
a cura di Igor Candido, Chiara Fenoglio, Raffaello Palumbo Mosca, Giulia Ricca e Daniele Santero
La nave di Teseo
Se l’impermanenza è tratto originario, intrinseco, il cruccio ontologico, dell’umanità, la letteratura è rimedio all’oblio che è destinato ad involvere le nostre esistenze. Scrivono i curatori nella loro Introduzione al volume: «per Giorgio Ficara la letteratura, poesia o romanzo, non è che […] un modo, forse il meno immediato ma tra tutti il più convincente, in cui la vita stessa viene pensata.» E la critica, «un genere letterario di prim’ordine».
Giorgio Ficara, fine critico letterario dotato di quell’«intelligenza critica» così rara e preziosa e «scrittore-lettore perennemente all’opera», secondo le parole di Mario Baudino – che gli dedica «una memorabile considerazione di Cesare Garboli, nella premessa agli Scritti servili […]: “Esistono, secondo me, gli scrittori-scrittori e gli scrittori-lettori. Lo scrittore-scrittore lancia le sue parole nello spazio, e queste parole cadono in un luogo sconosciuto. Lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo.”» -, del maestro Giovanni Getto condivide la convinzione che la critica è «non tanto o non solo filologia, descrizione, perimetrazione di testi o di umane avventure, ma scrittura, confronto: anche ri-creazione».
In questo ispirato florilegio di alta critica letteraria, di Ficara emerge un ritratto che si spande attraverso innumerevoli letture, come molteplici sono gli interessi di studio e di ricerca del celebrato, da Dante a Petrarca, a Manzoni, e ancora «teoria del romanzo e teoria letteraria […]; De Sanctis; il D’Annunzio prosatore; Parini […]; Pascal; Leopardi; il Calvino critico; Boccaccio; Tasso; Gadda.» Una festschrift arricchita dai contributi di alcuni dei nomi più autorevoli del panorama letterario nostrano, «un’allegra brigata di amici», come si definiscono, tra i quali Giulio Ferroni, Antonio Franchini, Ernesto Ferrero, Emanuele Trevi, Raffaele La Capria, solo per citarne alcuni.
Difficile cogliere tra le primizie in esso contenute i testi più significativi; come non indulgere, ad esempio, sul toccante saggio di Sabrina Stroppa “Non è, Donato mio, gran cosa il vivere” sulla consolatoria di Petrarca a Donato Albanzani per la morte del figlio (Sen. X 4) le cui parole, così cariche di empatia dell’anziano umanista, risuonano strazianti in chiunque vi si accosti: «“Non è, Donato mio, gran cosa il vivere,” esclama al termine di questo cumulo di infelicità: “che se fosse qualcosa di grande, sarebbe una gran cosa toccata pure a mosche e vermi” (ivi, § 92, p. 212: “Non est, mi Donate, magnum vivere…”). […] Pensavi, dice a Donato […], pensavi di vedere tuo figlio sopravviverti, affidando a lui sapere e onori, e prevedendo il corso della sua vita dopo la tua morte (ivi, §§ 96-98, p. 212). Ma non c’è pazzia più grande che pensare di poter estendere la propria volontà di dominio sul futuro, che non ci appartiene.»
Antonio Franchini registra che «la letteratura è finita. Non nel senso che non se ne scriva più. Ancora si scrivono e ancora si pubblicano libri belli, interessanti, importanti. Ma se la letteratura deve essere costituita da opere capaci di mettere radici nell’inconscio collettivo di un popolo fino a disegnarne l’identità, come è stato per molti secoli, in questo senso la letteratura è finita.»
Scrive poi Emanuele Trevi, tratteggiando il ritratto che Ficara dedica, nel suo Vite libertine – «forse, il libro che gli appartiene di più» lo definisce Massimo Onofri -, al cardinale François-Joachim de Pierre de Bernis: «Ficara ci presenta il suo eminente personaggio sul letto disfatto di una casa veneziana, dove Bernis conversa, dopo aver goduto a lungo i piaceri dell’amore, con una ragazzetta veneziana, bella e intelligente, almeno quarant’anni più giovane del cardinale. Prima di prendere sonno, sfiniti dalla voluttà, conversano sul peccato, sul destino del corpo, sulla paura della morte. Bernis ne è sicuro: nessun uomo, nemmeno il più grande mistico o filosofo, ha mai minimamente risolto il problema della finitezza della vita umana. E dunque, visto che il senso del nostro stare al mondo ci è negato, “il piacere effettivamente sospende il pensiero della morte”: fatto incontestabile che finisce per rendere più importante una partita a biliardo di tutti i pensieri di Platone. […] Tra le altre voluttà, c’è anche quella del pensiero: a patto di non identificarsi in nulla, nemmeno nella verità che si è sfiorata. Nelle sue memorie Bernis, indossati i panni del grande cardinale, dichiara di aver sempre odiato i libertini e il libertinaggio: sapeva di mentire, e che nessuno dei sui contemporanei gli avrebbe creduto».
Come ci ricorda Giacomo Debenedetti, nell’assolvere alla sua funzione, la letteratura ci rivela così «una situazione con cui sia possibile identificare i nostri grovigli interiori e ritrovarveli illuminati, sì da sentirci almeno per un attimo, assolti dalla opacità del nostro soffrire e del nostro gioire».