
Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: – Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!
Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire.»
Lessico famigliare è una cronaca della famiglia di Natalia Ginzburg, descritta attraverso le espressioni, i modi di dire, le filastrocche, le storielle, gli aneddoti, gli elementi linguistici che rendono qualsiasi nucleo famigliare un microcosmo unico, irripetibile e, almeno apparentemente, chiuso in se stesso.
Il punto di accesso alla sua famiglia, per l’autrice, esiste, ed è uno soltanto: acquisendo il “lessico famigliare” dei Levi, il lettore può prendere confidenza con l’ottimismo della madre che canta “Io sono Don Carlos Tadrid” in giro per la casa; con le zuffe tra fratelli che si risolvono in scherzo, come “il baco del caco del malo”; con le lamentele della nonna perché, a suo parere, “in questa casa si fa bordello di tutto”; con i rimproveri di un padre autoritario e brontolone che dà dell’“asino” o del “sempio” a chiunque, e il cui unico motivo d’orgoglio sembra essere l’antifascismo militante dei figli, che li porta all’esilio o in carcere.
Proprio l’antifascismo della famiglia Levi consente alla dimensione privata di intersecarsi con la dimensione politica e sociale che va dal primo dopoguerra, all’avvento del fascismo, allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Ma mentre le tempeste della Storia restano per lo più ferme all’orizzonte, è sempre la memoria intima, privata e familiare a dare colore agli oggetti e alle persone: i personaggi illustri che si incrociano con le vite dei Levi sono descritti nei piccoli dettagli quotidiani. Così scopriamo che Adriano Olivetti era pallido, timido e silenzioso, che i quadri di Felice Casorati erano, per il padre di Natalia, dei “gran sbrodeghezzi”; e Filippo Turati, nascosto in casa dei Levi per dieci giorni, “aveva mani piccole e bianche” ed era sempre “ilare e sereno”.
Lessico famigliare offre anche uno spaccato della casa editrice Einaudi, di cui Ginzburg è stata una delle principali collaboratrici fin dalle origini. Se Giulio Einaudi era di una timidezza che “intimidiva gli estranei”, Felice Balbo era sempre in fermento “col suo naso rosso, serio come diventava serio quando aveva una proposta”, al contrario di Cesare Pavese, che invece non riceveva mai nessuno e ripeteva sempre “io me ne infischio!”.
L’autrice dà poco spazio ai sentimenti personali: persino la morte del marito Leone, avvenuta in carcere per le torture dei tedeschi, è descritta in pochi tratti, da cronaca giornalistica. L’unica eccezione è data dalle pagine dedicate a Pavese, che sono tra le più sentite e commosse del libro: l’autrice descrive senza sconti il carattere brusco e i demoni interiori del suo più caro amico, forse per trovare uno spiraglio di senso nel suo suicidio:
«Aveva sempre, nei rapporti con i suoi amici, un fondo ironico, e usava, coi suoi amici, commentarci e conoscerci con ironia; e questa ironia, che era forse tra le cose più belle che aveva, non sapeva mai portarla nelle cose che più gli stavano a cuore […] la sua ironia è la cosa di lui che più ricordo e piango, perché non esiste più: non ce n’è ombra nei suoi libri, e non è dato ritrovarla altrove».
Oltre al rimpianto e alla perdita, l’autrice sembra quasi veicolare, in questo passaggio, il senso stesso di Lessico famigliare: perché molto più delle fotografie o delle tracce scritte, è il linguaggio orale, intimo, ripetuto nel tempo, a catturare veramente le sfumature emotive di una persona, o di un intero nucleo famigliare.
Natalia Ginzburg compie quindi un’operazione di recupero che non ha precedenti nella letteratura: lascia una traccia proprio di quelle sfumature impalpabili e ironiche, attraverso una memoria fatta di parole. Per ottenere questo risultato a livello stilistico, la parola ripetuta e rivissuta nel tempo è quasi sempre accompagnata dall’imperfetto: il tempo della famiglia Levi non è mai un passato remoto, bensì diventa quasi ciclico, congelato in un punto nel passato, e mai veramente concluso.
Anna Galvagno