“Leopardi e la cultura del Novecento. Modi e forme di una presenza” a cura di Maria Valeria Dominioni e Luca Chiurchiù

Dott. Maria Valeria Dominioni e Luca Chiurchiù, Voi avete curato l’edizione degli Atti del XIV Convegno Internazionale di studi leopardiani, tenutosi a Recanati il 27-30 settembre 2017, dal titolo Leopardi e la cultura del Novecento. Modi e forme di una presenza e pubblicati da Olschki: quale ricezione ha avuto Giacomo Leopardi nella cultura del Novecento?
Leopardi e la cultura del Novecento. Modi e forme di una presenza, Maria Valeria Dominioni, Luca ChiurchiùPossiamo affermare senza indugi che Giacomo Leopardi, insieme a Dante, ha rappresentato uno dei modelli ineludibili per gli scrittori, e non solo, del nostro Novecento. A partire dalla consacrazione desanctisiana, avvenuta a pochi anni dalla scomparsa del Recanatese, Leopardi è entrato a pieno titolo nel canone letterario, e divenuto parte della tradizione culturale, anche scolastica, dell’Italia Unita. Tuttavia, se ciò è vero, se cioè il suo valore e la sua grandezza sono stati riconosciuti fin da subito in maniera univoca e mai messi in questione, non si può dire lo stesso per la totalità della sua opera. In questo senso, più che di ricezione novecentesca, si dovrebbe parlare di ricezioni novecentesche: eterogenee, plurali, mobili; e più che di un solo Leopardi, si dovrebbe parlare di diversi Leopardi nel Novecento. A seconda della temperie culturale e politica, a seconda delle correnti estetiche dominanti, per una parte del “secolo breve” sono stati privilegiati soltanto alcuni aspetti e alcuni testi della produzione leopardiana, sempre a discapito di altri: valga come unico esempio il famoso e ingombrante giudizio di Benedetto Croce, che voleva il vero Leopardi risiedere esclusivamente in quello degli Idilli, di fatto trascurando e reputando minore il resto della sua produzione.

Diversi saggi presenti nel volume aiutano a ricostruire, grazie a panoramiche puntuali, queste continue oscillazioni nella ricezione leopardiana, nonché le sue rinegoziazioni, nel corso del XX Secolo italiano, specie nella sua prima metà: Giuseppe Sandrini (L’eredità di Leopardi nei prosatori della prima metà del Novecento) offre uno spaccato sui prosatori primonovecenteschi (Massimo Bontempelli, Giani Stuparich, Curzio Malaparte, ecc.); Pantaleo Palmieri («Un’intimità fraterna»: Thovez e Leopardi) invece si occupa del caso specifico del critico letterario Enrico Thovez; Antonella Antonia Paolini («D’un poète qui nous permettra de retrouver l’Italie». Silvio Trentin lettore di Leopardi) rileva l’importanza della figura di Silvio Trentin, afferente al gruppo di Giustizia e Libertà e precursore, se non addirittura ispiratore, della svolta del ’47 operata da Luporini e Binni e riguardante la rivalutazione del portato filosofico, civile e politico del pensiero leopardiano. Proprio alle letture politico-filosofiche di Leopardi sono dedicati due contributi: quello di Stefano Gensini (Leopardi, Gramsci e un “nesso di problemi” per il caso italiano), incentrato sulla figura di Antonio Gramsci, e quello di Gaspare Polizzi (Leopardi e la battaglia delle idee nel Novecento italiano), che si presenta come un’indagine diacronica sulle riprese di Leopardi da parte di intellettuali come Giovanni Gentile e Sebastiano Timpanaro.

Come si manifesta l’eredità del Recanatese nelle opere dei maggiori autori novecenteschi italiani e internazionali?
Rifacendo il verso a L’infinito, letteralmente, potremmo rispondere che Leopardi per tutto il Novecento è stato “presente e vivo”. I modi in cui si è manifestata (e si manifesta tuttora) la sua presenza sono molteplici, e ben indagati nella varietà dei contributi che compongono il volume.

L’eredità leopardiana è stata nella maggior parte dei casi dichiarata esplicitamente dai protagonisti del Novecento letterario, alcuni dei quali hanno eletto il poeta di Recanati a principale nume tutelare della loro produzione. Si pensi per esempio a Tommaso Landolfi, ricordato in L’aldilà del Novecento, saggio di Andrea Cortellessa che dà conto di una costellazione di prosatori “lunari”: da Aldo Palazzeschi a Gianni Celati, passando anche per Giorgio De Chirico e Antonio Delfini. Si pensi poi a Italo Calvino, per il quale, come dimostra Melinda Palombi (Ripetizione e poetica in Leopardi e Calvino: segni, moti, oscillazioni), la forma e i temi contenuti nelle Operette morali furono fondamentali, in particolare per la costruzione delle Cosmicomiche. Si ricordi inoltre la decisività della lezione di Leopardi per Luigi Pirandello: non solo per quanto riguarda la sua prima stagione, ma anche quella più matura, e più connotata dal punto di vista filosofico: Valerio Camarotto in Tra modernità e tradizione: Pirandello, Leopardi e la riflessione sulla letteratura ripercorre le tappe di questa “lunga fedeltà”. Altri autori hanno invece riconosciuto in Leopardi un interlocutore privilegiato per la dolente consapevolezza creaturale con cui ha cantato la fragilità della condizione umana e non umana: è il caso di Anna Maria Ortese, indagato da Davide Di Poce («Il giovane favoloso». Il Leopardi di Anna Maria Ortese).

Discorso a parte va riservato agli autori non italiani, i quali da Leopardi hanno desunto soprattutto temi e atmosfere: per tali autori Leopardi non ha rappresentato tanto un modello, per così dire, famigliare e memoriale, quanto l’esponente di una tradizione più ampia, di respiro europeo. Lo conferma Tommaso Gennaro (Rumor de lonh. Leopardi, Beckett e la voce che proviene da lontano), che cerca di recuperare le tracce leopardiane nei testi di Samuel Beckett, focalizzandosi sul motivo del “canto di lontano”; lo confermano poi Christos Bintoudis (Leopardi, Kavafis e il mondo antico), che mette a confronto il comune modo di concepire il mondo antico di Leopardi e di Costantino Kavafis, e David Jérôme (Capitombolare con Cioran e Leopardi), il quale ricorda come Emil Cioran considerasse Leopardi un fratello in spirito, oltre che un maestro ideale.

In che modo Leopardi costituisce fonte di temi e motivi, oltre che tema e personaggio egli stesso?
Come si diceva, la presenza di Leopardi aleggia in vari modi, nelle opere novecentesche. Nella maggior parte dei casi gli omaggi, le riprese e le riscritture sono espliciti: l’ascendenza leopardiana non viene sottaciuta o occultata nei testi, ma anzi resa deliberatamente manifesta. Questo perché Leopardi è un autore ineludibile, al pari di Dante, con cui si deve fare i conti in ogni caso, e con il quale corre l’obbligo di mettersi in dialogo, anche in maniera ironica.

Alle volte si tratta di “manifestazioni” nel senso proprio del termine, e cioè di apparizioni di un personaggio letterario a tutti gli effetti: ne offre degli esempi Marco Dondero (Tre “apparizioni” del Leopardi personaggio: Brancati, Savinio, Saba), che mette a confronto tre casi di studio del primo Novecento; oppure ancora Novella Primo («Lieta già del tuo canto». Osservazioni sul leopardismo di Primo Levi), che nel suo saggio, oltre agli echi leopardiani presenti nella lirica di Primo Levi, analizza un racconto di quest’ultimo in cui un personaggio anonimo, ma del tutto simile al Recanatese, si reca dallo psicanalista: quasi un’operetta morale postmoderna.

Altre volte la ripresa è invece tematica: motivi e immagini leopardiani vengono declinati in maniera inedita dagli scrittori della nostra contemporaneità, come dimostra il saggio di Rosalba Galvagno (Il sogno della caduta della luna in alcuni passaggi della prosa del Novecento e altri saggi leopardiani), che si occupa della riattualizzazione del motivo della “luna caduta” da parte di Lucio Piccolo, Vincenzo Consolo e Antonio Prete.

In che modo la lirica novecentesca ha riconosciuto nel Poeta un classico con il quale confrontarsi?
Anche questa è una domanda complessa, che contempla diverse risposte possibili, dal momento che molto diversi sono stati i percorsi della lirica novecentesca, in particolare italiana. Se da un lato è indubbio che l’influenza leopardiana è stata decisiva, dall’altro i modi in cui essa ha trovato spazio e luogo nei testi e nelle intenzioni programmatiche dei poeti del XX Secolo sono molteplici. Il leopardismo – per usare una felice formula di Gilberto Lonardi, che nel volume firma un saggio sulla traduzione dell’Odissea, dai forti rimandi leopardiani, di Giovanna Bemporad (Per Bemporad, l’«Odissea», Leopardi) – ha conosciuto insomma varie realizzazioni. I casi più emblematici sono rappresentati da quei poeti di fine Ottocento e di inizio Novecento che hanno interiorizzato immediatamente la lezione e gli stilemi di Leopardi, studiandoli e rileggendoli anche attraverso il simbolismo e il decadentismo: si potrebbe nominare Giovanni Pascoli, sul quale si concentra il contributo di Antonella Del Gatto (Decostruzione metaforica e pensiero associativo: Leopardi nei «Canti di Castelvecchio» di Giovanni Pascoli), poi Guido Gozzano, la cui produzione viene analizzata da Nicola Feo (Un leopardismo senza tragedia agli esordi del Novecento: la poesia di Guido Gozzano), e poi ancora Umberto Saba, di cui tratta Stefano Carrai nel suo saggio Il modello Leopardi dal primo all’ultimo Saba.

Come si può intuire dai nomi appena fatti, le personalità del Novecento italiano che hanno inequivocabilmente proseguito nel solco leopardiano sono quelle legate a un’idea di poesia anti-avanguardistica e alle forme proprie della tradizione: si pensi a Giorgio Caproni, di cui si occupano i saggi di Giuseppe Zappalà («Un’anima meravigliosamente amante». Giorgio Caproni lettore di Leopardi) e di Stefano Verdino (Leopardi tra Luzi e Caproni). Quest’ultimo, come rivela il titolo del suo scritto, pone al centro del suo studio anche un altro grande esponente del leopardismo lirico, ossia Mario Luzi.

Nonostante quanto si è detto finora, non sono mancati poeti sperimentali che si sono rifatti a Leopardi: lo testimoniano i contributi di Emmanuela Tandello su Amelia Rosselli (Natura, idillio, «souffrance»: Leopardi in «Serie Ospedaliera» di Amelia Rosselli) e di Massimo Natale, che con il suo saggio Citare, tradire. Leopardi e la poesia del secondo Novecento tratteggia un affresco sulla lirica del secondo Novecento, partendo da Vittorio Sereni per arrivare ad Andrea Zanzotto.

Caso a sé, forse, è invece quello di Eugenio Montale, poiché la sua lunga parabola artistica congiunge i due poli di cui abbiamo appena parlato. Se nella prima fase della sua produzione Leopardi riaffiora attraverso «grumi di memoria» spesso occultati, nell’ultima parte la presenza del Recanatese si fa più esplicita, una speciale figura con cui misurare lo scadimento del ruolo della poesia e del poeta nella società dei consumi: di questo percorso dà conto Giuseppe Sangirardi nel saggio Variazioni su Leopardi e Montale.

Qual è il lascito filosofico leopardiano per il pensiero contemporaneo?
Il lascito leopardiano per la filosofia contemporanea è senza dubbio notevole: tutti gli autori dei saggi raccolti nel volume concordano nell’affermarne l’importanza capitale e la portata rivoluzionaria. Luigi Capitano (Leopardi filosofo «postumo». La svolta nichilistica) dimostra come il Recanatese avesse già anticipato le principali tendenze filosofiche novecentesche: dal nietzscheanesimo, all’assurdismo, all’esistenzialismo. Si sofferma in particolare sul concetto di “nichilismo”, riconosciuto da autorevoli interpreti, già a partire dalla metà del secolo scorso, come la cifra del pensiero leopardiano, che nel Novecento raggiunge massima compiutezza. Raoul Bruni nel suo Orbite clandestine: Leopardi nella cultura filosofica antiidealistica si concentra su quattro autori – Rensi, Giusso, Amelotti e Tilgher – che, ben prima della svolta del ’47, pionieristicamente attribuiscono valore al pensiero leopardiano, non nonostante, ma proprio in virtù della sua asistematicità, del suo frammentismo o della sua discontinuità. Antonio Panico, nel suo saggio La linea Leopardi-Michelstaedter, dimostra come Leopardi sia stato per l’intellettuale goriziano un interlocutore ideale sia sul piano filosofico che su quello umano ed indaga in particolare il nesso vita-illusione e il suo rapporto con il tema del suicidio. Anna Di Somma, invece, tratta la lettura che dell’opera leopardiana ha dato Ernesto Grassi («Wahn ist das Ordnungsstiftende». Il “teoreta dell’illusione”: Ernesto Grassi interprete di Leopardi). Filosofo esistenzialista allievo di Husserl e di Heidegger, Grassi si concentra soprattutto sulle tematiche legate alla noia, all’illusione e al linguaggio. Il linguaggio è anche al centro del saggio di Felice Cimatti (La vita estrinseca. Leopardi e l’Italian Thought): da esso dipende infatti la distinzione tra vita umana e vita animale, tra vita interiore e «vita estrinseca» con le parole di Leopardi, tra zoè e bìos con quelle di Agamben. Secondo Cimatti – opponendosi a tale dualismo, in cui a lungo è rimasta intrappolata la tradizione filosofica occidentale – Leopardi si inserirebbe a pieno titolo nell’Italian Thought, cioè in quella tradizione italiana che è oggi estremamente «attuale» proprio perché è rimasta a lungo inattuale. Un ultimo contributo di taglio filosofico è quello offerto dal Laboratorio Leopardi, gruppo di lavoro dell’Università di Roma La Sapienza, intitolato Il pensiero della complessità tra Leopardi e il Novecento. Partendo dal confronto con le cosiddette “scienze dure”, il gruppo ha condotto, soprattutto sul testo dello Zibaldone, una ricerca per specifici lemmi – ‘sistema’, ‘contraddizione’, ‘errore’ e ‘possibilità’ – che ha permesso di identificare nel «sistematico relativismo» di Leopardi (ovvero nella constatazione che la contraddizione, l’errore e la possibilità sono elementi costitutivi della natura) il presagio delle scoperte scientifiche primonovecentesche – da Einstein a Heisenberg, da Gödel a Schrödinger – e del pensiero della complessità. Sulla base di tale ipotesi e a riprova della stessa, l’opera di Leopardi è stata quindi fruttuosamente confrontata con quella di Valery, Musil e Gadda, autori notoriamente influenzati da tali rivoluzioni scientifiche che hanno sensibilmente ridefinito il nostro rapporto con la realtà.

Quali sono i temi più dibattuti della critica leopardiana contemporanea?
I temi oggetto di indagine da parte della critica leopardiana contemporanea sono molti e molto variegati, in questo senso le relazioni tenute durante il convegno non possono che offrirne uno spaccato che, per quanto ricco e autorevole, è pur sempre parziale. Proprio questo, d’altra parte, era uno degli obiettivi del progetto originario concepito dal Comitato Scientifico del CNSL (Centro Nazionale di Studi Leopardiani), direttivo che, di edizione in edizione, imposta, organizza e dirige il convegno, seguendo anche l’iter di pubblicazione degli atti: cioè quello di far convergere in un unico simposio voci critiche anche molto distanti, punti di vista differenti, per provenienza, formazione ed esperienza – giovani ricercatori, specialisti di alcuni settori, gruppi di ricerca e autorevoli rappresentanti della leopardistica italiana e internazionale – riuniti in un fruttuoso dialogo in grado di mappare, aggiornare e rinnovare il dibattito sul grande intellettuale di Recanati e sul suo rapporto con il Novecento. Tutti i saggi contenuti nel volume si caratterizzano per l’originalità delle ipotesi presentate, alcune ancora germinative su figure poco conosciute, il cui confronto con il Recanatese è tutto da sviluppare, altre su aspetti già al centro dell’attenzione della critica, come appunto le posizioni filosofiche di Leopardi, osservate negli ultimi anni con lenti nuove e da prospettive inedite.

Quali trasposizioni cinematografiche hanno ispirato la vita e l’opera di Leopardi?
Sono diversi i film che si potrebbero citare. Tralasciando le trasposizioni sullo schermo di singole Operette morali (nominiamo solo, a titolo di esempio, il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere di Ermanno Olmi) e le citazioni dell’opera leopardiana in varie pellicole più o meno note al grande pubblico (La voce della luna di Federico Fellini e Visioni di case che crollano di Gianni Celati sono richiamate negli Atti del convegno rispettivamente da Sandrini e da Cortellessa), vien subito da pensare all’acclamato film biografico di Mario Martone del 2014: Il giovane favoloso, che prende il titolo da un appellativo attribuito al Recanatese da Anna Maria Ortese, ricordato nel saggio di Di Poce. Quella di Martone, però, non è l’unica opera cinematografica ispirata alla vita del Poeta: c’è un importante precedente al quale il regista napoletano si rifà esplicitamente in alcuni passaggi del suo lungometraggio ed è Idillio di Nelo Risi, del 1980. Dedicato alla stagione degli idilli ed in particolare all’anno della composizione de L’infinito, il film, analizzato nel dettaglio da Antonella Brancaccio (I versi, le immagini. Il Leopardi di Nelo Risi), è «la personale indagine di un artista del ventesimo secolo che, con coraggio e rigore, riesce a proiettare il suo sguardo nella coscienza di un grande predecessore, a sua volta proiettato oltre la sua epoca».

Quale immagine del Poeta recanatese restituisce il Convegno?
Come in parte abbiamo già detto, l’immagine di Leopardi che emerge dalle relazioni presentate al convegno è un’immagine plurale, che risente della lettura che ne hanno dato i suoi epigoni novecenteschi, nonché delle correnti di pensiero e delle ideologie che hanno attraversato il secolo breve. Ma se inafferrabile e mai definitiva è l’interpretazione della sua opera, indubbia e monolitica è la sua “presenza” nella cultura contemporanea, la sua statura di classico ineludibile a livello mondiale. La fortuna dell’opera leopardiana, infatti, non conosce flessioni ed è anzi oggi al centro di un grande interesse e di numerose iniziative in Italia ed all’estero, come illustra ampiamente la Prefazione al volume firmata da Fabio Corvatta, Presidente del CNSL. Come ricorda Corvatta, sono tuttora in corso i festeggiamenti triennali per il bicentenario dalla composizione de L’infinito, prima ricorrenza di un componimento poetico per cui sia stato mai istituito un Comitato Nazionale. Inoltre, negli ultimi anni, le opere leopardiane sono state tradotte in moltissime lingue occidentali e orientali. Le carte autografe del grande Recanatese, infine, sono oggetto di un vasto progetto di digitalizzazione, sotto la direzione della Biblioteca Nazionale di Napoli e della Cattedra leopardiana dell’Università di Macerata, che ne renderà possibile la fruizione anche a distanza, conservandone intatte le caratteristiche nel tempo. Leopardi, dunque, grande protagonista del suo secolo e di quello successivo, si avvia ad esserlo anche del nuovo millennio, raggiungendo ogni angolo del pianeta con la modernità della sua opera e del suo pensiero.

Maria Valeria Dominioni è dottoranda e cultrice di Istituzioni di Letteratura italiana all’Università di Macerata, dove si è laureata in Filologia moderna e si è diplomata presso la Scuola di Studi Superiori Giacomo Leopardi. Autrice di diversi saggi su autori dell’Ottocento e del Novecento, dal 2017 collabora con la Cattedra leopardiana dell’ateneo maceratese.
Luca Chiurchiù è dottore di ricerca in Studi linguistici, filologici e letterari presso l’Università degli Studi di Macerata. È autore della monografia 
La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista «A/traverso» (2017) e di alcuni studi su Lalla Romano, Silvio D’Arzo, Federigo Tozzi e altri autori del Novecento italiano.

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