“Lezioni cinesi. Come l’Europa può uscire dalla crisi” di Francesco Grillo

Prof. Francesco Grillo, Lei è autore del libro Lezioni cinesi. Come l’Europa può uscire dalla crisi edito da Solferino: è la Cina la nascente superpotenza mondiale?
Lezioni cinesi. Come l'Europa può uscire dalla crisi, Francesco GrilloDirei proprio di sì. Nel 1989, pochi lo sanno, ma la Cina era – per reddito pro capite – il Paese più povero del mondo (del 50% più povero dell’India o della Nigeria); oggi il suo Prodotto Interno Lordo corretto per potere d’acquisto, ha già superato quello degli Stati Uniti, facendone l’economia più grande del mondo. Non sono però solo i numeri dell’economia ad essere impressionanti. Rispetto al 1990, oggi il numero di persone in povertà assoluta nel mondo, sono diminuite di un miliardo: ma questa diminuzione è dovuta per due terzi alla Cina. Non meno significativo è il progresso sulla speranza di vita media che, se calcolata togliendo gli anni vissuti in malattia cronica, è più alta in Cina che non negli Stati Uniti (anche se la spesa sanitaria di questi ultimi è dieci volte maggiore). Ovviamente, come racconto in “lezioni cinesi”, non mancano nodi difficili da sciogliere, vere e proprie sindromi di accerchiamento e sfide che mettono in gioco la sopravvivenza di quel sistema. E, tuttavia, è evidente che la Cina ha, già, rotto lo schema del mondo con una sola superpotenza. Schema che è durato per trent’anni dal 1989 e che è, effettivamente, un punto di svolta.

Come nasce il miracolo dell’Impero di Mezzo?
Nel 1989 nasce, dunque, il “miracolo”. In realtà, il 1989 è non solo l’anno in cui cade il muro di Berlino e comincia la veloce disintegrazione del Sacro Proletario Impero Sovietico che Gorbaciov tentò di governare; è anche l’anno di Tienanmen ed il momento in cui il Partito Comunista fu più vicino a perdere il potere. Il libro spiega che successe in quei mesi, perché mentre si ammainava la bandiera rossa al Cremlino, la Cina è partita e non si è più fermata.
Due, però, sono i segreti del successo che può essere utile anticipare.

In primo luogo, la grande forza della Cina è il prodotto del progressivo indebolimento dell’Occidente.
In quell’anno fatidico l’Occidente si illude di essere arrivato alla fine della “storia” il momento in cui tutti i conflitti si sciolgono nella vittoria delle democrazie liberali. Fu un errore tragico, perché nel momento in cui credi di aver vinto definitivamente, quello è il momento in cui ti condanni al declino.

Il secondo fattore che ha consentito alla Cina il “miracolo” è che si è ritrovata ad essere l’unico grande Paese del mondo in grado di concepire una strategia di sviluppo. Mentre l’Occidente, a partire dall’Europa, rinunciava, progressivamente, all’idea di dover programmare un cambiamento che le tecnologie hanno reso sempre più urgente.

Se volessimo utilizzare i termini della macroeconomia, dovremmo dire che la vera anomalia della Cina è la grande propensione di quel Paese (e di quello Stato) ad investire: la percentuale del PIL che viene dedicata in Cina agli investimenti è stata superiore al 35% ogni anno, per trent’anni ed è, oggi, al 45%; negli Stati Uniti, in Italia, nella stessa Germania non abbiamo raggiunto il 25%.
Ciò significa avere una capacità di realizzare le infrastrutture – che sono ancora essenzialmente un “bene pubblico” – assai superiore: il risultato è che, ad esempio, due terzi delle linee ferroviarie ad alta velocità (o ad alta capacità) del mondo sono in Cina.
Gli investimenti, però, non sono solo una voce degli aggregati economici: essi sono indicativi di una visione di società diversa dalla nostra ed è questo, forse, il punto più importante che il libro sviluppa.

Il nostro Paese si situa agli ultimi posti per crescita in un’Europa che sembra aver perso fiducia in se stessa: come siamo arrivati a questo punto?
L’Italia ha “solo” anticipato – in maniera persino teatrale – una crisi che ha, successivamente contagiato gli altri grandi Paesi occidentali. Ed anche in questo caso parliamo di un clamoroso tradimento di se stessi.
I cinesi, le famiglie cinesi, i ragazzi che ho incontrato nei periodi che passo a Pechino insegnando all’UIBE (University of International Business and Economics) danno tantissima importanza allo studio. Forse troppa, perché un dibattito assai vivace in Cina denuncia uno stress eccessivo.
Fatto sta che nelle classifiche fatte dall’OECD di Parigi, il grande centro studi partecipato dai Paesi più sviluppati, i quindicenni cinesi sono al secondo posto nel mondo per competenze matematiche. In Italia, invece, abbiamo, in un paio di decenni, marginalizzato tutto ciò che è conoscenza.

Ci sono un paio di numeri che plasticamente dicono come i due Paesi – peraltro simili proprio per la lunghezza ed intensità della storia dalla quale vengono – hanno percorso traiettorie opposte: in Italia si spende quattro volte di più in pensioni che sono un sussidio a chi non è più nel mondo nel lavoro, di quanto si investe in educazione (dagli asili alle università) e, cioè, in futuro. In Cina i valori sono invertiti, l’educazione assorbe quattro volte di più delle pensioni e, anzi, nelle Università di Shanghai studiano un numero di anziani che sta esplodendo.

Sono un economista e, però, ritengo che quella della conoscenza, della marginalizzazione dello studio, della scomparsa degli intellettuali, del taglio delle risorse alla scuola, della burocratizzazione delle università italiane (con notevoli ma poche eccezioni) sia la ragione più convincente e profonda per spiegare per quale motivo siamo arrivati a questo punto.

In che modo una società con innumerevoli contraddizioni come quella cinese, dove non si tengono elezioni politiche ma all’avanguardia in moltissimi campi, ha potuto sviluppare gli strumenti che le consentono di adattarsi meglio alla rivoluzione tecnologica in atto?
In realtà, se osserviamo la storia delle altre grandi rivoluzioni tecnologiche dei secoli scorsi (nel libro definisco quella che stiamo vivendo la quinta, aggiungendo quella innescata dall’invenzione della stampa, alle trasformazioni dell’ottocento, del novecento e del ventesimo secolo), è sempre stato necessario un soggetto pubblico che garantisse le regole, gli investimenti indispensabili per completare quelle rivoluzioni e metterne il potenziale al servizio di tutti.
Per i motivi che abbiamo detto prima, la Cina si è trovata, all’improvviso, ad essere l’unico tra i grandi Paesi con la capacità di programmazione che è necessaria per non lasciare, come scrivo nella mia ricerca, il potenziale delle tecnologie chiuso nei computer.

Uno dei grandi puzzle che segneranno, a mio avviso, il lavoro degli economisti nei prossimi anni è quello che chiamo (nel libro con Solferino e quello uscito quasi in contemporanea con Springers – Nature e che si chiama “democracy and growth in the Twenty-First century”) il “paradosso dell’innovazione” (notato già dal premio Nobel Robert Solow alcuni decenni fa).
È aumentata a dismisura l’informazione alla quale possiamo accedere, che possiamo processare, memorizzare e trasmettere ma ciò corrisponde ad una diminuzione della produttività in tutti i Paesi occidentali.
Questa cosa non è vera per la Cina. E ciò perché, appunto, rispetto ai grandi fenomeni tecnologici che l’Occidente ha innescato e di cui l’Occidente potrebbe aver perso il controllo, i cinesi (e, in misura diversa, il resto dell’Asia) sembrano poter governare questa mutazione e piegarla ai propri interessi.

Basta pensare alla diversa risposta di Europa e Cina rispetto alle grandi piattaforme digitali: gli europei affidano, da decenni, tutte le informazioni (segreti commerciali, messaggi personali, comunicazioni politiche, proprietà intellettuali e notizie riservate) ad infrastrutture americane sulle quali hanno quasi nessun controllo (reagendo, da Bruxelles, più recentemente); i cinesi – con una scelta che noi non ci potremmo, mai, permettere – hanno tagliato fuori Facebook, Google e Amazon dal proprio Paese e hanno costruito piattaforme proprie.

Quella cinese è una risposta brutale. Ma nella battaglia per la supremazia digitale che determinerà chi avrà egemonia nel ventunesimo secolo, avere risposte forti può essere meglio che non averne.
La sfida per noi non è imitare la Cina: il libro cerca di definire come possiamo rispondere alla Cina andando nella direzione opposta. Approfondendo, rendendo più efficienti la democrazia.

Alibaba, da leader dell’e-commerce cinese, si appresta a diventare un brand globale: qual è la ricetta del successo del portale fondato da Jack Ma?
Alibaba è nata, come molte altre multinazionali cinesi ad altissima tecnologia, dalla grande capacità di lavoro e dall’ambizione di un imprenditore che aveva un “sogno americano”. Del resto è per sembrare occidentale che Jack Ma, come racconto nel libro, sceglie il nome pensando ad uno dei classici di Disney.
Quello che, però, fa la differenza è che i giganti di Internet cinesi sono parte integrante di una strategia di cambiamento (in alcuni casi di controllo) che il Partito mette in campo.

Alibaba, ad esempio, è stata la leva tecnologica (insieme a Tencent) per rendere tutti gli abitanti delle città cinesi liberi dalla moneta contante (e distruggere un’enorme “economia sommersa” che sfidava il Partito). Più recentemente l’azienda è diventata lo strumento per far entrare 600 milioni di agricoltori cinesi nei mercati elettronici e – con i droni – per andare a prelevare nei villaggi i prodotti da vendere a centinaia di chilometri di distanza.

Alibaba è già un brand globale che, però, si è fatto le ossa, mettendo le tecnologie a disposizione delle persone ordinarie, come strumento di risoluzione di problemi concreti.
In questo senso la Cina è, di nuovo, diversa da un Occidente che usa Facebook o Instagram quasi solo per chattare. È un approccio diverso dato dalla circostanza che, per la prima volta (con il Giappone dei primi anni novanta fu diverso), abbiamo sulla frontiera di molte tecnologie un Paese di sviluppo medio e racconto diversi casi sorprendenti di un’innovazione che esce dagli schermi per diventare vita reale.

Come possono convivere in una società così dinamica un’ideologia e un Partito considerati superati con l’antica eredità filosofica di Confucio?
Il Partito, si diceva prima, si salvò, nel 1989, dalla sua peggiore crisi. A riuscirci non furono i carrarmati di Tienanmen, ma un’intuizione geniale di Deng Xiaoping.
Deng ebbe, infatti, l’ardire di proclamare di fronte ai suoi compagni terrorizzati di fare la stessa fine dei sovietici che “la pratica è la sola via per sperimentare l’esattezza della teoria”. Da quel momento, al pianificatore cinese è stato consentito qualsiasi innovazione – le più importanti arrivano dai mercati, a patto di sottoporre ogni riforma ad una sperimentazione prima di adottarla.
Interessante, poi, è la stessa idea di democrazia che i cinesi – senza elezioni politiche – praticano: per loro, è uno strumento per aggregare competenze individuali per sviluppare intelligenza collettive e risolvere problemi specifici. Una definizione classica e nel libro ne racconto applicazioni interessanti.

Quali idee servono all’Occidente per scuotersi da un torpore che lo accompagna ormai da decenni?
La Cina – sono le prime parole del libro – è lo specchio nel quale, da sempre, l’Occidente trova meglio riflessa la sua immagine al contrario. E fu, forse, questo il motivo vero che spinse tre mercanti veneziani a intraprendere un viaggio lungo 9,000 chilometri. Alla fine del viaggio, osservando il tuo contrario, viene da pensare che dobbiamo – solo – ricordarci cosa siamo stati. Cosa è che ci ha definito per secoli.
Il libro si chiude con sette lezioni per l’Occidente e con dieci specifiche idee pensate per l’Europa e per le prossime elezioni. Rimanderei a quelle conclusioni per una risposta più articolata.

Francesco Grillo ha completato il dottorato in politica economica presso la London School of Economics, si è laureato in Economia alla LUISS di Roma ed ha conseguito un MBA alla Boston University. È, attualmente, Amministratore Delegato della società di consulenza Vision & Value ed è stato dirigente nella società di consulenza strategica McKinsey & Co.
Francesco Grillo è stato visiting fellow all’Università di Oxford, è associato alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ed insegna all’UIBE a Pechino. È editorialista del “Corriere della Sera” e “The Guardian” ed è ospite su La7, SkyTG24 e Rainews24.

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