
Qual era la condizione della famiglia Ul’janov?
Era una tipica famiglia dell’intelligencija tardo-ottocentesca: quest’ultima, peraltro, corrisponde solo in parte alla definizione di “ceto intellettuale” (si può benissimo essere un uomo di cultura accademica senza essere un intelligent e viceversa). Per l’intelligencija, il criterio fondamentale è l’analisi positivista, e a orientarne l’azione è un sincero impegno democratico, seppur molto variamente declinato. Di origini molto modeste, Il’ja Ul’janov era tutt’altro che un radicale: era estraneo a qualsiasi velleità rivoluzionaria e identificava il progresso sociale e il “servizio” al popolo con l’attività pedagogica nei confronti dei ceti più umili. Ad essa aveva dedicato la vita, finendo per diventare ispettore delle scuole popolari del governatorato di Simbirsk, sulla media Volga. Ma nel 1881 i terroristi di “Narodnaja volja” (Volontà popolare) uccidono lo zar Alessandro II, e il figlio Alessandro III sale al trono in un clima di decisa stretta reazionaria: le scuole popolari vengono prese di mira come focolaio “sovversivo”, Il’ja Ul’janov viene ostracizzato col prepensionamento e lui ne muore di crepacuore. Un buon esempio del suo idealismo è rappresentato dalla scelta di non chiedere di essere ammesso nel ceto nobiliare, a cui pure aveva diritto per grado burocratico: sarà la moglie Marija Aleksandrovna (nata Blank, di padre ebreo convertito) a ottenere la nobiltà per sé e per i figli dopo la morte del capofamiglia. A proposito della madre, era una donna modesta ma coraggiosa, capace di affrontare la morte prematura di due figli (oltre all’esecuzione di Aleksandr, la figlia minore Ol’ga morirà di Tifo nel 1891) e di fornire una sorta di supporto carcerario permanente agli altri (tutti divenuti sovversivi), facendo la spola fra i vari luoghi di detenzione o di confino.
Quale impatto ebbe su di lui la fine tragica del fratello Aleksandr?
L’esecuzione di Aleksandr, implicato in un fallito attentato ad Alessandro III, ha prodotto una ricca mitologia ideologica di segno opposto: per i “leninofagi”, l’intero percorso politico successivo di Lenin sarebbe stato dettato da mera sete di vendetta («Per vendicare il fratello ha distrutto un intero Paese!»); i “leninomani”, invece, fanno risalire a quell’evento il primo dei classici meme leniniani: «Noi andremo per un’altra strada», ossia certificano che un ragazzino non ancora sedicenne potesse dedurre da quella tragedia personale la necessità di un movimento politico radicato nelle masse rispetto all’azione eroica di singoli terroristi. Ma Volodja è un ragazzino normale, e le vere parole da lui pronunciate esprimono sgomento, consapevolezza di trovarsi di fronte a qualcosa di ancora incomprensibile: «Si vede che Saša non poteva agire diversamente… Si vede che Saša doveva agire così…»
Con ciò non voglio negare l’importanza cruciale di quell’evento. Il suo rapporto contraddittorio con la tradizione del populismo russo prende le mosse dall’esempio del fratello: Lenin rifiuta le analisi socioeconomiche dei populisti (in particolare l’idea che la Russia potesse passare al socialismo grazie a una rivoluzione contadina, senza “passare” per la fase dello sviluppo capitalistico), ma incorpora nella propria strategia rivoluzionaria alcuni loro metodi di lotta (ad esempio, il culto della militanza totalizzante e il ruolo chiave della dittatura rivoluzionaria come elemento essenziale per forzare il naturale progresso storico). Va inoltre sottolineato come Lenin sia stato l’unico dirigente marxista, sia nel 1905 che nel 1917, a comprendere l’importanza del movimento contadino, considerato ininfluente dagli altri.
Come matura l’impegno politico del giovane Vladimir Il’ič?
In parte ho già risposto: la morte del padre e l’esecuzione del fratello gli mostrano che l’intero ciclo politico dell’intelligencija populista (tanto nella variante moderata, pedagogica, che in quella radicale, terrorista) è terminato. Inoltre, dopo la morte di Aleksandr i pacifici abitanti di Simbirsk voltano le spalle alla famiglia degli Ul’janov, fino ad allora benvoluta da tutti: di qui nasce il profondo disprezzo nutrito da Vladimir Il’ič per la “società civile” liberale. Ancora nel 1919, quando nel pieno della guerra civile Maksim Gor’kij gli chiederà di rilasciare gli intellettuali liberali incarcerati per rappresaglia, Lenin avrà parole feroci per la “società civile” borghese e per le sue “forze intellettuali” che «si spacciano per il cervello della nazione», ma che «di fatto non sono il cervello, ma la merda!».
Ricordiamo anche la lettura chiave da cui prende le mosse il suo impegno: il romanzo Che fare? di Nikolaj Černyševskij, “testo sacro” della generazione populista, che Lenin riattualizza in modo originale. Seguono l’espulsione dall’università, i primi cenacoli marxisti di provincia e, finalmente, l’arrivo a Pietroburgo, dove Vladimir Il’ič manifesta una curiosa capacità proteiforme: presso il tribunale egli è un praticante avvocato in frac e cilindro, figlio di un rispettato funzionario; nelle camere in affitto degli squattrinati studenti marxisti, dove subito diventa una sorta di primus inter pares, è “il fratello di Aleksandr Ul’janov il martire”; indossati il berretto e un abito frusto, sotto falso nome si reca nel sobborgo operaio oltre il Bastione della Neva (Nevskaja Zastava): la più grande zona industriale della Russia del tempo. Ed è certo l’incontro con gli operai il punto centrale del suo apprendistato politico.
Come trascorrono gli anni della prigione e del confino?
In realtà trascorrono all’insegna di un mood abbastanza positivo. Seppur privato della libertà, Il’ič sente che le cose stanno andando per il verso giusto: i circoli marxisti si stanno saldando in un embrione di partito, il marxismo è diventato addirittura una moda (sulla durevolezza della quale, peraltro, Il’ič non si fa illusioni), da poco ha conosciuto Julij Martov e Nikolaj Potresov, compagni e amici al suo livello (“fratelli-coltelli”, in realtà, dato che diventeranno rispettivamente il leader dell’ala sinistra e dell’ala destra del menscevismo), è stato in Europa occidentale, dove ha stretto contatti promettenti con la cerchia di Georgij Plechanov e, in prospettiva, coi “piani alti” della Seconda Internazionale… E soprattutto è giovane e innamorato! Settant’anni di agiografia bacchettona non hanno potuto cancellare del tutto le testimonianze sul primo periodo del rapporto fra Vladimir Il’ič e Nadežda Krupskaja: un grande amore intrapreso con entusiasmo e romanticismo.
E poi il periodo dell’esilio siberiano, con un Lenin in versione “western”, che va a caccia a cavallo col revolver nella fondina. Sono anni di maturazione intellettuale, che portano all’epos de Lo sviluppo del capitalismo in Russia (1899), grande affresco della metamorfosi di una nazione, in cui i destini di classi, ceti, comunità, singoli vengono sconvolti e riplasmati dalle forze titaniche del capitalismo, che sono inumane nella loro ineluttabilità quanto fin troppo umane nelle pulsioni e negli appetiti da cui vengono evocate. Non da ultimo, è probabilmente nel cuore della Siberia che Lenin matura l’ancora confusa consapevolezza di quanto il sistema-mondo sia complesso, multiforme, irriducibile alla logica lineare del progresso occidentale: un “multiverso” le cui dinamiche di sviluppo sono diverse e complementari. Se ne ricorderà durante la Prima guerra mondiale, per gettare le basi di quella teoria rivoluzionaria “plurifase” che porterà poi all’esplosione delle lotte anticoloniali: uno dei lasciti più fertili del leninismo.
In quali circostanze Vladimir Il’ič acquista il nome di battaglia di Nikolaj Lenin?
Sull’argomento ne sono state dette di tutti i colori: lo pseudonimo è stato fatto derivare dal fiume Lena, dal sobborgo berlinese di Lehnin, da Lènočka, figlia di un compagno di lotta; i “leninofagi” hanno tirato in ballo ipotetiche amanti con quel nome… In realtà è tutto abbastanza semplice: quando nel 1900 Vladimir Il’ič emigra illegalmente, per il tramite della Krupskaja riceve aiuto nientemeno che da un importante funzionario del ministero dell’Agricoltura, l’agronomo Sergej Nikolaevič Lenin, a cui Ul’janov era noto per i suoi studi economici (a sua volta, Il’ič cita i lavori di Sergej Lenin). Pur non avendo certo simpatie rivoluzionarie, l’agronomo “gira” a Ul’janov il passaporto del padre Nikolaj, vecchio e molto malato, e con quel documento il nostro eroe espatria.
Va aggiunto che gli pseudonimi cospirativi degli iskristi danno origine a un curioso folklore: ad esempio ‘Embrione’, ‘Zoccolo’, ‘Cuoco’, ‘Giacchetta’, ‘Tal dei tali’, ‘Vagabondo’, ‘Musicista’, ‘Talmudista’, ‘Bellone’, di cui una compagna – dopo un incontro cospirativo – scrive alla redazione dell’«Iskra» non senza civetteria: «A me personalmente non è sembrato questo gran Bellone». E ancora: ‘Satana’, il ‘Chimico’, il ‘Rosso’ e il ‘Santo’, ‘Mimosa’ e ‘Orsetto’ (entrambi riferiti alla sorella di Lenin Marija Ul’janova), il ‘Karl Marx degli Urali’ (per la fluente criniera), ‘Socrate’ (un anziano operaio, per il cranio liscio come una boccia). Ci si potrebbe fare un album di figurine.
Quali vicende segnano gli anni dell’Iskra?
Sul piano politico, il giornale contribuisce a unificare la galassia di circoli socialisti attorno a un programma marxista e rivoluzionario. Ciò avviene non senza resistenze, dato che all’inizio una parte dei circoli seguiva un programma detto “economicista”, ossia volto esclusivamente al miglioramento delle condizioni economiche degli operai, senza obiettivi di carattere politico; ma con la conquista della maggioranza nel comitato di Pietroburgo, verso la metà del 1902, la bilancia inizia a pendere decisamente a favore degli iskristi, e gli “economicisti” vengono marginalizzati.
Un altro fenomeno importantissimo è la nascita di una nuova figura di militante, per metà rappresentante dell’intelligencijae per metà operaio, in grado di superare i limiti di entrambi i ‘cromosomi’: da una parte non è individualista e velleitario come il vecchio rivoluzionario populista di estrazione colta, e dall’altra ha una capacità di ragionare in termini politici generali che la massa del proletariato ancora non possiede.
In quale contesto nasce il Che fare? e cosa afferma il libello?
Il Che fare? nasce proprio per motivare i militanti di tipo nuovo e fornire loro un vademecum organizzativo. È un testo non privo di ambiguità, specie per quanto riguarda la “catena di comando” politica: da una parte, esso pare prescrivere un rigido verticismo, dove un nucleo di “illuminati” portano “dall’esterno” al proletariato una consapevolezza politica che quelli non avrebbero potuto in nessun modo maturare da soli; in altri passaggi, risulta chiaro come questo esterno sia anche – e soprattutto – un orizzonte esterno agli immediati rapporti di lavoro che l’operaio stesso si conquista attraverso una serie di dure lotte inizialmente solo economiche, che poi si allargano a una visione complessiva di una trasformazione politica della società. E qui troviamo due degli elementi fondanti del leninismo: la lotta come esperienza diretta, immediata determina la crescita politica, organizzativa, addirittura morale dei soggetti coinvolti assai più delle acquisizioni teoriche; la lotta pratica non è mai fine a se stessa, ma è fonte primaria di teoria, così come non si dà teoria che non si traduca direttamente in pratica; teoria e pratica trovano la propria sintesi nell’organizzazione.
Quale importanza riveste il secondo Congresso del POSDR?
Il congresso, tenutosi nel luglio-agosto del 1903 fra Bruxelles e Londra, avrebbe dovuto rappresentare il coronamento dell’opera unificatrice e omologatrice dell'”Iskra”, i cui rappresentanti godevano di una solida maggioranza fra i delegati. Esso divenne invece l’innesco per la deflagrazione delle divergenze che da tempo stavano maturando nella redazione del giornale. Lo stesso Lenin (che si era assicurato più di un ruolo chiave nell’organigramma) condusse i lavori in modo spesso controproducente: troppa fretta di unificare posizioni che rimanevano diverse, troppa fiducia in delibere prese a colpi di risicata maggioranza, in un clima di sbrigativa intolleranza che non poteva non coagulare contro di lui tutti gli elementi refrattari. E poi, perché andare al congresso senza essersi prima accordati fra iskristi? Va detto che tanto Lenin quanto i suoi avversari erano virtuosi nell’arte della cospirazione, ma non avevano alcuna esperienza nell’organizzazione e nella gestione di normali e trasparenti meccanismi di sintesi politica.
Come si consuma la frattura tra bolscevichi e menscevichi?
Com’è noto, la prima rottura si consuma sulla definizione del concetto di militanza: i futuri menscevichi sono per una militanza “diffusa” e interclassista, i futuri bolscevichi sono fedeli all’idea leniniana del “rivoluzionario di professione”. Il fatto è che al congresso i menscevichi impongono la propria definizione nel programma del partito grazie al voto degli ex “economicisti”, di per sé irrilevanti; Lenin interpreta la cosa come una dichiarazione di guerra e reagisce di conseguenza, ottenendo – grazie all’appoggio di Plechanov – il pieno controllo sull'”Iskra” e sul Comitato centrale. Ma la frattura continua ad allargarsi dopo il congresso, e presto Plechanov molla Lenin, ricucendo un’alleanza coi menscevichi. Per Lenin inizia un periodo di emarginazione che lo porta a un passo dalla morte politica: saranno l’appoggio del gruppo di Aleksandr Bogdanov (entrato dopo il congresso ed estraneo alle dinamiche iskriste) e il varo del nuovo giornale “Vperёd” a consentire a Lenin una ripresa che si consoliderà di lì a poco nel corso della rivoluzione del 1905. Quanto alla spaccatura coi menscevichi, dalle questioni terminologiche apparentemente un po’ astratte essa porta in breve a scelte strategiche molto diverse: i menscevichi ritengono che si debba collaborare col movimento liberale in nome di fondamentali conquiste democratiche, mentre Lenin spinge per un’alleanza fra proletariato e movimento contadino, in vista di una dittatura rivoluzionaria. È però importante notare che, nel contesto della rivoluzione in fase di ascesa, Lenin accantona senza pensarci due volte il centralismo gerarchico del Che fare? e promuove un partito di massa il più inclusivo possibile. E qui troviamo un’altra chiave per capire il leninismo, in cui una pervasiva ermeneutica della continuità si concilia con un’assai fluida pragmatica dell’adattamento.
Guido Carpi (1968) è professore ordinario di Letteratura russa presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. È autore, fra l’altro, di una Storia della letteratura russa in due volumi (Roma, 2010 e 2016), della monografia Russia 1917: Un anno rivoluzionario (Roma 2017), di una Storia del marxismo russo (Mosca 2016, in lingua russa) e della sezione sul marxismo russo nella Storia del marxismo: vol. 1. Socialdemocrazia, revisionismo, rivoluzione (1948-1945), a cura di S. Petrucciani (Roma 2015). Insieme a Pilade Cantini e Virginia Pili ha pubblicato una biografia di Iosif Stalin: Il minotauro e la cipolla (Firenze 2019). Gestisce un canale YouTube dedicato alla storia e alla cultura russa.