
L’Autrice evidenzia come nel racconto biblico della creazione dell’uomo, la donna è «l’unica opera della creazione che viene al mondo per un bisogno. Una mancanza. Un desiderio. Tutto il resto è fatto così, senza motivo. Perché Dio crea il mondo? Chissà. Nessuno ce lo dice. La donna, invece, sì. […] La donna nasce dunque da una mancanza. Da un bisogno. Da un interrogativo. Soprattutto, da un desiderio.»
È soprattutto sul terreno della lingua che si combatte la battaglia del riconoscimento di una diversa identità, perché «la lingua si porta addosso sempre una storia molto più lunga di quanto non sembra. La lingua è un serbatoio del reale. È viva, cambia, ma lo fa con lentezza, e prima di farlo deve essere ben convinta di quello che fa, del passo che intraprende.» Ed ecco quindi questioni ormai cristallizzate dall’uso comune ma sempre vive: «E così, si appone l’articolo determinativo al cognome, quando non lo si evita. O si usa il primo nome per chiamare in causa una personalità femminile, quasi fosse un’amica, una parente, l’oggetto di una disinvolta intimità. Oppure si nega alle donne la possibilità di trasmettere il proprio cognome ai figli. E così, le donne sono quasi sempre chiamate in un modo diverso da quello con cui si chiamano gli uomini.»
Già, il cognome delle donne che «assai sovente» sparisce dal nome dei figli «è un’ingiustizia seppure di cifra diversa. C’è qualcosa di ambiguo e irrisolto, nell’assenza del cognome della madre. Qualcosa che va contro un principio innegabile, per quanto forse anacronistico – non tanto il principio stesso quanto il bisogno di ribadirlo: la priorità della vocazione materna. La sua incontrovertibile certezza, il fatto che una madre è una madre è una madre.» E così, «più ci si pensa più la questione dei nomi femminili è incongrua, incomprensibile. O meglio, è il segno di una distinzione che a sua volta è il retaggio di una millenaria esclusione.»
Certo, il dibattito linguistico è oggi più vivo che mai: «da un poco di tempo a questa parte è in corso una vera e propria campagna in armi che ha per bersaglio il plurale: il plurale maschile usato comunemente anche come plurale inclusivo – generico, se vogliamo. Che però sembra oggi essere inadeguato, perché ancora una volta segna – segnerebbe – la prevalenza del maschile.» D’altra parte, è innegabile che «c’è qualcosa di drammaticamente inadeguato nel fatto che per un insieme di, mettiamo, novantanove donne e un uomo, si debba usare il plurale maschile.»
«L’italiano non ha il neutro. Ma, anche se l’avesse, sarebbe davvero la scelta giusta per esprimere il plurale inclusivo? Il neutro non è forse proprio il contrario di inclusivo, non è forse “esclusivo” nel senso che esclude il genere, invece di comprenderlo? Anzi, “elusivo”, nel senso che esclude ogni definizione di genere? Se lo scopo è quello di determinare e non di generalizzare, allora un ipotetico plurale neutro non farebbe proprio al caso, anzi. Farebbe il contrario.
Determinare, appunto. Spazzare via l’indeterminatezza, anche quella che esprime un plurale maschile inclusivo, per precisare, definire, includere – anche il femminile. È pienamente legittimo auspicare, e cercare per l’italiano una forma che esprima correttamente e inequivocabilmente un plurale inclusivo, che non sembri riguardare cioè soltanto il maschile e tenga fuori di sé il femminile.»
«Per ovviare a questa assenza, negli ultimi tempi si sono tentate diverse soluzioni creative, tutte naturalmente soltanto per iscritto. Il plurale inclusivo non è ancora suono, perché si tratterebbe di inventare un fonema tutto nuovo. Pensare che di solito la lingua si evolve, cioè cambia, secondo il processo opposto – prima il parlato e poi lo scritto. […] la forma scritta più comune per indicare un plurale che comprenda maschile e femminile fa uso dell’asterisco, provocando con ciò una intrusione alquanto strana. L’asterisco non è un fonema, ovviamente. Non è né una vocale né una consonante. Ma non è nemmeno un segno di interpunzione […]. L’asterisco è un segno puramente grafico che serve per lo più a richiamare una nota a margine o a piè di pagina. […]
Nel giro di non molto tempo l’asterisco è diventato un segno abbastanza comune nella locuzione “car* tutt*” e non solo, a indicare che ci si rivolge a entrambi i sessi, tanto che ormai non stupisce più nessuno, tutti o quasi ne intendono il senso, anche se nessuno ha modo di veicolare quel segno dentro la lingua, di renderlo cioè pronunciabile. Perché di fatto quel segno marca l’assenza, l’evidenza che un plurale inclusivo alternativo al maschile non esiste. L’asterisco è insomma incongruo, è un vuoto su tutti i fronti. Non è pronunciabile, non funziona come surrogato, serve solo a sottolineare la carenza. È un corpo estraneo nel testo. […]
Un’altra soluzione sempre più discussa è il cosiddetto schwa. […] La forma grafica dello schwa nell’alfabeto fonetico latino è Ə. Di fatto, ancora una volta l’accorgimento adottato non fa che confermare l’impronunciabilità di questo plurale inclusivo puramente “virtuale” perché declinato con una desinenza occulta, estranea ai segni alfabetici che conosciamo e che siamo in grado di pronunciare. […] Ma non finisce qui. Vi sono altre soluzioni, e certamente ne arriveranno ancora. Come ad esempio il numero 3 in fondo alla parola, in sostituzione della desinenza maschile. O anche un punto come interpunzione fra la desinenza maschile e quella femminile: “buongiorno a tutti·e”. Quest’ultima formula ha una sua eleganza, risponde effettivamente a un’istanza di inclusione – comprende invece di sostituire. Si tratta, in un certo senso, di una versione sciolta del dittongo, che pure fa anch’esso la sua comparsa in alcune proposte di plurale inclusivo: “carœ tuttœ” o forse “caræ tuttæ”.
Invece che per sottrazione, spazzando il campo da vocali e vocalizzazioni possibili, si potrebbe allora procedere anche per addizione. Come nel nuovo messale della Chiesa cattolica, da pochissimo in vigore, dove nell’atto penitenziale sono state integrate le “sorelle” oltre ai fratelli. A costo di una iterazione pedante: “cari tutti e care tutte”, dilatare la parola resta per ora l’unica possibilità di inclusione “pronunciabile” e comprensibile. Ma in un presente come questo, tutto improntato alla rapidità della comunicazione, un presente in cui fra mittente e destinatario digitali il tempo si azzera e sparisce dalle variabili in gioco, pretendere di “allungare” il discorso suona quasi velleitario.»
Insomma, è necessario prendere atto che «la complessità è la vera cifra della vita, è onnipresente», per quanto sia certamente «più comodo e rassicurante ignorarla, ancorarsi al suo contrario, convincersi che le cose siano facili da intendere, cogliere, sistemare in un contesto coerente e trasparente. Fors’anche per questo, quando si tratta di battaglia femminile, si tende di frequente a rincorrere una chimera, anzi un incubo: l’uguaglianza. Come quando, e capita ancora drammaticamente spesso, per fare un complimento si dice a o di una donna che “ha le palle”. Come se queste ghiandole produttrici di seme (di genere femminile, poi…) fossero un attributo imprescindibile di ogni valore, come se fossero l’origine del talento. Per donne e per uomini, poi… Il che è profondamente offensivo non solo perché stabilisce nella mascolinità […] il canone della capacità, dell’intelligenza, dell’intraprendenza e chi più ne ha ne metta, ma anche perché ignora un’evidenza fondamentale. E cioè che la “bravura” femminile si esprime invece diversamente da quella maschile. Che, accidenti, le donne sono diversamente brave rispetto agli uomini. Perché sono diverse. Sono altro. Perché per natura e cultura sono e agiscono e pensano e creano diversamente dagli uomini. Cioè a modo loro.»