
Sin dall’incipit il Suo libro si mostra implacabile: «I libri e la lettura non rendono migliori. Se fosse così le persone più colte sarebbero sempre un esempio di moralità». Come si può trasformare l’atto di leggere in occasione per migliorare la nostra consapevolezza?
È convinzione comune, in bilico fra il luogo comune e la retorica paternalistica, che i libri e la lettura rendano le persone migliori, tout court. Che il libro, qualsiasi libro, valga la fatica di essere letto. Che leggere non sia una fatica ma un puro piacere (almeno lo fosse… leggere invece, e per fortuna, è una fatica). Che leggere sia, di per se stessa, un’attività moralmente superiore a tutte le altre. Che addirittura un libro possa cambiare in meglio la vita… Purtroppo non è sempre così, anzi raramente. I libri non danno la felicità. Anche se è bello dirlo. Non sto ad elencare gli esempi che dimostrano come nel corso della storia i peggiori misfatti e crimini siano stati compiuti dalle persone più colte della loro epoca (gli inquisitori erano le menti più raffinate della Chiesa), da dittatori che leggevano molto e avevano studiato nelle migliori università, da ideologi e filosofi coltissimi che hanno armato generazioni di terroristi… Guardiamo all’oggi: a firmare i manifesti per difendere e liberare criminali assassini che negli anni ’70 e ’80 sono in scappati in Francia, sono fior di intellettuali, non pazzi ignoranti. E la peggiore deriva della Cancel culture arriva da professori e studenti delle università anglosassoni, non da fanatici analfabeti… Voglio dire che dipende tutto da come e dal cosa si legge, con quale predisposizioni, con quale capacità di scegliere i libri, di confrontarli, di “pesarli”, di calarli in un contesto… Insomma, è vero: se non si legge la vita non ha senso. Ma se si legge male può averne ancora meno. I libri di per sé non fanno una persona migliore. Non cambiano la vita, né in meglio né in peggio. La rendono soltanto più sopportabile. Che, comunque, è tantissimo.
Nel libro Lei esorta a «non rispettare il libro, e considerarlo per quello che è: un prodotto. Una merce»: in che modo «desacralizzare l’oggetto libro» può avvicinare alla lettura fasce di popolazione tenutesi sinora lontane?
Penso che un buon modo per avvicinare nuovi lettori al libro sia prima di tutto non rispettarlo. Cioè considerarlo per quello che è: un prodotto. Una merce. Una merce particolare, certo, ma merce. Ciò renderebbe tutto più facile. Favorirebbe un rapporto più diretto e meno timoroso con il libro (e soprattutto con quei luoghi innalzati inopinatamente a sacrari, vale a dire le librerie) anche da parte dei lettori deboli o dei non lettori. La libreria non è una chiesa dove possono entrare solo i fedeli o gli abbonati al grande Club della Cultura, ma un luogo per tutti: consumatori e consumisti. Alla stessa tregua il libro non è un totem da venerare, ma un oggetto – sì, un oggetto, un prodotto del mercato: può essere ottimo o pessimo come una bottiglia di vino o un profumo – che va valutato, giudicato, soppesato, scelto. Se facciamo del libro un monumento, un santino, un oggetto sacro, i ragazzi per primi tenderanno a rifiutarlo. La sacralità del testo deriva solamente da ciò che la singola opera sa comunicare e sa meritarsi nel corso del tempo. Ecco perché un classico non è paragonabile al bestseller di una stagione. I primi si conservano; dei secondi si può benissimo fare a meno, senza rimpianti
«La vita è troppo corta per permettersi brutti libri. Bisogna scegliere»: come scegliere le proprie letture?
Scegliere i libri – fra le migliaia che sforna l’industria editoriale – è un’arte (e finirli, per altro, un optional). Già Daniel Pennac metteva al primo posto del suo decalogo dei diritti imprescrittibili del lettore quello di non leggere. Leggere non deve essere un imperativo. Non dev’essere il simbolo di una condizione sociale. E non dev’esser un obbligo, né di legge né morale. Ecco il centro del problema: l’implicita bontà che si tende ad attribuire a ogni libro. L’importante non è leggere per leggere, leggere indistintamente o prendere un libro in mano solo perché un libro pacifica la coscienza. Bisogna intendersi su quale libro. Tra Alberto Arbasino, o Guido Ceronetti, e gli ultimi venti premi Strega; tra Cesare Pavese e il romanzo di uno youtuber, o un deejay; tra il diario di un virologo e quelli di André Gide ci sono dieci gradi di separazione a livello di costruzione narrativa, venti di ricchezza espressiva e cinquanta per capacità di costruire un mondo e una lingua. No: i libri non sono tutti. No: non tutti i libri valgono la pena di essere letti. No: l’importante non è leggere. “I libri hanno gli stessi nemici dell’uomo: il fuoco, l’umidità, il tempo e il proprio contenuto” è un celebre aforisma di Paul Valery. Il nemico peggiore di tantissimi libri, la maggior parte, è proprio il loro contenuto. Divinizzare il Libro senza distinguere il valore fra i diversi libri è il peggiore dei peccati intellettuali. Nella lettura bisogna tenere vivo l’incendio, non adorare le fiamme. Chi parla di sacralità del libro vuole venerare le ceneri. Invece occorre accendere il fuoco dell’entusiasmo. Bisogna dire ai ragazzi: leggere è duro, impegnativo, difficile. Bisogna fargli capire che leggere ha un prezzo (inteso come impegno) perché la gratuità, in cultura, è controproducente.
Nel mondo si pubblicano troppi libri; le statistiche da Lei presentate sono inesorabili: si pubblica un libro ogni trenta secondi, circa; «se a partire da questo momento non venisse pubblicato più alcun libro, e ipotizzando che una persona possa leggere quattro libri la settimana […] ci vorrebbero comunque 250mila anni per arrivare a conoscere tutti i libri già scritti». Perché si edita così tanto?
Perché si spera di imbroccare il bestseller. Perché si pensa al lettore come a un cliente cui si deve dare il prodotto su misura, così si pubblica di tutto (tirando pochissime copie), con una incredibile frammentazione del mercato. Perché gli editori devono fare fatturato e siccome si vende poco si aumentano i titoli, indipendentemente dal valore letterario o anche solo editoriale: si pubblicano tanti titoli così si prendono più anticipi dal distributore, e meno si vende più titoli si buttano in libreria, in un circolo vizioso, altro che virtuoso… Che poi, il problema non è neppure che si pubblicano troppi libri tout court. È che se ne pubblicano troppi di scarsa o scarsissima qualità. Pensiamo solo alle centinaia di non-libri o libroidi di vip, sportivi, influencer, chef, attori, pornostar, cantanti, virologi, youtuber… Per confrontarsi con i libri e la letteratura, sapendo scegliere cosa leggere (poco e bene) e cosa buttare (tanto e senza rimpianti) serve uno sforzo sovraumano, altro che “piacere”, altro che “intrattenimento”. Cito un grande critico, Alfonso Berardinelli: “Il libro in sé non è un valore. Lo è solo se il rischio della lettura vale. E nel caso presente di sovrapproduzione libraria, i peggiori nemici dei libri che vale la pena di leggere sono i troppi libri che li sommergono e da cui cerchiamo di difenderci”.
Luigi Mascheroni, giornalista, lavora dal 2001 al Giornale, nella redazione Cultura. Ha lavorato in passato per l’inserto “Domenica” del Sole24Ore e Il Foglio. Ha un insegnamento di Giornalismo culturale all’Università Cattolica di Milano. Ha scritto, tra gli altri, nel 2010 un dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali: Manuale della cultura italiana (Excelsior 1881); nel 2012 Scegliere i libri è un’arte. Collezionarli una follia (Biblohaus). Per anni ha avuto un canale YouTube di videorecensioni. Nel 2016 ha fondato con due soci la casa editrice De Piante. Ha circa 20-25mila libri. Ne ha letti pochissimi.