“Libertà di parola. Cittadinanza e avvocatura” di Massimo La Torre

Prof. Massimo La Torre, Lei è autore del libro Libertà di parola. Cittadinanza e avvocatura edito da Carocci: che relazione esiste tra la cittadinanza e l’avvocatura?
Libertà di parola. Cittadinanza e avvocatura, Massimo La TorreLa relazione dovrebbe essere evidente. Ma per varie ragioni non lo è. Almeno immediatamente. L’avvocato si presenta, ed è così rappresentato nella letteratura, si pensi al nostro Azzeccagarbugli, come un soggetto lontano dal cliente, ostile persino a questo, se debole e povero, che delle disgrazie di questo si alimenta, e persino può tendere a dilatare i tempi di tali disgrazie legati come sono questi ai tempi del processo. Tuttavia, l’avvocato, paradigmaticamente, è colui o colei (ma solo nel secolo ventesimo le donne ebbero accesso a tale professione) che assiste il cittadino nel suo rapporto con la legge e col giudice, proteggendolo innanzitutto, difendendolo, e permettendogli inoltre l’accesso allo spazio del diritto. L’avvocato spiega la situazione giuridica del caso al cliente, illustra le norme che gli sono applicabili, suggerisce una loro interpretazione, e poi l’argomentazione che meglio si adatta al perseguimento degli interessi e dei diritti del soggetto. D’altra parte, la cittadinanza è concettualmente la posizione soggettiva che garantisce la capacità di contribuire alla produzione delle norme che si è poi chiamati ad osservare. Ciò vale innanzitutto per la legge, la legislazione, e la partecipazione in tal caso è data dai diritti politici, dall’elettorato attivo e passivo, e dagli altri diritti fondamentali che a questi diritti si riconnettono, per esempio l’integrità fisica, la libertà di associazione, la stessa libertà di movimento. Ma il circolo virtuoso che definisce la cittadinanza, si è obbligati a rispettare solo le norme che si è contribuito o si è potuto contribuire a produrre, vale non solo per la norma generale, la legge, ma anche per la norma individuale, la sentenza. Qui la partecipazione del cittadino si dà secondo varie modalità. L’azione giudiziaria, la pretesa di un diritto innanzitutto, e all’altro capo dello spettro di intensità la giuria, i giudici popolari, e poi mediante l’intervento diretto del cittadino nella produzione della prova del fatto in esame e delle norme e degli argomenti che qui rilevano. Tale intervento si modula soprattutto mediante l’assistenza dell’avvocato.

Nel libro Lei richiama una nozione della cultura greca classica, la parresia: cosa si intendeva con questo termine?
La parresia è un termine che si dà nell’Atene classica a partire del V secolo a.C. La ritroviamo innanzitutto nelle tragedie di Euripide e in un passo di Democrito, il grande filosofo materialista e democratico, il vero avversario di Platone. E Platone di Democrito non fa mai menzione… Ma sì della parresia. Che vede tra l’altro allo stesso tempo come diritto cittadino, come exousia, facoltà, libertà, e poi come virtù, disposizione ad un certo agire morale. Parresia significa letteralmente “dire tutto”, dunque franchezza, sincerità. Ma in realtà il suo significato è ben più forte e radicale, almeno nel suo originario uso ateniese. La parresia è innanzitutto libertà di parola, ma libertà qualificata, radicale, per certi versi libertà eccessiva. È libertà di parola che sfida l’interlocutore, laddove questo si ponga in una situazione di autorità, il giudice per esempio, oppure lo stesso sovrano o legislatore, l’assemblea dei cittadini, l’ekklesia ateneise, ed è tale, sfida della libertà di parola, da creare conflitto. Parresia è produzione di conflitto rispetto al potere stabilito, e rivendicazione della dignità di chi la esercita. Ecco perché nella Bibbia dei Settanta, la prima traduzione greca di questa, meta parresias, nell’Esodo, traduce l’ebraico “stare diritti”, la tête levée, dira poi Calvino nella sua traduzione cinquecentesca, o “erguidos” nella versione portoghese. E si ricordi che lo stare diritti, il Aufrechtergang, è per i filosofi, per Platone come per Kant, la differenza specifica dell’animale razionale che è l’uomo. Il cielo stellato sopra di me – dice Kant, come fonte di meraviglia, insieme alla coscienza morale dentro di sé. Ma quel cielo stellato solo l’essere umano, stando diritto, può ammirare. In questo senso la parresia va oltre la isegoria, l’uguale libertà del parlare, e non può essere resa in maniera anodina con la mera libertà di espressione codificata poi nelle costituzioni liberali. Ora. il parresiasta, nell’opera di Euripide, è contrapposto alla figura dell’araldo, il messaggero che ripete parole altrui che gli è comandato di profferire. In un certo senso il nostro giudice giuspositivista, che si vanta d’essere bouche de la loi, che solo dice la legge, che la “canta” (come bisogna fare nell’esame spagnolo per divenire giudice), che la reitera – secondo una formula di Uberto Scarpelli che concepisce la norma per l’appunto come “precetto reiterato”, tutto ciò che è l’araldo si contrappone all’esercizio della libertà di parola del cittadino. Qui risiede la sua ontologica differenza rispetto al “comandato”, al suddito, e l’araldo è il suddito par excellence. La cittadinanza si dà nella sfida all’autorità stabilita, nella dignità di non chinare il capo dinanzi all’autorità o al “superiore”, ché la superiorità qui è solo quella della capacità di dire tutto, anche ciò che non aggrada all’interlocutore. Dunque il parresiasta è anche il contrario dell’adulatore. Lo stesso “superiore” non può farlo, non può dire tutto, agire da parresiasta, perché allora dovrebbe tradire la sua pretesa di perfezione e completezza, la soddisfazione di sé e del suo ruolo. Il potere, dice Platone, deve mentire, non può dire tutto, perché se lo dicesse rivelerebbe la fragilità della sua legittimità. Un conservatore nietzscheano come Leo Strauss si nutre di questa tesi e la articola in maniera maliziosa. È per questa ragione, per l’impossibilità della verità detta dal potere, che Montaigne prima e Pascal dopo inorridiscono dinanzi dicono, alla prospettiva di dare all’obbedienza politica una giustificazione morale razionale. No, il fondamento del potere può essere solo mitico, inarticolato, non interrogato, incontestato. La parresia mette in scacco tale atteggiamento. E così apre alla questione del fondamento della legittimità, che solo può risolversi nel “circolo virtuoso” della cittadinanza.

Che rapporto intercorreva tra parresia e democrazia?
L’ho già detto. Nella concezione della democrazia greca antica, quella ateniese del V secolo, la parresia è la posizione soggettiva che “apre” il gioco della cittadinanza, la sua fondamentale mossa iniziale. Dire tutto, nel senso di sfidare la menzogna e il silenzio dell’autorità. Chieder ragione, esigere una giustificazione. E così facendo creare conflitto, la lotta politica tra chi comanda e chi obbedisce, o meglio tra chi vuole comandare e chi non vuole obbedire.

Che ruolo svolge l’avvocato in relazione al processo normativo?
L’avvocato contribuisce alla produzione della decisione giudiziali. Fornisce spesso al giudice gli argomenti che poi a questo servono per motivare la sentenza. In questo senso l’avvocato è parte del potere giurisdizionale, e potrebbe definirsi, come è stato talvolta proposto, come vero e proprio potere costituzionale dello Stato. L’avvocato è poi la connessione essenziale tra diritto e società, tra il giudice, l’autorità, e il cittadino, e rende possibile la loro interazione efficace. Si potrebbe dare un sistema giudiziale senza avvocati, come era per certi versi il sistema dell’Atene classica, ma anche lì sore poi la figura del “logografo”, di chi prepara il discorso della parte. L’avvocato è poi fondamentale nel caso del processo penale, là dove l’imputato può dirsi trovarsi in uno stato di necessità, minacciato dalla forza dello Stato. L’avvocato lo soccorre, come sottolinea Tommaso d’Aquino, e gli fa rialzare la testa, gli ridà dignità. E lo fa proprio mediante la parresia, la parola libera che sfida l’autorità e le chiede ragione. In un seminario di dottorato all’Università di Catanzaro, Joseph Margulis, avvocato coraggioso di uno degli internati a Guantanamo, raccontava che soleva portare in cella l suo assistito una arancia come. Quel frutto ridava al disgraziato confinato un segno tangibile, colorato e profumato, della vita esterna, o li ricollegava al mondo, gli ricordava la sua vita anteriore, i suoi legami con la natura e. gli esseri umani. Con quel semplice dono gli si ridava speranza e dignità. Gli si faceva rialzare la testa. Quel dono è un atto da parresiasta, e l’avvocato è il parresiasta che tutti vorremmo accanto allorché su di noi si abbatte il rigore della legge, che sempre ci pone in uno stato di fragilità e di mancanza di difesa. A prescindere se la legge si abbatta su di noi legittimamente o illegittimamente, una tale legittimità merita comunque di essere accertata e dunque sfidata. Questa è la democrazia, ed è per ciò che essa ha terribilmente bisogno dell’avvocato e della sua parresia. Nelle dittature e negli Stati assoluti e totalitari non c’è spazio per l’avvocatura. Li si vuole ridurre a qualcosa di analogo al giudice o peggio al pubblico ministero.

In che modo dunque l’avvocato si pone come parresiasta?
Lo fa sfidando la legittimità dell’autorità, nel suo caso il giudice e il legislatore. Il diritto, come ci insegna Gustav Radbruch, un giusfilosofo tedesco, e poi l’articolo 23 III comma del Grundgesetz, la costituzione federale tedesca, può essere ingiusta. L’avvocato allora rivolge il diritto contro la legge. È lui il principale attore di questa strategia essenziale in democrazia. E lo fa non contentandosi di ripetere, legalisticamente, “la legge è la legge”. Bensì interroga il senso e la giustizia della legge in questione. La sfida. Le chiede di giustificarsi. E così facendo riprende per la parte la dignità e l’autonomia che a questa nel processo si prova a sottrarre. Nel processo non si applica la legge. Il processo non è un mero atto burocratico. La legge la si usa. La si pratica, e la si discute nella stessa pratica del diritto. E per discuterla è necessaria la parresia, la libertà del dire anche cose poco gradite e scomode. Che possono far male. Inoltre, il giudice – va sottolineato — non è un araldo. La presenza dell’avvocato serve a ricordarglielo, e gli rammenta anche che dietro ogni atto giuridico vi è una pretesa di giustizi, e sì anche una pretesa di progresso. L’avvocato come parresiasta è il ruolo istituzionalmente deputato a veicolare la pretesa di giustizia ed a radicalizzarla come pretesa di progresso. La sentenza è legittima e corretta, solo se è giusta, e facendosi giusta è la soluzione ad una controversia normativa e rappresenta un progresso rispetto alla precedente situazione giuridica.

Massimo La Torre è professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università “Magna Graecia” di Catanzaro e visiting professor all’Università di Tallinn in Estonia. Tra i suoi libri: Nostra legge è la libertà. Anarchismo dei Moderni (DeriveApprodi, 2017); Il diritto contro se stesso. Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi (Olschki, 2020).

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