a cura di Stefano Calabrese
Bur Rizzoli
«A lungo ci si è chiesti persino cosa fosse la “letteratura per l’infanzia”, e precisamente se il termine “letteratura” non fosse un azzardo, se la preposizione “per” indicasse un dativo o un complemento di scopo, se infine l’“infanzia” dovesse comprendere o escludere l’età adolescenziale. Di più: questi interrogativi hanno indotto a proporre altre etichette, la più nota delle quali è “letteratura giovanile”, una definizione il cui fine sarebbe quello di risultare più comprensiva, spostando il baricentro del genere letterario sui testi per adolescenti. Nulla era chiaro, e dove nulla è chiaro significa che l’oggetto di studio è in un certo modo ancora allo stato nascente, in rapida evoluzione e dunque difficilmente catalogabile. Solo intorno alla fine degli anni Settanta del Novecento le cose hanno cominciato ad apparire nei loro nitidi contorni, almeno a partire dal momento in cui la letteratura per l’infanzia non ha più avuto l’arroganza di identificare un corpus di testi scritti dai minori per un’utenza minorile (di fatto, la produzione di testi scritti dai bambini stessi in fase di alfabetizzazione è sempre stata esile, lacunosa e frammentaria, benché oggi essa sia oggetto di studi approfonditi) e non ha più rivendicato il diritto di includere ciò, e solo ciò, che un pubblico prepuberale e adolescenziale di fatto legge – come ancora Benedetto Croce, riottoso a qualsiasi identificazione teorica di genere, sosteneva negli anni Trenta.
Cosa sarebbe dunque la letteratura per l’infanzia? Indubbiamente favoriti da una tradizione letteraria di primissimo ordine e folta di personaggi divenuti degli autentici trade marks – da David Copperfield, Alice, Huckleberry Finn e Peter Pan a Harry Potter –, sono stati gli studiosi di area anglosassone a fornire negli ultimi trent’anni le definizioni teoriche, i quadri descrittivi e i protocolli morfologici più completi di cui oggi la comunità scientifica possa avvalersi. Sin dal suo primo apparire intorno alla fine del diciottesimo secolo – in Italia, la data di riferimento è la pubblicazione delle Novelle morali di Francesco Soave (1782) –, con l’espressione “letteratura per l’infanzia” si intende quel corpus di testi, in ampia misura narrativi, scritti da adulti esplicitamente per un pubblico di lettori compresi in una fascia anagrafica tra i sei e i sedici anni circa. Contrariamente agli altri generi letterari, che si definiscono sulla base di caratteristiche formali ricorrenti e descrivibili (come ad esempio il romanzo moderno per adulti, la tragedia, la commedia, il melodramma, la satira o il racconto autobiografico), la letteratura per l’infanzia sarebbe invece tutto ciò che viene prodotto nella prospettiva di una utenza inequivocabilmente identificata dagli scrittori prima ancora che abbia luogo l’atto creativo della scrittura. Dunque testi reader-oriented, cioè pensati nella prospettiva di un lettore che costituirebbe l’autentico protagonista e – come voleva Hans Robert Jauss, il teorico dell’atto della ricezione quale centro propulsore della letteratura – quasi il co-autore dei testi di cui si rifiuta di essere un passivo, trascurabile fruitore. […]
Le opere di letteratura per l’infanzia rappresentano dunque testi scritti per un pubblico giovanile, o testi inizialmente prodotti per un pubblico adulto che in seguito, attraverso interventi editoriali in forma di tagli, semplificazioni, omissioni, rientrano nelle modalità di fruizione di quel pubblico giovanile (l’esempio più noto è il Robinson Crusoe di Daniel Defoe, 1719, un romanzo per adulti che nel corso di un secolo, debitamente emendato, viene adottato dalla letteratura per l’infanzia in virtù del suo elevato indice di esotica avventurosità). Testi marsupiali, potremmo definirli, poiché includono quale parte integrante di se stessi i loro lettori. […]
Purtroppo le cose non stanno così, e anzi la letteratura per l’infanzia è uno degli ambiti letterari in cui maggiori sono state le costrizioni didattico-pedagogiche esercitate dagli autori sui loro giovani lettori. La storia è ben nota. Intere legioni di pueri, ritenuti bisognosi di essere addestrati alla civiltà degli adulti, al rispetto delle norme comportamentali legittimate dal consesso sociale e dei principi etici più basilari, sono stati sottoposti a letture – spesso sotto la sorveglianza degli adulti – in cui narrazioni confezionate piacevolmente avevano l’unico scopo di ricondurre quegli ingenui lettori a una soffocante precettistica. Più che testi marsupiali, testi lucreziani, in cui calici bordati di saccarina contenevano dosi massicce di fiele educativo o, al peggio, rieducativo: testi che non sono mai mancati nella storia della letteratura per l’infanzia, a partire dai suoi esordi intorno alla metà del Settecento grazie alle opere di John Newbery.»