
Per fare un po’ d’ordine in questo dibattito potremmo cominciare con il dire che il concetto-chiave di rappresentanza, come molti altri termini del lessico politico, è polisemico, sta ad indicare più cose. Innanzi tutto, rappresentanza sta ad indicare un principio di legittimazione politica (consensuale e ascendente contrapposto a quello di origine teocratica discendente o semplicemente autoritario), poi un insieme di strutture istituzionali specializzate (soprattutto elezioni, sistemi elettorali e Parlamenti, gli “organi di teatro” come li chiamava Massimo Severo Giannini) e le loro connessioni funzionali e interistituzionali con gli esecutivi (forme di governo), infine indica anche delle logiche operative-decisionali volte a favorire l’espressione delle differenze e del pluralismo e soprattutto la convivenza pacifica tra diversi interessi e valori.
Ora la crisi, intesa come perdita di rilevanza funzionale, del momento della rappresentanza può riguardare uno o più di questi diversi aspetti o livelli. In verità oggi la sfida alla rappresentanza è radicale perché sembra investire certo le regole e le istituzioni (declino dei Parlamenti e critica alle elezioni), sicuramente gli attori (i partiti tradizionali, specie se di governo contro i nuovi partiti di protesta o neopopulisti), ma sempre di più sono anche le premesse di principio ad essere messe in discussione (la ricerca di una democrazia più autentica e immediata).
Per chiarire il punto, forse, occorre andare un po’ oltre e riflettere più da vicino sul significato della nozione stessa di rappresentanza. Volendo semplificare al massimo la rappresentanza politica sta per un tipo di relazione che ha a che fare con un “modo di essere” (identità) o con un “modo di agire” (funzione). Io rappresento qualcuno perché siamo in qualche modo simili per storia e caratteristiche (rappresentatività o rappresentanza sociale o descrittiva) o perché rifletto un universo di senso e simbolico condiviso, come nel caso del Capo dello Stato che rappresenta la nazione (rappresentanza simbolica). In questi casi si tratta di un standing for. D’altra parte, sta la rappresentanza come modo di agire attraverso il quale «il rappresentante deve perseguire gli interessi dei propri elettori in modo per lo meno potenzialmente responsivo ai loro desideri» (per riprendere una citazione della Pitkin: The Concept of Representation, Berkeley, University of California Press, 1967; trad. it. Il concetto di rappresentanza, Rubbettino, 2017, p. 313). In questo caso, l’azione del rappresentare ha il significato (politico) dell’autorizzare a decidere (acting for), ciò implica una forma di “responsabilità” a carico del decisore-rappresentante nei confronti dei rappresentati. E anche questo aspetto quello di un sistema di governo “responsabile”, che risponde a qualcuno (principalmente agli elettori) non è una invenzione da poco nella storia dell’umanità.
Ma forse c’è ancora qualcosa di più. La relazione di rappresentanza, per ragioni di valore ed emotive o per interessi contingenti, implica un rapporto fiduciario (rappresentanza virtuale). Al di là di ciò che sono e di ciò che fanno, a legare assieme rappresentanti e rappresentanti è l’esistenza di una fiducia. Forse oggi la crisi della rappresentanza sta proprio nel venir meno del collante espressivo-fiduciario che lega gli uni a gli altri, eletti ed elettori, governanti e governati. La fiducia (Hirschmann direbbe la lealtà) non solo rafforza il legame, ma consente di accettare le scelte anche quando queste non le condividiamo perché o non corrispondono ai nostri interessi. Ma se si rompe si scatena il risentimento e il populismo.
Quali sono le principali sfide alla rappresentanza nella democrazia contemporanea?
Alcune sfide sono intrinseche al rapporto stesso di rappresentanza che introduce una separazione tra rappresentante e rappresentato. In questo modo si spezza l’immediatezza del rapporto tra cittadini e istituzioni che si vorrebbe caratterizzare una democrazia autentica e attraverso la mediazione si inserisce nella relazione rappresentativa un rischio esiziale per la democrazia. Quel rischio che aveva colto bene Rousseau, quando avvertiva il pericolo che gli inglesi fossero liberi solo il giorno delle elezioni. O quello ancora più stridente colto da Michels che, guardando all’evoluzione della Socialdemocrazia tedesca, avvertiva agli inizi del ‘900 che dire rappresentanza voleva dire organizzazione e questa sostanzialmente si risolveva in una oligarchia: è la nota legge ferrea dell’oligarchia (1911). A questo livello del ragionamento saremmo nel terreno esplorato, tra gli altri, da Norberto Bobbio, quello delle promesse non mantenute o dei paradossi della democrazia. Vale la pena di ricordarle: il contrasto tra la democrazia quale regime adatto alle piccole comunità e le grandi dimensioni degli Stati contemporanei; tra l’efficacia del controllo democratico e l’aumento spropositato degli apparati burocratici (si pensi oggi all’Eurocrazia); tra l’incompetenza del cittadino e il ruolo degli esperti; tra l’autonomia del cittadino e l’eterodirezione della società di massa. Come si vede si tratta di paradossi che, richiedono giusto un po’ di aggiornamento, e che investono pienamente la rappresentanza, le sue premesse di fatto e di valore.
A quelle individuate da Bobbio (ma si veda anche l’analisi dei paradossi della democrazia che fa Gino Germani) oggi ne possiamo aggiungere altre più rilevanti per il nostro libro:
- La sfida della globalizzazione nelle sue diverse componenti (economico-finanziaria, tecnologica, socio-culturale), che introduce un gap strutturale tra democrazia rappresentative ancorate agli stati nazionali e lo sviluppo dell’interdipendenza tra paesi e sistemi e la rilevanza di fenomeni transnazionali (flussi economici, terrorismo, e criminalità organizzata, questioni ambientali e demografiche), che trascendono i confini territoriali. Negli ultimi decenni, la crescente interdipendenza economica a livello globale ha tolto molti poteri agli stati nazionali, e fatalmente ha reso meno incisive le loro politiche, nel contempo senza riuscire a dare legittimazione democratica alle istituzioni internazionali.
- La sfida della diseguaglianza, esplosa con la crisi economica del 2008 ma che porta in luce con forza drammatica tendenze in atto già da lungo tempo volte a favorire la crescita dei divari tra paesi, anche all’interno della stessa Unione Europea, e all’interno dei diversi paesi, specie se deboli economicamente, tra territorio e gruppi sociali (si pensi in particolare al Mezzogiorno d’Italia). Capitalismo e democrazia rispondono a principi operativi e logiche di legittimazione ben diversi. Ma non possiamo non rimarcare che una buona democrazia richiede ampie libertà e maggiore eguaglianza socio-economica. L’allargamento delle diseguaglianze mina una delle condizioni sociali dell’esistenza dei regimi democratici, la centralità della classe media e allo stesso tempo rende saliente il nuovo cleavage tra esclusi e inclusi, tra ristretti privilegiati (compresi i politici) e la stragrande maggioranza di cittadini che vede ridursi la propria protezione socio-economica.
- La sfida del multiculturalismo, che produce una rottura nel trittico democrazia, cittadinanza e partecipazione e che legava la cittadinanza all’appartenenza nazionale. Per contro, le comunità politiche oggi sono sempre più eterogenee (immigrazioni, crisi umanitarie, pluralismo culturale, ri-attivazioni di fratture centro-periferie) e sempre più difficilmente rappresentabili e governabili alla luce della tradizionale politica dell’emancipazione (Giddens). Non a caso il voto per i partiti c.d. neopopulisti è stato spiegato, anche di recente con riferimento alle elezioni italiane del 2018, con un mix di voto economico (il risentimento degli esclusi dai benefici economici e dalla protezione) e di voto culturale (la ricerca di un capro espiatorio negli altri).
- La sfida dei cittadini insoddisfatti, non solo come diceva Bobbio il cittadino è oggi sempre meno “educato” (informato e interessato) ma è sempre più insoddisfatto e arrabbiato. Le nostre sono “democrazie di insoddisfatti” e quindi democrazie sempre più radicalizzate e polarizzate con due esiti principali la competizione elettorale è sempre più giocata attraverso lo scontro tra la “casta” degli eletti privilegiati e la “gente comune” si percepisce, e spesso lo è effettivamente, sempre più abbandonata a se stessa.
Siamo alla vigilia di una mutazione genetica della democrazia stessa?
La democrazia (rappresentativa) è un regime giovane, volendo farla iniziare con l’epoca delle rivoluzioni liberali e considerando anche la Gloriosa Rivoluzione inglese (1688) ha non più di tre secoli di vita. Ma il vero e proprio secolo della democrazia è il secolo breve ma drammatico, il XX. Anche se solo dopo la terza (o quarta come sostengono alcuni) ondata di democratizzazioni, che ha come punto di riferimento il crollo del muro di Berlino (1989), la democrazia è divenuta un regime politico modale nel panorama internazionale. Tali cambiamenti quantitativi e di diffusione del regime democratico vanno di pari passo con mutazioni qualitative.
Già un primo cambiamento qualitativo cruciale era stato conseguente al mutamento di scala, cioè al passaggio dalla democrazia su piccola scala, un regime comunitario (polis, città-stato) alla democrazia su larga scala (stato territoriale e nazionale, ma anche stati federali, come gli Stati Uniti). La differenza tra la democrazia degli antichi e dei moderni sta proprio nell’invenzione (e in parte nel riadattamento) degli istituti della rappresentanza elettiva e nel ruolo dei partiti politici. Da questa fase in poi le trasformazioni sono interne al regime rappresentativo. Nel libro proponiamo il quadro interpretativo di Manin che vede una trasformazione della democrazia (più esattamente del governo rappresentativo) dal parlamentarismo integrale del XIX secolo, alla democrazia dei partiti (del XX) alla democrazia del pubblico (del XXI secolo). Con questa ultima trasformazione che costituisce ancora una fase aperta e in evoluzione. La distinzione tra questi tre modelli è basata sulla logica di funzionamento proprio della rappresentanza, nel primo modello centrato sulle élite notabiliari (regimi monoclasse), nella seconda dei partiti di massa (regimi pluriclasse) e nella terza dal ruolo del circuito leader-media-elettori (regimi inter- o post-classe). Nel complesso si tratta di una parabola che sposta il fulcro della rappresentanza dai soggetti individuali ai soggetti collettivi e nuovamente ai primi. In questo scenario la mutazione genetica della democrazia è prodotta da fattori sia esterni che interni. Tra i primi abbiamo già accennato alla globalizzazione, un’altra importante trasformazione è costituita dalla rivoluzione dei media, dalla Tv alle tecnologie del digitale. Tra i fattori interni il declino dei partiti di massa e la comparsa di nuovi partiti elettorali costituisce un passaggio altrettanto cruciale.
Alcuni sostengono che la democrazia si è trasformata in una postdemocrazia: è realmente così?
L’etichetta ha avuto un certo successo ed è suggestiva, ma forse non del tutto efficace. Com’è noto il concetto si deve a Colin Crouch che ne scrive agli inizi degli anni 2000. Post-democrazia è una democrazia che sta sperimentando una parabola discendente, al di là del rispetto degli aspetti formali, anzi sovente rinforzati, della democrazia: 1. i cittadini vi svolgono un ruolo sempre più passivo, acquiescente, apatico; 2. la politica viene decisa dalle interazioni tra governi eletti ed élite che rappresentano prevalentemente interessi economici; 3. la competizione elettorale è saldamente nelle mani di gruppi di professionisti esperti nel controllo dei media e della manipolazione dell’agenda pubblica. In questo senso la post-democrazia denuncia la crisi, se non l’ipocrisia, della democrazia rappresentativa.
Tale analisi coglie delle reali criticità dei mutamenti interni alla democrazia e denuncia un deterioramento della qualità delle nostre democrazie. Aspetto questo però ben più ampio del riferimento alla centralità dei gruppi di interesse e al ritorno delle élite. In particolare le trasformazioni strutturali che hanno caratterizzato le nostre economie oltreché i sistemi politici a partire dalla stagflazione degli anni Settanta, e dopo la crisi economica più recente (2007-08), nota come la seconda “Grande Recessione”, dopo quella del ’29, ha alterato profondamente il funzionamento di quelli che abbiamo chiamato i canali della rappresentanza politica: quello dei partiti e dei sistemi partitici; quello dei gruppi di interesse e quello dei movimento sociali. In particolare, le democrazie europee e occidentali dalla data della crisi hanno registrato il declino dei partiti tradizionali, tanto più se di governo, così come dei grandi sindacati. In breve, dei due attori della rappresentanza che erano riusciti fino ad oggi a mediare i conflitti sociali, mentre è cresciuto il livello di conflitto sociale. L’esito è che le democrazie del XXI secolo sono sempre più regimi caratterizzati da radicalizzazione e da instabilità. Rispetto al modello di Crouch il quadro è più articolato, per es. con riferimento al Sud Europa si delineano tre reazioni alla crisi: aumento dell’alienazione che spesso però avvantaggia i partiti tradizionali (Portogallo); crescita della protesta e rilevanza acquista dai nuovi partiti di protesta (Italia); rilevanza del ruolo dei movimenti sociali e rapporti con i partiti di protesta (Spagna e Grecia). Molti di questi temi sono affrontati nella seconda parte del libro dedicata alla sfida degli attori.
Come è destinata a cambiare la rappresentanza politica nell’epoca delle reti digitali?
La comunicazione come processo sociale riguarda almeno tre aspetti: gli attori in campo e la loro relazione; il contenuto o messaggio; il medium o l’infrastruttura tecnologica. La rivoluzione digitale ha inciso su tutti e tre questi livelli della comunicazione-partecipazione politica. Da tempo la crisi dei partiti di massa era stata anche il prodotto della trasformazione del contenuto dei messaggi trasmessi all’opinione pubblica. I partiti si erano già adattati, più o meno passivamente, alle nuove esigenze della comunicazione politica: personalizzazione, spettacolarizzazione e trivializzazione, mediatizzazione, ecc.. D’altra parte, i nuovi partiti di protesta trovano nelle tecnologie della comunicazione digitale degli strumenti formidabili non solo di trasmissione di messaggi e influenza politica, ma anche per costruire infrastrutture organizzative soft. I nuovi media (internet, piattaforme virtuali, social network) diventano strumenti di mobilitazione dei simpatizzanti, mezzi idonei a dare coesione al partito e a strutturare (sia pure in forme deboli) il rapporto tra leader e attivisti, uno strumento infine per favorire forme espressive di democrazia interna (scelta dei leader, dei candidati alle elezioni, di temi politici rispetto ai quali impegnare il partito). In questo senso sono i nuovi partiti sono partiti virtuali o partiti rete. Il punto centrale è che questa forma di cyber politics è tanto più immediata tecnicamente, quanto più esclusiva socialmente, lascia fuori tutti gli elettori poco o punto connessi (digital divided) e, inoltre, è manipolatoria politicamente. Trasferisce il potere (enorme) organizzativo nelle mani delle élite e delle tecnocrazie che controllano piattaforme e algoritmi. Quindi grandi opportunità (open government) ma anche grande rischi per la qualità della democrazia. Parallelamente, il progresso tecnologico ha interconnesso il mondo, balcanizzando però lo spazio del dibattito pubblico (Manin), che nella dimensione virtuale ha aperto enormemente l’accesso, ma in un’assenza di regole civili storicamente inedita.
In che modo gli attori politici si pongono dinanzi al tema della rappresentanza?
In maniera contraddittoria, da un lato specie i nuovi partiti di protesta canalizzano il risentimento e l’insoddisfazione degli elettori. In questo modo, trasmettono domande inascoltate o rimaste fuori dall’agenda decisionale. Così facendo danno smalto alla rappresentanza e favoriscono l’innovazione della stessa democrazia. L’innovazione in politica ha mille volti: la semplice circolazione delle élite, ma anche la tematizzazione o il cambiamento delle politiche e, finanche, la riforma del regime politico (riforme istituzionali più partecipative). In particolare, questo ultimo aspetto è centrale, come dimostra anche il caso italiano, ma sempre più insufficiente. L’insoddisfazione degli elettori richiede altro, sul versante delle politiche l’attenzione è verso misure redistributive volte a mitigare la diseguaglianza, ovvero verso politiche di riforma ora dirette a ridurre i privilegi dei rappresentanti ora più inclusive verso i rappresentati (leggi elettorali proporzionali; introduzione di limiti di mandato; allentamento dell’autonomia degli eletti rispetto agli elettori; ecc…).
Di recente Bernard Manin (in un articolo che raccoglie la sua lectio magistralis per il conferimento della Laurea Honoris Causa in ‘Governo e Comunicazione Politica’ attribuitagli dell’Università di Urbino il 25 marzo 2015.) ha richiamato la “resilienza” delle istituzioni rappresentative, la loro capacità di adattamento. In questo contributo il politologo francese ribaltava provocatoriamente il quesito su cui interrogarsi: così come i più acuti storici dell’antichità invitavano a chiedersi non tanto perché l’Impero Romano fosse caduto, ma perché fosse durato tanto a lungo, così in relazione alla rappresentanza dovremmo indagare non tanto i motivi della sua crisi, quanto le ragioni del suo successo. Del resto, se il governo rappresentativo si è adattato alle trasformazioni passate non significa che sarà, per questo, in grado di adeguarsi con efficacia alle evoluzioni attuali e future, qualsivoglia forma queste dovessero assumere. Ma cosa ha prodotto tanta resilienza? A giudizio di Manin i fattori sono stati soprattutto quattro:
‐ il richiamo federatore – e unificante – dell’idea di rappresentanza;
‐ la polivalenza dell’elezione;
‐ l’indeterminatezza parziale delle relazioni fra gli attori del regime rappresentativo;
‐ l’incompletezza del dispositivo rappresentativo
Come si vede, si tratta di aspetti che da un certo punto di vista costituiscono punti deboli, ma che possono anche essere visti come elementi di flessibilità e versatilità. È stato il principio rappresentativo a conferire inclusività ai sistemi politici moderni, al punto che se osserviamo con attenzione ci rendiamo conto che l’opposto della rappresentanza non è la partecipazione diretta ma l’esclusione dal circuito democratico. Per quale ragione, altrimenti, valuteremmo la presenza delle minoranze e di taluni gruppi sociali storicamente svantaggiati (per esempio le donne) nelle assemblee rappresentative come attestazione di civiltà e qualità democratica? Così come l’idea di un sistema che implica élite politiche chiamate responsabili, perché chiamate a bilanciare capacità di risposta alle domande e vincoli “non-maggioritari” (tecnocratici) è comunque centrale per la qualità della democrazia, anche del futuro. Del resto, sono polivalenti non solo i sistemi d’elezione, ma anche alcuni dei principi su cui si fonda la rappresentanza. Da qui l’adattabilità e il successo delle istituzioni rappresentative, ma anche le incognite.