“Leggo dunque sono. Almeno credo” di Paolo Di Paolo, Piero Dorfles e Lella Mazzoli

Leggo dunque sono. Almeno credo, Paolo Di Paolo, Piero Dorfles, Lella MazzoliSi intitola Leggo dunque sono. Almeno credo il volume collettaneo che raccoglie le riflessioni sulla lettura nel nostro Paese di Paolo Di Paolo, Piero Dorfles e Lella Mazzoli, pubblicato da Aras Edizioni. Una riflessione che origina dalla domanda: «Qual è lo stato di salute del libro oggi?». Partendo dalla considerazione che, contrariamente a legittime aspettative, «l’Italia del lockdown abbia letto ancora meno libri di prima, lasciando sempre più spazio alle call, ai social network o alla lettura online delle notizie», come ci ammonisce il Rapporto dell’Indagine Cepell-AIE (2020), La lettura nei mesi dell’emergenza sanitaria.

Paolo Di Paolo ricorda il monito del grande Tullio De Mauro secondo il quale «leggere è tutt’altro che facile» e richiede abitudine. Non leggere, viceversa, ci espone al «rischio di diventare cittadini subalterni, succubi, plagiati, schiacciati»: insomma, «cittadini senza strumenti per difendersi». Non bisogna, tuttavia, ammonisce lo scrittore romano, «farsi ingannare da chi esalta, in modo troppo generico, il piacere della lettura. Il piacere della lettura, in senso astratto, forse non esiste. Esistono semmai il piacere, il divertimento, la commozione, il dolore, la noia, il fastidio, l’indignazione, la sorpresa, suscitati di volta in volta dai singoli libri.» E allora Egli invoca «un rapporto con i libri meno solenne, più disinvolto», senza condizionamenti né sudditanze psicologiche, perché «una lettura ben fatta […] può essere anche parziale, incompleta, perfino confusa».

La riflessione di Paolo Di Paolo è lucida e disincantata: «Certo, chi non legge si perde qualcosa. Ma anche chi non fa surf, chi non sa preparare un dolce o non sa cucire. Chi non si è mai lanciato con un paracadute o non è mai stato, che so, in Alaska. Tutti ci perdiamo qualcosa. Qualcuno storcerà il naso: sono cose che si possono mettere sullo stesso piano? Forse no. Ma non sto parlando dei libri come strumenti per acquisire conoscenza, insomma cultura (i volumi di anatomia e quelli di geografia astronomica, di trigonometria o di diritto penale). Sto parlando dei libri che raccontano storie, che ci parlano della vita mentre la attraversiamo. Quei libri non sono comunque indispensabili.»

Il magistrale saggio di Piero Dorfles sulle abitudini di lettura contemporanee si interroga poi sulla «pervasiva diffusione del romanzo neostorico», quel «filone […] che entra nelle classifiche dei best seller, domina il mercato mondiale» facendone risalire l’origine all’uscita, nel 1980, de Il nome della rosa, di Umberto Eco, «un libro che rappresenta un unicum, per molti versi. Innanzitutto per lo straordinario successo mondiale: 50 milioni di copie vendute in tutte le lingue sono un fenomeno raro. […] Eco ha colpito un bersaglio insieme molto sfaccettato e perfettamente allineato a una richiesta sopita, che il mercato non conosceva ancora, ma che il tempo ha dimostrato essere ampia e variegata. Qualcosa che né l’autore né l’editore avevano benché minimamente immaginato. Che un lungo e complesso romanzo pieno di citazioni dotte, […] potesse avere un successo popolare era effettivamente inimmaginabile. Ma è successo. E dopo Il nome, è successo per una serie ormai sterminata di romanzi storici, o forse dovremmo dire neostorici, in ogni lingua, che parlano di intrighi alla corte dei faraoni, della Roma antica, di un profluvio di abbazie, di ordini cavallereschi, di sacri graal, di vite di artisti maledetti, di idolatri, di stregoni e di eretici. È dal successo di Eco che derivano […] Wilbur Smith (26 milioni di libri venduti solo in Italia), con una serie di romanzi di ambientazione egizia, […] e ancora Marcello Simoni, con il ciclo dell’Abbazia dei 100 peccati e dintorni, dove ambientazione medievale, set abbaziale e trama gialla sono evidenti figli – magari illegittimi – de Il nome della rosa

Si interroga allora Dorfles: «quanti, tra i milioni di lettori che l’hanno comprato, hanno seguito con competenza le parti non propriamente gialle del libro? E quanti hanno colto le raffinate allusioni alle moderne contestazioni che il riferimento al movimento dolciniano implicava? […] Potrà sembrare banale, ma può essere stato solo uno status symbol […] Il simbolo di una competenza, del far parte di un’élite che coltiva letture raffinate e nozioni esclusive, dell’ambizione a essere informati e partecipare al simposio dei sapienti.»

La mente va alla «lunga stagione in cui, nella maggior parte delle case, in bella mostra, spesso riposta dietro una vetrinetta, in compagnia di pizzi e liquori stantii, c’era  solo un’enciclopedia. Spesso intonsi, ancora avvolti nella sopracoperta di cellophan, i volumi si presentavano agli occhi di eventuali visitatori con i loro dorsi di tela ben rilegata, e con i titoli impressi in oro. Se oggi questa immagine può farci sorridere, bisogna anche immaginare che quell’acquisto, molto spesso, aveva rappresentato uno sforzo economico non indifferente per una famiglia povera di mezzi, e che non si trattava soltanto di qualcosa che faceva fare buona figura alla casa, uno status symbol, ma rappresentava anche una sorta di porta per la cultura, […], qualcosa che dimostrava la disponibilità al sapere.»

Lella Mazzoli ci rammenta che «l’assenza di libri è una triste consuetudine, ed entrare in una casa […] e non vedere alcun libro, alle pareti, sopra un tavolo o appoggiato su qualche mobile è una dichiarazione di ignoranza.» Le nuove abitudini di lettura, legate alla Rete, sono oggetto di ampio dibattito, con posizioni opposte in merito; «resta però vero che a differenza del passato, in cui possedere una biblioteca fornita significava appartenere a una famiglia istruita e agiata, oggi raggiungere l’informazione è più facile e più democratico.»

E dunque la domanda: «Ma davvero il libro ha un potere magico, davvero è qualcosa di supremo, di divino, oggetto di adorazione? In tanti sostengono che lo sia o meglio in tanti lo vivono come tale. Lo tengono lì in bella mostra, appoggiato con ostentata indifferenza, nonchalance. In specie se trattasi di libro d’arte, di romanzo o saggio di illustre romanziere o studioso. […] È così che l’oggetto dell’esibizione diventa feticcio, adorato ma non necessariamente sfogliato dai suoi possessori. Anzi talvolta sfogliarlo è quasi un delitto. Come posso toccare con le mie mani impure qualcosa di così magico? La storia ci racconta molto del rapporto fra potere e scrittura e degli oggetti che la scrittura la contengono. Perché in tale accezione il libro diventa per l’appunto, oggetto. Oggetto dell’adorazione.»

«I libri però sarebbe meglio leggerli e non idolatrarli. Meglio sottolinearli, prendere appunti e scrivere nei margini», è l’invito della Mazzoli che evidenzia il fenomeno, in epoca di Covid-19, delle dirette televisive via Skype, FaceTime, videochiamate Whatsapp, in cui «ogni intervistato, specie se un politico o un influencer, o un opinionista posiziona la bella telecamera del suo device sul suo mezzo busto e ha dietro le spalle come un cromaqui la sua libreria con un libro o due in buona esposizione. Come se dicesse: si sappia che leggo, si sappia cosa leggo!». Una scelta che sottolinea come – ancora oggi – «il libro è uno status symbol e il possederne significa appartenere a una élite.»

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