
di Remo Bodei
a cura di Gabriella Giglioni e Gaspare Polizzi
Mimesis Edizioni
Il male e la sofferenza in Leopardi
«Nella tradizione cristiana il male ha una connotazione eminentemente negativa: è privazione di bene. Se – al proprio livello – tutto quanto è stato creato risulta buono, il male del mondo non può che derivare da scelte intenzionalmente compiute da esseri liberi e responsabili. Si tratta di angeli caduti o di uomini superbi, che introducono nel mondo la ribellione e il disordine. In questa prospettiva, la fascinazione del male si presenta come attrazione per il nulla e per l’anarchia.
Leopardi distrugge metodicamente sin dalle fondamenta i presupposti di tale concezione. In primo luogo, dimostra che il male non è turbamento accidentale, volontario, umano di un ordine divino o naturale che altrimenti sarebbe in sé perfetto; in secondo luogo, che quel che chiamiamo realtà è un paradossale “solido nulla”, intessuto di “illusioni” e promosso dalla ragione stessa. Cade così la concezione sostanzialistica della pienezza dell’essere e dell’esistenza di un ordine divino del cosmo, i pilastri delle architettoniche del bene che durano – quasi senza soluzione di continuità – da Platone sino a Wilhelm Leibniz.
Poiché ogni conoscenza procede dai sensi ed è integrata dall’immaginazione e dalla ragione (laddove entrambe non giungono) sulla base dell’elaborazione incessante dei materiali che vengono loro trasmessi, quel che effettivamente ci risulta è unicamente la datità indeducibile di tutte le cose: “la distruzione delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta, e de’ loro contrarii. Vale a dire di una perfezione ecc., la quale abbia un fondamento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la contengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti soggetti, e indipendente da loro” (Zib., 1340, 17 luglio 1821). Derivando, in ultima analisi, ogni nostra conoscenza da sensazioni irriducibili, diventa assurdo parlare in assoluto del bene e del male, della bellezza e della bruttezza, dell’ordine e del disordine. Infatti, una volta eliminate le idee innate, “non v’è altra possibile ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere così o così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in realtà è la sola ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la convenienza delle cose fra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente” (Zib., 1340-1341, 17 luglio 1821). […]
Anche l’animo umano oscilla tra situazioni negative e positive: “E credi a me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo, che possa durare assai; benché queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le loro contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata leggermente la disposizion del corpo, a poco a poco, e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime e appena possibili a notare; rifassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostratisi non indegne di qualche cura; non veramente all’intelletto, ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo”. (Dialogo di Plotino e di Porfirio)
E per tal motivo “la sommità della filosofia” è utile soltanto “perché ci libera e ci disinganna dalla filosofia”.»