“Libertas. Secoli X-XIII” a cura di Nicolangelo D’Acunto ed Elisabetta Filippini

Dott. Antonio Manco, Lei è tra gli autori del libro Libertas. Secoli X-XIII, curato da Nicolangelo D’Acunto ed Elisabetta Filippini e pubblicato da Vita e Pensiero: quale nozione vi era, nel Medioevo, del concetto di libertà?
Libertas. Secoli X-XIII, Nicolangelo D'Acunto, Elisabetta FilippiniLa nostra accezione di libertà come la intendiamo oggi è estranea al Medioevo. Si tratta di un concetto di matrice illuministica che solo a partire dalla Rivoluzione francese avrebbe pervaso ogni moto rivoluzionario e ogni rivendicazione. Pensare di trovare una tale declinazione della libertà nel medioevo è del tutto fuorviante e anacronistico. Certamente più corretto per il nostro periodo è parlare di libertates al plurale, intese come la molteplicità di privilegi concessi ai sudditi, singoli e comunità. Questo volume miscellaneo s’inserisce nella lunga tradizione delle Settimane Internazionali della Mendola, convegni organizzati dalla Cattolica fin dal 1959, che costituiscono ormai uno dei luoghi necessari della medievistica mondiale. L’arco cronologico di riferimento dei saggi raccolti abbraccia l’intera età di mezzo, anche se il focus del volume è incentrato sulla cosiddetta età romanica (secc. X-XIII). Libertà nel medioevo è dunque soprattutto privilegio. Quello che per noi è un paradosso, in realtà per la prassi politico-sociale di quel periodo è la norma. Essere liberi significava infatti godere di uno stato di eccezione rispetto alla condizione normale prevista dagli ordinamenti.

Come si coniugavano libertà e principio gerarchico?
La visione gerarchica non era qualcosa di limitante in termini di libertà, anzi, nel suo significato più profondo significava soggezione a Dio e unità con lui. Essere liberi, nel senso più alto, quello teologico e filosofico, significava essere nella condizione di fare il bene, che coincide con la volontà di Dio. Ogni individuo rivestiva un ruolo ben preciso e doveva rimanere al suo posto, eseguendo i compiti lui assegnati e godendo dei favori e dei diritti che gli competevano per partecipare poi alla vera forma di libertà, assoluta, quella del Paradiso. Si tratta di un mondo continuamente esposto a questa tensione trascendentale, ma al contempo permeabile alle sempre risorgenti e mutevoli istanze di singoli e di gruppi sociali che, pur condividendo tale visione immutabile e gerarchica, nei fatti la smentivano quotidianamente perché irrimediabilmente liberi.

La concezione monastica di libertà era quanto mai esemplificativa della necessità di inserirsi in un contesto gerarchico. La rinuncia alla libertà individuale, consegnata nelle mani dell’abate, veniva fatta in vista dei meriti nell’altro mondo. Assume a questo punto un ruolo cruciale il concetto di obbedienza che durante la lotta per le investiture, dunque proprio nel momento in cui le gerarchie terrene venivano riviste, fu la virtù per eccellenza. La difficoltà semmai si ritrovava nel capire a chi occorresse prestare obbedienza, in quanto proprio in questo frangente l’ordinamento gerarchico preesistente si trovava a vacillare e di conseguenza ad aprire nuovi spazi di libertà e di oggettiva autonomia.

Che rapporto esisteva tra forme di potere e libertates?
I poteri medievali potevano concedere delle libertà (al plurale) intese come esenzioni che servivano a ribadire un legame. Si era liberi da determinati obblighi di natura giuridica o fiscale soprattutto perché si era subordinati a un potere. Così per esempio nei diplomi imperiali la libertà era sinonimo di privilegio ed era tanto più consistente quanto più forte era il legame tra i singoli sudditi o le comunità soggette e l’imperatore. Questo valeva anche per i Comuni dell’Italia centro-settentrionale che non rivendicavano l’indipendenza da Federico I Barbarossa ma negoziavano i margini della loro autonomia. Non per caso nella pace di Costanza del 1183 l’imperatore, pur riconoscendo uno statuto del tutto privilegiato alle città italiane, non usa mai il termine tecnico libertas.

Quali profili giuridici acquisiva la libertas?
La realtà quanto mai variegata degli ordinamenti giuridici nel corso del Medioevo potrebbe apparentemente rendere ardua una ricerca mirante all’individuazione di un significato comune del concetto di libertà in tale contesto. Fattori frenanti per questo tipo di elaborazione erano i riferimenti alla teologia e gli strumenti messi a disposizione dalla logica. La fioritura degli studi giuridici tra i secoli XII e XIII permise, tuttavia, di tracciare delle linee di comprensione, pur nella consapevolezza di come la prassi dei rapporti sociali e politici andasse a innestarsi all’interno di tale percorso. Lo stesso Irnerio, giurista bolognese e artefice, tra gli altri, del recupero del corpus giustinianeo, incontrò delle difficoltà nell’interpretazione della libertà come “facoltà naturale”, quindi attribuibile all’individuo per il semplice fatto di esistere. Staccandosi dal testo, egli propose una definizione di libertà come diritto degli esseri umani ma variabile a seconda della diversità degli ordinamenti, andando ad acquisire senso soltanto se contrapposta alla condizione di servitù.

Nel corso del XIII secolo le rielaborazioni dei glossatori vertevano proprio sulla limitazione di questa libertà naturale, che era sì concessa in linea teorica a tutti gli esseri umani e senza alcuna limitazione, ma che di fatto andava applicata nel rispetto degli ordinamenti positivi e del diritto delle genti. Le motivazioni politiche sul tema della libertà influenzarono in maniera evidente anche alcune interpretazioni normative. Ci si trovava nel pieno dell’esplosione dei regimi di popolo all’interno delle città italiane e vi era l’esigenza di inquadrare le scelte istituzionali e normative degli stessi, soprattutto relative alle affrancazioni collettive dei servi. Tutto ciò portò a una forte resilienza circa la concezione naturalistica della libertà nel tentativo di arginare giuridicamente tendenze che avrebbero potuto rivelarsi ingestibili.

Quale concetto di libertas si ritrova in Dante?
Occorre distinguere tra il Dante della Commedia e quello della Monarchia o delle epistole. In quest’ultimo caso si riscontra un duplice significato per il termine libertà. L’attesa dell’imperatore Enrico VII del Lussemburgo era anche un’attesa di libertà, la stessa tradìta da coloro che avevano rifiutato la dovuta obbedienza al massimo potere temporale. Ritorna ancora il legame, apparentemente contraddittorio, tra questi due concetti. Dante rievocava le distruzioni patite da Milano e Spoleto a opera del Barbarossa e la usava come monito per i propri concittadini, rei di essere a un passo dal subire la medesima sorte. Quella decantata dai Fiorentini, che aspiravano all’autogoverno, era una falsa libertà, illusoria, cui faceva da contraltare il ‘libero legame’ stabilito con l’imperatore come rapporto privilegiato. Si trattava di una duplice visione pienamente inserita nella tradizione del dibattito politico già dal XII secolo e, infatti, non è un caso che Dante facesse riferimento proprio agli episodi sopracitati delle guerre contro il Barbarossa.

Guardando, però, alla Commedia ci si accorge di quanto il concetto di libertà sia una specie di chiave di volta specialmente nel Purgatorio. Una libertà sociale e personale che si ritrova nella piena espressione del libero arbitrio proprio nel Regno delle anime purganti, dove queste per accedervi hanno compiuto in vita una scelta di libertà optando per il bene. È questo il dono più grande concesso da Dio agli uomini e nella Monarchia l’imperatore si fa non soltanto (quasi) figura di Dio sulla terra, in quanto garante delle leggi e della condizione di libertà per gli uomini, ma anche strumento necessario per raggiungere la felicità terrena. Per quanto possano sembrare distanti, le visioni dantesche del concetto di libertà, sia che trattino del suo viaggio ultramondano, sia che riguardino il tanto agognato ritorno nell’amata (e odiata) Firenze, riconducono sempre a un principio di ordine gerarchico visto come necessità.

Antonio Manco è dottorando di ricerca all’Università di Firenze

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