“Libri, uomini, idee. Studi su censura e Inquisizione nel Cinquecento” di Giorgio Caravale

Prof. Giorgio Caravale, Lei è autore del libro Libri, uomini, idee. Studi su censura e Inquisizione nel Cinquecento pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura: in che modo l’Inquisizione e la censura romane esercitavano nel Cinquecento il loro controllo nei confronti di libri, idee e uomini in dissenso rispetto all’ortodossia cattolica?
Libri, uomini, idee. Studi su censura e Inquisizione nel Cinquecento, Giorgio CaravaleL’Inquisizione romana fu istituita da papa Paolo III nel 1542 proprio con l’obiettivo di impedire la circolazione di idee eterodosse nella penisola italiana. Sin dagli anni venti del Cinquecento infatti le dottrine di Martin Lutero si erano diffuse anche da noi: i principali strumenti di propagazione di tali dottrine furono i libri e la predicazione, in particolare la predicazione da parte di membri di ordini religiosi quale l’ordine agostiniano del quale lo stesso Lutero aveva fatto parte. Una parte del mio libro si occupa non a caso dei predicatori eterodossi che diffusero dal pulpito le dottrine luterane, in particolare a Venezia, nel corso della prima metà del Cinquecento, così come del modo in cui gli inquisitori cercarono di contrastarne l’azione.

L’attività degli inquisitori si indirizzò contro gli uomini e le donne responsabili di veicolare tali idee eterodosse ma anche contro i libri che contribuivano a diffonderle. Nel 1559 venne pubblicato il primo indice ufficiale dei libri proibiti: una lunga lista, stilata dai cardinali inquisitori che elencava tutti i libri che Roma riteneva nocivi, dunque da sottrarre alla lettura dei fedeli. L’indice era diviso in tre classi, come venivano denominate: la prima dedicata agli autori la cui intera produzione editoriale veniva proibita, i cosiddetti eresiarchi o maestri della Riforma, tra cui naturalmente Lutero e Calvino; la seconda, riservata alle opere specificamente elencate nell’indice; la terza dedicata ai libri pubblicati anonimi, senza cioè indicazione di autore, in alcuni casi anche senza indicazioni tipografiche: non dimentichiamo che il best-seller della Riforma italiana, il Beneficio di Cristo era uscito anonimo a Venezia pochi anni prima, nel 1543. Nel 1572, poi, Roma istituì un’apposita Congregazione dell’Indice incaricata di occuparsi specificamente della circolazione di libri pericolosi per i fedeli. La Congregazione dell’Inquisizione, tuttavia, oltre a continuare a indagare e a processare individui ritenuti colpevoli di aver aderito alla Riforma protestante, volle continuare a occuparsi anche dei libri eterodossi. Questa sovrapposizione tra le due Congregazioni provocò nei decenni successivi non pochi conflitti giurisdizionali. Libri, uomini, idee si occupa di un secolo centrale nella lotta contro l’eterodossia, il Cinquecento, e lo fa studiando alcuni dei libri che furono ritenuti pericolosi o sospetti da parte dei cardinali inquisitori, ma anche alcuni degli uomini che animarono la vicenda di questi libri, in qualità di autori o di semplici lettori: studiando in particolare il modo in cui questi libri e uomini divennero oggetto dell’attenzione delle autorità censorie. Alcuni libri furono ritenuti altamente pericolosi e furono dunque proibiti senza ulteriori discussioni, altri invece furono ritenuti espurgabili: il loro contenuto fu giudicato cioè solo parzialmente condannabile, o parzialmente salvabile, a seconda dei punti di vista. Per questi volumi i censori individuarono delle parti specifiche, paragrafi o anche solo alcune parole, che era possibile eliminare o sostituire prima che il libro potesse essere ristampato (in una versione emendata) e restituito ai lettori in questa nuova forma. Questi documenti, detti espurgazioni, consentono allo storico di entrare nell’officina del censore, di osservare da vicino il loro lavoro e indagare, attraverso di essi, la mentalità con cui i cardinali, o i consultori che lavoravano per loro, si accostarono ai testi cinquecenteschi.

Quali forme assumeva nel Cinquecento la comunicazione scritta di idee eterodosse?
Non sempre i testi riportavano apertamente ed esplicitamente il loro messaggio eterodosso. La comunicazione scritta di idee dissonanti rispetto all’ortodossia cattolica poteva anche assumere forme trasversali o mascherate, intese ad aggirare il controllo delle autorità ecclesiastiche. Uno dei capitoli del mio libro esamina il caso di un’istruzione destinata ai confessori, un breve manuale d’uso su come confessare i fedeli – redatto dall’eretico Scipione Lentolo e diffuso nella diocesi di Policastro dal vescovo Nicola Francesco Missanelli – la cui pericolosità risiedeva più in quello che mancava che non in ciò che di errato veniva affermato. Il censore fu sufficientemente avvertito da soffermarsi su ciò che uno scritto cattolico, e maggior ragione un’istruzione per confessori, avrebbe dovuto dire, e diversamente non diceva, piuttosto che quello che esso positivamente affermava. In altre parole, il testo cercava di avvicinare il lettore alle dottrine eterodosse in modo obliquo. Si trattava di un modo di procedere piuttosto frequente in un contesto come quello della penisola italiana in cui professare apertamente le proprie idee divenne progressivamente più pericoloso. Il nicodemismo, la capacità di simulare e dissimulare le proprie convinzioni, era peraltro una dimensione costitutiva dell’insegnamento religioso di Juan de Valdés, un alumbrado spagnolo stabilitosi a Napoli negli anni trenta del Cinquecento che fu maestro di molti tra i cosiddetti eterodossi italiani. Quell’istruzione per confessori, dunque, restituiva anche la misura della diffusione delle dottrine valdesiane nel Regno di Napoli.

Ciò che emerge con forza dalle mie ricerche è appunto la capacità interpretativa del censore che prese in esame quel confessionario, lontana dalla rozzezza di molti altri suoi colleghi. Un altro capitolo di Libri, uomini, idee, per esempio, prende in considerazione le censure subite dal Beneficio di Cristo, il best-seller cui ho accennato prima: il censore in questo caso procedette in modo prevalentemente meccanico, dotato di categorie interpretative molto poco raffinate, incapace dunque di cogliere le tante sfumature contenute nel testo che aveva davanti agli occhi.

In che modo la censura si indirizzava agli illetterati?
La comunicazione scritta di idee eterodosse assunse nella prima età moderna le forme più diverse. Il mio libro non si occupa solo di trattati e testi destinati a un pubblico colto ma anche delle forme letterarie ed espressive dirette ai cosiddetti illetterati: donne e uomini che sapevano a malapena leggere qualche riga scritta in lingua volgare. Mi riferisco in particolare ai fogli volanti, alle cosiddette «historiette» o ai testi di preghiere stampate su poche carte, che circolavano ampiamente tra i ceti meno colti delle città e delle campagne cinquecentesche. Gli inquisitori e i censori romani furono particolarmente attenti a questo tipo di materiale scritto perché erano consapevoli che per vincere la loro battaglia religiosa e culturale dovevano conquistare anche e soprattutto la maggioranza «incolta» della popolazione. Nella grande maggioranza dei casi l’attenzione censoria nei confronti di questa tipologia di testi scritti non ha lasciato molte tracce. Le autorità romane preferivano stabilire generiche proibizioni che li menzionavano in termini vaghi e onnicomprensivi. Durante le mie ricerche presso l’Archivio del Sant’Uffizio, aperto agli studiosi per la prima volta nel 1998, ho avuto la fortuna di trovare una piccola ma significativa traccia dell’interesse dei censori romani per la produzione letteraria dei cosiddetti «senza lettere»: una rapida e frettolosa annotazione manoscritta nascosta tra una decina di titoli di vario genere contenenti «cose licentiose o lascive». Il caso volle che quell’annotazione fosse riferita proprio a due operette sul tema della povertà che avevo iniziato a studiare nel corso della stesura della mia tesi di laurea. Potei finalmente ricostruire un tassello di quella battaglia contro i «senza lettere» che, pur lasciando pochi documenti, aveva costituito parte non marginale dell’azione censoria romana. Studiando queste operette e il modo in cui erano state eliminate dal mercato editoriale iniziai poi a riflettere su due temi che sarebbero divenuti centrali nei miei studi sulla censura: il meccanismo della sostituzione e della riscrittura da una parte, e la questione dei differenti contesti nei quali i messaggi venivano veicolati dall’altra. Censurare non bastava. Non era sufficiente togliere dalla circolazione quelle «operette» nocive: chi veniva privato dei testi che costellavano la sua quotidianità non si accontentava di rimanere con un pugno di mosche in mano. Si trattava di sostituire le terzine e le quartine considerate devianti con altre, identiche dal punto di vista della forma letteraria e dei codici linguistici bensì contenutisticamente conformi ai modelli culturali ecclesiastici. Come ho poi avuto modo di approfondire in un libro di prossima uscita per Laterza, il successo della politica religiosa e culturale di Roma passò (anche) per la capacità di restituire ai fedeli una serie di testi atti a sostituire i libri non più disponibili. Il libro scomparve e poi ricomparve sotto forme diverse, lontane ma non del tutto nuove rispetto al loro aspetto originario. La censura fu eliminazione, soppressione, cancellazione, ma anche sostituzione, restituzione, riscrittura. D’altra parte, l’identità della fonte del messaggio e le modalità di fruizione che ad essa si accompagnavano, in altre parole il problema di chi pronunciava o scriveva determinate cose e soprattutto quello del contesto nel quale ciò si verificava, erano questioni spesso più delicate e importanti da valutare rispetto al contenuto stesso del messaggio.

Come operava la censura nei confronti dei libri di devozione?
Uno dei temi centrali del mio libro è la riflessione sulla dialettica tra esteriorità e interiorità, tra apparenza e realtà, tra pubblico e privato, costitutiva di ogni pratica religiosa e, più in generale, di ogni sistema di potere, un aspetto che qui indago soprattutto in relazione alla questione della censura dei testi devozionali, di quei libri cioè intesi ad accrescere la devozione dei fedeli tra Cinque e Seicento. Lo studio dei testi di devozione risulta inoltre più efficace se portato avanti in una chiave comparativa. La possibilità di comparare le differenti modalità selettive con le quali furono censurate o meno le opere devozionali cinquecentesche in Spagna e nella penisola italiana è l’ennesima conferma empirica del fatto che i diversi contesti culturali e religiosi influirono in modo significativo sulla politica censoria delle autorità ecclesiastiche, e più in generale sulle forme di circolazione e fruizione dei testi. Solo per fare un esempio, l’insistenza del domenicano spagnolo fra Luis de Granada o del canonico regolare lateranense Serafino da Fermo sulla nullità dell’essere umano e sul processo di espropriazione della volontà umana quale passaggio obbligato verso la meta ultima del devoto (Dio), e le loro riflessioni spirituali sul raggiungimento dell’unione dell’anima con Dio vennero recepite con maggiore allarme in un contesto come quello spagnolo, caratterizzato sin dagli anni venti del Cinquecento da una sempre maggiore identificazione tra movimenti alumbrados e protestanti: un’identificazione che nella penisola italiana, nonostante il ruolo determinante della figura di Juan de Valdés nella definizione dei caratteri della Riforma italiana, fu avvertita invece come problema di minor urgenza.

Nel testo, molta attenzione viene riservata alla figura di Pier Paolo Vergerio: di quale particolare interesse è la sua vicenda?
Uno dei canali principali attraverso i quali le idee religiose circolarono nel Cinquecento fu la battaglia dei libri, ovvero la polemica a mezzo stampa. Era molto frequente che la pubblicazione di un libro fosse seguita dalla stampa di un altro libro di segno opposto inteso a contestare le dottrine difese dal primo e così via, perché la polemica poteva anche protrarsi per diversi anni, in uno scambio fitto di pungenti libelli polemici. Uno dei maestri di questa disciplina che si può genericamente racchiudere sotto il nome di controversistica religiosa fu proprio Pier Paolo Vergerio, già vescovo di Capodistria, fuggito in terra svizzera nel 1549 dopo che l’Inquisizione aveva avviato un processo per eresia nei suoi confronti: un accanito polemista che dalla Svizzera continuò a invadere la penisola italiana con i suoi libelli antiromani. Uno dei capitoli del libro è dedicato a un interessante fascicolo di lettere manoscritte da me rinvenute nell’archivio del Sant’Uffizio. Sono lettere spedite da Vergerio a Marcello Cervini, futuro papa Marcello II, nel 1540 quando il primo era a Ratisbona come rappresentante del re di Francia Francesco I, raccolte e conservate dallo stesso Cervini, infine da questi consegnate alla Congregazione del Sant’Uffizio di cui divenne egli stesso membro nel 1548. Si tratta di un’interessante testimonianza dell’attenzione che Vergerio suscitò tra le autorità romane ben prima dell’istituzione dell’Inquisizione romana e dunque anche della precoce attività degli uomini che ne avrebbero fatto parte.

Quali questioni metodologiche solleva l’uso dei documenti inquisitoriali?
Le questioni metodologiche legate all’uso dei documenti inquisitoriali sono state già oggetto di acute analisi da parte di autorevoli storici prima di me, a cominciare da Carlo Ginzburg, Adriano Prosperi, Andrea Del Col e altri. In un capitolo di questo libro, rifletto per la prima volta in maniera organica sull’intreccio tra predicazione e Inquisizione e in particolare sull’uso di fonti inquisitoriali per ricostruire la storia della predicazione. Tra i rischi e i limiti che l’utilizzo della documentazione inquisitoriale comporta il primo è quello di assumere in modo acritico il punto di vista degli inquisitori stessi. Per mestiere e per cultura questi tendevano a leggere la società del tempo attraverso l’uso di rigide categorie controversistiche che dividevano gli uomini in buoni e cattivi, nel caso specifico naturalmente in ortodossi ed eretici. Lo storico che maneggia documenti inquisitoriali deve essere ben consapevole dell’esistenza di questo filtro deformante. Si tratta di un filtro che illumina retrospettivamente tutta la storia della cristianità e che, se accolto in modo acritico da parte dello storico, impedisce di comprenderne a pieno il significato e l’evoluzione. La storia della cristianità non è una storia in bianco e nero come vorrebbero gli inquisitori. Essa è piuttosto una storia fatta di chiaroscuri, di sfumature, di sottili e cangianti confini tra ortodossia ed eresia: la stessa accusa di eresia viene utilizzata con una frequenza sconcertante ad uso e consumo delle infinite battaglie interne al mondo cristiano, battaglie tra ordini religiosi concorrenti, tra correnti teologiche opposte, persino tra istituzioni ecclesiastiche confliggenti. Le categorie controversistiche degli inquisitori sono dunque uno strumento da maneggiare con grande cautela, in special modo a mio parere quando riferite a una fase della storia religiosa italiana quale quella degli anni trenta e quaranta del Cinquecento, in cui i confini dottrinali erano particolarmente fragili e permeabili. Tenere conto di questi aspetti significa tra le altre cose cercare di ricostruire le tappe della formazione religiosa dei predicatori processati dall’Inquisizione senza farsi condizionare dal successivo giudizio di condanna per eresia formulato dagli inquisitori stessi.

Il secondo rischio che lo storico deve fronteggiare, e dunque in una certa misura evitare, quando maneggia fonti inquisitoriali è la tentazione di ragionare come se la storia degli uomini e delle donne processati dall’Inquisizione, e da lui studiati, sia una storia che riguarda la maggioranza (o peggio ancora la totalità) degli uomini e delle donne di quella società. Lo storico ha sempre la tentazione di considerare le proprie fonti come documenti fondamentali per comprendere la società dell’epoca che studia. Tuttavia egli non deve commettere l’errore di pensare che quelle fonti possano fornire una chiave d’accesso esclusiva ai problemi del tempo. Sottolineare la presenza di un alto numero di predicatori che si fecero portatori di dottrine eterodosse, o che come tali furono percepite dall’Inquisizione romana, non può e non deve far dimenticare che ve ne furono altri, e sicuramente in numero maggiore, che invece non finirono sotto i riflettori dell’Inquisizione semplicemente perché non avevano nulla da nascondere e si limitavano a svolgere il loro mestiere con tutte le cautele del caso senza avventurarsi su terreni scivolosi come quelli percorsi dai loro colleghi. I casi che si impongono all’attenzione dello storico attraverso le testimonianze inquisitoriali sono spesso le eccezioni e non piuttosto la regola nel panorama della società del tempo. Si tratta in altre parole dei casi più eclatanti che proprio per aver richiamato allora l’attenzione degli inquisitori hanno lasciato una traccia più o meno evidente negli archivi ecclesiastici e sono oggi in grado di risvegliare l’attenzione dello storico. Un antidoto rispetto ai rischi appena elencati è sicuramente quello di valorizzare le fonti ecclesiastiche che sottolineino l’ortodossia dei predicatori piuttosto che la loro presunta eterodossia, nonché quello di assumere una pluralità di punti di vista rispetto al fenomeno storico o alla vicenda individuale che è oggetto del proprio studio. Nel caso specifico dei processi inquisitoriali rivolti contro predicatori sospetti di eresia, decisiva appare la possibilità di individuare fonti documentarie alternative che non abbiano la medesima matrice inquisitoriale. In altre parole risulta decisiva la possibilità di integrare il più possibile lo studio della documentazione inquisitoriale con materiale di altro genere: epistolari privati, nunziature, testimonianze giudiziarie di altra natura, e soprattutto cronache.

È evidente che gli atti di un processo inquisitoriale incentrato sui sermoni più o meno apertamente ereticali di un predicatore pongono rilevanti problemi di attendibilità e verisimiglianza. Quanto di ciò che il predicatore asserisce di fronte al tribunale inquisitoriale corrisponde al reale contenuto della predica da lui pronunciata dal pulpito? Come si possono distinguere quei contenuti originari alla luce delle strategie difensive seguite nel processo dall’accusato per sfuggire al fuoco di fila delle domande inquisitoriali, ovvero in quale modo lo storico può superare il filtro rappresentato dal tentativo messo in opera dal predicatore per ribaltare in suo favore le accuse che gli vengono rivolte? E ancora, come verificare l’attendibilità delle testimonianze di chi interviene a favore o, viceversa, contro la presunta eterodossia del predicatore? Si tratta di domande di non facile soluzione che lo storico che affronta questi documenti deve abituarsi a porre. Un’ultima rilevante questione metodologica che lo storico che indaga sul rapporto tra predicazione e Inquisizione si trova ad affrontare è infine quella del rapporto tra oralità e scrittura, un aspetto rispetto al quale la più recente storiografia si è dimostrata sempre più sensibile. Anche su questo aspetto Libri, uomini, idee cerca di offrire qualche riflessione.

Quali tentativi misero in atto autorità religiose e politiche per controllare la mobilità delle minoranze etniche?
Il libro si occupa di quei gruppi sociali chiamati e riconosciuti con il nome di zingari, il cui tratto caratterizzante era la mobilità. In diverse occasioni, di fronte alle autorità competenti, furono gli stessi zingari a presentare la mobilità come un elemento identitario imprescindibile: «Io son zingaro e vo vagando» dichiararono molti di loro. Ma ciò che molti di loro rivendicarono con orgoglio come un tratto distintivo delle loro comunità di appartenenza venne spesso percepito come un elemento di pericolosità sociale da parte di chi governa. In un contesto sociale ed economico in cui la spinta alla mobilità viene controbilanciata dalla volontà di identificazione, sedentarizzazione, assimilazione e in alcuni casi integrazione da parte delle autorità civili e religiosi, gli zingari vennero percepiti come un gruppo che sfuggiva a tali dinamiche, un gruppo dunque potenzialmente pericoloso. I più recenti e innovativi studi sulle dinamiche di inclusione e esclusione nelle comunità di antico regime, in particolare le ricerche sullo statuto della condizione di estraneità, aiutano a mettere a fuoco nuove domande riguardanti la presenza degli zingari nelle città dell’Europa moderna. La questione non è più soltanto se (e quanto) gli zingari sostentassero la propria sopravvivenza con attività illegali come furti e ruberie suscitando la reazione repressiva delle autorità civili e religiose, quanto piuttosto se quei gruppi itineranti aderissero o meno alle politiche di integrazione e assimilazione messe in atto dalle stesse autorità. La condizione di estraneità, l’essere straniero, non era legata necessariamente alle origini forestiere del soggetto o dei soggetti in causa. Poteva essere sperimentata da qualsiasi individuo in qualunque momento della sua vita, indipendentemente dalla propria origine, legata com’era all’incertezza dell’esistenza. L’antidoto era costituito da fattori come l’affiliazione locale dell’individuo, il riconoscimento pubblico da parte della comunità, la costruzione di una reputazione locale e di un legame di fiducia spesso filtrato dal possesso di un domicilio stabile, dal pagamento delle imposte, dalla partecipazione alla vita quotidiana della comunità stessa. Fino a che punto gli zingari erano disposti a venire incontro a queste condizioni? E fino a che punto l’accoglienza di questa proposta rischiava di compromettere la loro identità individuale e collettiva, così fortemente legata al concetto di mobilità? Sono queste le domande, tra le altre, alle quali Libri, uomini, idee cerca di dare una risposta.

Giorgio Caravale è professore ordinario di Storia moderna presso l’Università degli Studi Roma Tre. È autore di molti volumi sulla storia culturale e religiosa della prima età moderna, tra cui Forbidden Prayer. Church Censorship and Devotional Literature in Renaissance Italy (Ashgate 2011), The Italian Reformation outside Italy. Francesco Pucci’s Heresy in Sixteenth-Century Italy (Brill, 2015), Preaching and Inquisition in Renaissance Italy. Words on Trial (Brill, 2016), Beyond the Inquisition. Ambrogio Catarino Politi and the Origins of the Counter-Reformation (Notre Dame University Press, 2017), Censorship and Heresy in Revolutionary England and Counter-Reformation Rome. Story of a Dangerous Book (Palgrave, 2017), Libri pericolosi. Censura e cultura italiana in età moderna (Laterza, 2022).

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link