mito di Urbino, 2003; Quando il ghiaccio si rompe. Esperienze poetiche novecentesche, 2017; Lingua mortal non dice. Guida alla lettura del testo poetico, 2020.

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