“Licenza di uccidere. La legalizzazione dell’eutanasia in Italia” di Giacomo Rocchi

Licenza di uccidere. La legalizzazione dell'eutanasia in Italia, Giacomo RocchiDott. Giacomo Rocchi, Lei è autore del libro Licenza di uccidere. La legalizzazione dell’eutanasia in Italia pubblicato dalle Edizioni Studio Domenicano: quali tentativi di legalizzazione dell’eutanasia sono in atto nel nostro Paese?
Cosa intendiamo per “eutanasia”? L’azione o l’omissione con cui qualcuno cagiona la morte di un uomo per porre fine alla sua sofferenza intollerabile: quindi l’uccisione pietosa, che abbrevia la vita della vittima per non farla soffrire ancora.

Quindi, non è affatto certo che l’uccisione pietosa avvenga su richiesta dell’interessato, né che corrisponda alla sua volontà di morire; ancora: non è scontato che la vittima dell’eutanasia sia affetta da una sofferenza fisica derivante da una malattia, perché le sofferenze psicologiche, talvolta, sono fortissime e, spesso, insopportabili; per definire l’uccisione un atto di eutanasia non è nemmeno richiesto che l’interessato sia in stato terminale, cioè che la sua morte sia ormai prossima e inevitabile; infine – e soprattutto – non possiamo essere certi che ad esprimere la valutazione di intollerabilità della sofferenza sia colui che viene ucciso o, piuttosto, colui che lo uccide.

Legittimare l’uccisione “pietosa” – appunto: l’eutanasia – di determinate persone porta con sé un rischio enorme: dare il via libera all’eliminazione di persone che non hanno mai chiesto di morire, sulla base dei criteri di “dignità della vita” propri di coloro che li uccidono.

Pensiamo all’eutanasia sui neonati: in questo caso non si può ovviamente parlare della volontà del neonato di morire, ma la sostituzione della volontà del neonato con quella dei suoi genitori è un’operazione arbitraria, perché non si tratta di operazioni patrimoniali a tutela del minore, ma della decisione sulla sua morte.

Ecco: in Italia, con la legge 219 del 2017 è stata legalizzata anche questa forma di eutanasia; non verranno uccisi solo coloro che l’avranno chiesto espressamente (ma anche in questo caso, quale garanzia c’è perché questa richiesta sia frutto di un rifiuto davvero libero e davvero informato?), ma anche coloro che l’hanno chiesto per il proprio futuro, con le Disposizioni Anticipate di Trattamento: riempiendo in pochi minuti un modulo con le crocette, rischieranno di non rendersi conto che, nel caso entrassero in ospedale in stato di incoscienza, i medici potrebbero essere costretti addirittura a sospendere le condotte rianimatorie, anche se efficaci; soprattutto, saranno uccisi coloro che non l’hanno mai chiesto né potrebbero farlo, come i minori e gli incapaci (interdetti, sottoposti ad amministratori di sostegno).

Come viene disciplinato nel nostro ordinamento il cosiddetto fine-vita?
È proprio vero: il “fine-vita” è un’espressione che merita l’aggettivo “cosiddetto”! Quando si sospende la nutrizione o l’idratazione ad un disabile psichico – come era Eluana Englaro e come è, in Francia, Vincent Lambert – si agisce su una persona che non è affatto prossima alla morte e che, se accudita, può continuare a vivere anche per molti anni. Quindi, impedirle di nutrirsi e di idratarsi (ovvero, se assistita da respiratore artificiale, di respirare) significa porla in una condizione di “fine-vita” in cui, prima, non si trovava affatto!

L’espressione serve a fare confusione su casi del tutto differenti: quello dei malati in stato terminale – affetti da malattie inguaribili che li stanno portando inevitabilmente alla morte che si preannuncia imminente – e quello dei malati o dei disabili. Per i primi vige il divieto di accanimento terapeutico: si deve, cioè, impedire che, negli ultimi giorni di vita, essi siano inutilmente sottoposti ad accertamenti diagnostici e a terapie o interventi gravosi e inutili, e si deve favorire un avvicinamento alla morte sereno e, per quanto possibile, privo di dolore; l’esperienza degli hospice e tutto l’ambito delle cure palliative mirano a questo risultato e gli sviluppi sono stati notevoli negli ultimi anni.

I malati e i disabili, invece, devono essere curati e accuditi!

Ebbene, mentre la legge 219 niente aggiunge alla cura dei pazienti terminali, rende possibile l’uccisione di malati o disabili e, in più, stravolgendo lo strumento della sedazione palliativa, ne permette l’uso in senso eutanasico.

Quali novità ha introdotto la legge 219/2017?
Molte e tutte negative. In primo luogo fa comparire sulla scena il medico che fa morire il malato invece di curarlo e, se possibile, guarirlo: afferma, infatti, che il rifiuto alla somministrazione di terapie salvavita (quelle, appunto, che salvano la vita della persona) è vincolante per il medico che “è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”; subito dopo, come già detto, estende la possibilità del rifiuto anche alle forme di sostegno vitale (nutrizione, idratazione, respirazione) e, quindi, permette la morte procurata anche di pazienti non in stato terminale.

Il medico come colui che uccide: l’ordinanza con cui la Corte Costituzionale ha intimato al Parlamento di approvare una legge sul suicidio assistito fa espresso riferimento alla possibilità di “somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte”, prevedendola come un servizio garantito dal Servizio Sanitario nazionale! Il medico deve rispettare il rifiuto anche se è del tutto immotivato o illogico: quindi anche se le terapie potrebbero avere effetto.

La legge, poi, permette espressamente che questo rifiuto vincolante – che porterà l’interessato alla morte – possa essere espresso anche da persone diverse dall’interessato, quando questi è incapace: lo Stato rinuncia a tutelare i soggetti più deboli!

Con le DAT, infine, viene reso vincolante un rifiuto espresso anni prima da un soggetto in condizioni totalmente differenti e che non può rendersi conto davvero di ciò che rifiuta, perché non si trova in quella situazione di malattia.

Insomma: la scelta è per la morte, con una negazione del favor vitae che permea tutto l’ordinamento; il medico non è più alleato del paziente, perché deve eseguire le volontà che gli vengono espresse e, d’altro canto, è “esente da responsabilità civile e penale”: non avremo più quei medici coscienziosi e coraggiosi di cui abbiamo necessità quando i problemi di salute o di età iniziano a farsi seri, quelli che vedono nel paziente una persona intera, e non solo una patologia, e ci sanno consigliare, spiegare, ascoltare e decidono insieme a noi. Questi medici non potranno nemmeno fare obiezione di coscienza!

L’autodeterminazione ci rende soli di fronte alla malattia, al dolore, alla depressione; in questa condizione lo Stato ci fa intravedere una soluzione che prima non esisteva e ci dice: non sarà il momento che ti faccia da parte?

Casi come quelli di Eluana Englaro, Alfie Evans o DJ Fabo scuotono le nostre coscienze: in che modo è possibile affrontare problemi così delicati come l’accanimento terapeutico o il testamento biologico?
Né Eluana Englaro, né Alfie Evans né Fabiano Antoniani erano sottoposti ad accanimento terapeutico: la Englaro e Alfie erano soltanto nutriti, idratati e aiutati nella respirazione; Fabiano Antoniani, poi, non era sottoposto a terapie inutili e gravose ma, piuttosto, a terapie inefficaci per il dolore che lo affliggeva. Alfie Evans, ovviamente, non aveva redatto un testamento biologico, mentre Fabiano Antoniani non ne aveva necessità, perché era perfettamente in grado di comunicare.

Vorrei ricordare la valutazione del Giudice che aveva confermato la decisione dell’ospedale inglese di sospendere la respirazione assistita ad Alfie: “L’atmosfera era pacifica, dignitosa e molto felice. Il motore principale di tutto questo è la mamma di Alfie”. Quindi un bambino felice, anche se malato, con il papà e la mamma che gli facevano sentire tutto il loro amore. Perché, allora, farlo morire? Perché far morire Eluana Englaro, amorevolmente accudita dalle Suore che la ospitavano? Il primo criterio non può che essere quello del rispetto di ogni vita umana, in qualunque condizione si trovi, senza permettere che le vite fragili e deboli, quelle di persone che non corrispondono agli standard che la società occidentale pretende (bellezza, salute, produttività, intelligenza ecc.), siano spazzate via.

Anche il suicidio assistito di Fabiano Antoniani, poi, non ne ha rispettato interamente la dignità: ha sì, permesso che la sua volontà di morire avesse attuazione, ma implicitamente affermando che era bene che egli morisse, che la sua vita e la sua morte non interessavano affatto alla società. Il divieto del suicidio assistito, comunque, deve essere mantenuto, per non mettere a rischio tante altre persone.

Quali conseguenze rischia di produrre l’attuale normativa in materia di fine-vita?
Vorrei sottolineare un inganno: la proclamazione dell’autodeterminazione dell’uomo sulla propria vita. La possibilità per ciascuno di ottenere un “suicidio medicalmente assistito” mette in pericolo, come ammette l’ordinanza della Corte Costituzionale che ho menzionato, “le persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine … in concrete condizioni di disagio o di abbandono”: davvero saranno libere di rifiutare terapie, magari costose, decidendo di lasciarsi morire? La Corte Costituzionale rappresenta il rischio che soggetti possano offrire assistenza al suicidio “senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza della capacità di autodeterminarsi e del carattere libero e informato della scelta espressa”!

Ebbene: la legge 219 del 2017 non garantisce in nessun modo che il rifiuto sia espresso in piena libertà e dopo una completa informazione; cosicché, il rischio che corre l’intera società è che, davanti alla morte procurata di persone anziane o in difficoltà o disabili, ci voltiamo dall’altra parte e difendiamo la nostra coscienza con il ritornello: “ha deciso lui”.

Giacomo Rocchi, 57 anni, è magistrato dal 1987; dopo avere svolto le funzioni di Sostituto Procuratore della Repubblica presso la Pretura di Siracusa, nonché di Giudice civile, Giudice del dibattimento penale e Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Firenze, dal 2012 svolge le funzioni di Consigliere presso la Corte di Cassazione, Prima Sezione penale. È componente delle Sezioni Unite penali. Oltre a testi strettamente giuridici, scrive su tematiche bioetiche. Sulla fecondazione artificiale è autore de Il legislatore distratto, ESD, Bologna, 2006. È inoltre autore di Il Caso Englaro. Le domande che bruciano, ESD, Bologna, 2009 nonché di Licenza di uccidere, ESD, Bologna, 2019.

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