“Lezioni da un secolo di vita” di Edgar Morin

Lezioni da un secolo di vita, Edgar MorinLezioni da un secolo di vita
di Edgar Morin
traduzione di Susanna Lazzari
Mimesis Edizioni

«Al tempo dei miei tredici anni mi sono giunte due rivelazioni contraddittorie che mi hanno segnato per sempre: il dubbio e la fede. Alla lettura de Il delitto di Sylvestre Bonnard di Anatole France, lo “scetticismo sorridente” (come si diceva di questo autore) mi invase come fosse la Mia Verità. A quella di Delitto e castigo di Dostoevskij, scoprii il combattimento e la complementarità fra la fede e il dubbio. Come in Pascal, anche se la mia fede non hai mai avuto Dio per oggetto, ma la fraternità umana.

Ricevetti, soprattutto da Dostoevskij, i messaggi di compassione e di complessità umana. La compassione per gli umili, gli umiliati e offesi non mi ha mai lasciato. Ed è più viva che mai oggi che tanti esseri sono umiliati a causa della loro origine o del colore della loro pelle. Lo spessore dei suoi personaggi femminili (Nastas’ja Filippovna ne l’Idiota, Grušenka ne I fratelli Karamazov) o maschili (Stavrogin ne I demoni) mi illuminò sulle complessità dell’anima umana.

Presi coscienza dell’universalità di questa complessità grazie a Hegel secondo il quale, in sostanza, se tratto da criminale un uomo che ha commesso un crimine, elimino ogni altro aspetto della sua personalità, delle sue azioni e della sua vita. Credo anche alla possibile redenzione dell’assassino. Ho conosciuto quella del carcerato a cui mi sono legato.

Dopo queste prime letture, Montaigne ha approfondito il mio scetticismo e mi ha incitato all’autoesame, e poi Voltaire e Rousseau, complementari nel loro antagonismo, così come i Lumi e il romanticismo, la razionalità e il misticismo (senza Dio), l’invisibile e il visibile. Grazie a queste letture, ho acquisito il sentimento profondo dei duplici e molteplici aspetti degli esseri umani, delle loro storie singolari, della grande Storia che tutti ci trascina.

Ognuno porta in sé il duplice imperativo complementare dell’Io e del Noi, dell’individualismo e del comunitarismo, dell’egoismo e dell’altruismo.

La coscienza di questo duplice imperativo si è profondamente radicata nella mia mente nel corso degli anni. Mi ha sempre spinto a mantenere e a fortificare la capacità d’amore e di stupore, e nello stesso tempo la resistenza ostinata verso la crudeltà del mondo.

Dirò, infine, che la coscienza della complessità umana porta alla benevolenza. La benevolenza permette di considerare gli altri non solo per i loro difetti e le loro mancanze, ma anche per le loro qualità, nello stesso tempo nelle loro intenzioni e nelle loro azioni.

Sono buono? So che sono bonario, non cattivo, non rancoroso. Non aggressivo.

Amo la polemica delle idee, ma detesto gli attacchi ad hominem. Sento molto bene le voluttà della vendetta, per avere letto il Conte di Monte Cristo, e per avere visto tanti western. Ma nella mia vita non ho mai cercato di vendicarmi.

Certo, il mio carattere conciliante e la mia assenza di volontà di potenza sono condizioni favorevoli alla benevolenza.

Tuttavia ho dall’infanzia e fino a ora fortemente sentito il bisogno di riconoscimento e mi piacerebbe che la mia opera fosse conosciuta per i suoi apporti e per le sue qualità. Poiché essa si è inizialmente trovata a essere deviante (e lo rimane per la mia concezione della conoscenza), ho dovuto subire l’incomprensione, il disprezzo e l’ironia.

Gli scrittori, i filosofi, gli universitari soffrono di uno smisurato complesso di riconoscimento. Ognuno vorrebbe essere riconosciuto se non come genio, almeno come il migliore dei suoi pari. Ogni libro è come un bambino amato per il quale ci si attende un destino glorioso che si rifletterà sul suo autore.

Da qui gli orgogli, le vanità, i disprezzi, le cattiverie, talvolta le calunnie, contro coloro che si vedono come rivali o peggio come nemici. Quando, in nome della complessità, ho integrato nei miei scritti dei saperi attinti dalle scienze fisiche o biologiche, ho suscitato la reazione del proprietario che tira fuori il suo fucile contro il bracconiere che arriva a derubare i suoi beni.

Voglio aggiungere che tutto ciò che ho fatto di buono all’inizio è stato incompreso e mal giudicato. E tuttavia non ho voluto né cercato di essere atipico o ribelle. Ma l’autonomia della mente porta senza che lo si voglia alla devianza. Bisogna accettare l’incomprensione e il discredito.

Infine, è cosa buona essere buoni e ci si sente bene a essere per il bene; il senso della complessità permette di percepire gli aspetti differenti e contraddittori degli esseri, delle congiunture, degli eventi, e questa percezione favorisce la benevolenza. La mia lezione ultima, frutto congiunto di tutte le mie esperienze, è in questo circolo virtuoso in cui cooperano la ragione aperta e l’amorevole benevolenza.»

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