“Libyagate. Inchieste, dossier, ombre e silenzi” di Nello Scavo

Libyagate. Inchieste, dossier, ombre e silenzi, Nello ScavoLibyagate. Inchieste, dossier, ombre e silenzi
di Nello Scavo
Avvenire / Vita e Pensiero

«Bisogna stroncare il traffico non solo di esseri umani, ma anche di armi e droga», ripetono i governanti. Ma è esattamente ciò che viene denunciato da anni, con nomi, cognomi, rivelazioni di connessioni internazionali, legami che vanno dalla politica libica a quei faccendieri maltesi coinvolti nell’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia, fino ai mammasantissima della mafia siciliana.

Gli intrecci, le inchieste, le indagini e le conseguenze di tutto ciò sono il nocciolo del libro di Nello Scavo. Un testo a suo modo “scomodo” perché pone di fronte alle proprie responsabilità gli attori, diretti e indiretti, di vicende che coinvolgono cittadini e governi, ong e guardie costiere, trafficanti di persone, petrolio e droga ed esponenti di clan malavitosi. Il tutto ruota intorno intorno ai paesi che affacciano sul Mediterraneo ma coinvolge anche paesi “lontani” da esso, fino a toccare l’altra sponda dell’Atlantico.

Il primo paese a essere incriminato è la Libia. Raccontata nelle pagine dei rapporti firmati dagli ispettori delle Nazioni Unite come uno Stato a pezzi, sfasciato sotto la spinta di potenze esterne, cannibalizzato dalle mafie che possono contare sui referenti politici interni e padrini nei palazzi presidenziali all’estero.

Ricorda Scavo che la Libia è il paese dei campi di prigionia. Quegli stessi luoghi dove hanno avuto luogo i crimini denunciati dai migranti sopravvissuti: torture, violenze sessuali e di genere, lavoro forzato e uccisioni.

I vertici delle Forze armate di Tripoli hanno spiegato agli ispettori Onu che quelle galere «sono una necessità della politica migratoria degli Stati membri dell’Unione europea».

Sempre durante i colloqui con gli ispettori delle Nazioni Unite, l’ex ministro dell’Interno libico Fathi Bashiga aveva sottolineato che meno dello 0.5 per cento di tutti i migranti in Libia sono detenuti in centri di detenzione. La stragrande maggioranza era tenuta in strutture non ufficiali in condizioni di vita degradanti.

L’85 per cento dei migranti e rifugiati giunti dalla Libia in Italia dichiara di aver subito torture e trattamenti disumani. Migliaia sono stati sottoposti a stupri e oltraggi sessuali, ustioni provocate con gli strumenti più disparati, falaka – percosse alla pianta dei piedi, scariche elettriche, torture da sospensione e posizioni stressanti – ammanettamento, stasi in piedi per un tempo prolungato, sospensione a testa in giù.

Si chiede Scavo come sia possibile movimentare ogni giorno migliaia di persone, percorrere rotte desertiche, attraversare confini polverosi, raccogliere e trasferire denaro, fornire carburante a centinaia di mezzi di trasporto, ottenere i lasciapassare, governare i centri di raccolta e poi gestire la flotta per il viaggio in mare e non dare mai nell’occhio.

Egli afferma che una filiera del genere non può passare inosservata. E non può prosperare senza il consenso e, spesso, la complicità di chi pubblicamente afferma di voler porre fine al traffico di migranti.

Un paradosso sottolineato anche dagli ispettori dell’Onu nella loro relazione.

Nel febbraio 2017, durante il governo Gentiloni, Italia e Libia firmano un accordo in base al quale l’Italia fornirà sostegno economico e tecnico alle autorità della Libia per ridurre i flussi migratori. Negli ultimi cinque anni, sono state oltre 85mila le persone intercettate in mare e riportate in Libia. La maggior parte dei rifugiati e dei migranti in Libia proviene dall’Africa subsahariana e settentrionale, mentre un numero minore proviene dall’Asia e dal Medio Oriente. I motivi per cui hanno lasciato i loro paesi di origine sono vari. Alcuni sono fuggiti a causa di guerre, carestie o persecuzioni. Altri sono partiti in cerca di una migliore istruzione o opportunità di lavoro. Molti intendono rimanere in Libia, altri sognano di raggiungere l’Europa, o sono spinti a farlo dal peggioramento delle condizioni in Libia.[1]

Per Nello Scavo, il Libyagate continua a essere alimentato dalla «trattativa» tra Roma e Tripoli, sfociata nel memorandum d’intesa varato nel 2017 e confermato per tre volte dai governi italiani.

Nessuna parola invece viene spesa contro i crimini commessi in Libia dalle stesse autorità del Paese e denunciati da una ventina di Rapporti firmati dal segretario generale dell’Onu António Guterres e da 23 Dossier della Procura internazionale dell’Aja.

Il traffico di droga ha addirittura ricevuto ancora meno attenzione, anche se è stato accertato che la tratta di migranti, che è l’obiettivo principale del coinvolgimento europeo in Libia, fa parte di una più ampia economia sommersa che coinvolge vari tipi di attività criminali.

Nel porto di Hagaí, mille chilometri a sud di Rio de Janeiro, vengono perquisiti due container carichi di mais: gli agenti scovano 128.4 chili di cocaina. E l’episodio non rimane isolato. Nel 2020, in soli cinque mesi, vengono trovate e sequestrate 1.17 tonnellate, per un valore nelle piazze di spaccio europee di almeno 120 milioni di euro. Tutti i carichi erano destinati alla Libia.

Narcos sudamericani, milizie libiche, mafiosi maltesi in accordo con Cosa nostra siciliana, ‘ndrangheta calabrese e boss dei Balcani.

Sottolinea Scavo come mentre Roma, La Valletta e Bruxelles erano impegnate a negoziare con le milizie per ridurre le partenze di migranti verso il Canale di Sicilia, gli stessi capimandamento libici hanno capitalizzato la paura e le divisioni dell’Ue per rafforzare le alleanze criminali intercontinentali.

Ma come fa lo stupefacente a raggiungere le piazze di spaccio di tutta Europa?

È a questo punto che entra in scena, ricorda l’autore, la rete di trafficanti di petrolio, che coinvolge nella logistica esponenti dei clan siciliani, banditi maltesi e pezzi grossi della ‘ndrangheta.

Il luogo perfetto per il gioco di prestigio dei contrabbandieri si trova appena al di fuori delle acque territoriali maltesi. Una zona franca non dichiarata, creata dai trafficanti di ogni merce di contrabbando. Si chiama Hurd Bank, un’elevazione sottomarina che per le sue caratteristiche geologiche offre ai naviganti una zona poco profonda dove i vascelli possono gettare l’ancora con la scusante di tenersi al riparo dalle mareggiate.

Scavo sottolinea come Malta non abbia finora mostrato interesse a mandare le proprie motovedette a svolgere ispezioni. Anche la flotta Ue viene tenuta alla larga. Il punto di forza del sistema è che, spesso, il carico non ha proprietari identificabili, nascosti dietro pratiche burocratiche fasulle o società in giurisdizioni offshore. Gli agenti marittimi e gli armatori dichiarano di ignorare i carichi delle navi, per cui le uniche persone indagate risultano, quasi sempre, il capitano e l’equipaggio, mentre altre persone, fondamentali per l’operazione di contrabbando, possono continuare le loro attività.

L’inchiesta Libyagate ha richiesto mesi di lavoro, interviste, consultazione di migliaia di documenti, inchieste sul campo, analisi dei dati. Ed è stata condotta da Nello Scavo, giornalista per «Avvenire» e Lorenzo Bagnoli, giornalista della testata investigativa Investigative Reporting Project Italy – Irpi. Ed è stato seguendo l’oro nero che è stato possibile ricostruire le rotte degli affari sporchi. Un sistema di interessi che ha cambiato il volto del Mediterraneo, coinvolgendo faccendieri, trafficanti di uomini, capi milizia, signori della guerra, governi di numerosi Paesi ed esponenti delle principali organizzazioni mafiose internazionali.

Dalla firma dell’accordo con la Libia, l’Italia ha speso 962 milioni di euro per bloccare i flussi migratori e finanziare le missioni navali italiane ed europee.[2]

Un accordo di intesa è stato firmato anche dal governo di Malta con la Libia nel giugno del 2020. Siglato dal premier Robert Abela e il presidente libico Fayez al Sarraj, l’accordo ha previsto la creazione di “centri di coordinamento” nel porti di Tripoli e a La Valletta. Delle strutture congiunte a sostegno della lotta contro l’immigrazione clandestina in Libia e nella regione del Mediterraneo.[3]

Nonostante i depistaggi, Scavo ricorda come gli investigatori siano riusciti a ricostruire 26 eventi criminali che coinvolgono le istituzioni libiche. Si tratta di gravi violazioni dei diritti umani, commesse contro migranti e richiedenti asilo in tre contesti correlati di tratta di esseri umani e traffico di migranti.

Una volta catturati in mare, i migranti sono stati illegalmente detenuti in condizioni sanitarie deplorevoli, con le vittime ridotte in schiavitù e torturate, duramente picchiate e lasciate volutamente senza cibo. Tra i superstiti c’erano anche dure ragazze che all’epoca avevano 14 e 15 anni, le quali hanno raccontato di essere state violentate ripetutamente, sottoposte a schiavitù sessuale e ad altre forme di violenza sessuale da parte degli ufficiali in un’area di detenzione segreta a Bani Walid.

Eppure nell’accordo siglato tra Malta e Libia alcuna menzione si fa riguardo la necessità di ristabilire il rispetto dei diritti umani nei campi di prigionia libici. L’unico scopo, come del resto è sempre stato in questi anni anche per l’Italia e l’Ue, è quello di trattenere i migranti e i profughi in cattività, a qualunque costo.[4]

Irma Loredana Galgano

________________________

[1] Fonte: Amnesty International Italia

[2] Fonte: Oxfam Italia

[3] N. Scavo, Documento. Accordo Malta-Libia: insieme daranno la caccia ai migranti. Con i soldi Ue, Avvenire, 4 giugno 2020

[4] N. Scavo, articolo citato

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link