
Che accoglienza ebbe l’opera?
Dai manoscritti e dai documenti che possediamo, pare che in un primo tempo il Decameron abbia circolato a Firenze e a Napoli, tra gli amici del Boccaccio e tra i funzionari fiorentini attivi intorno alla corte angioina e al gran siniscalco Niccolò Acciaiuoli. Non si può escludere che lo stesso autore, persa la fiducia nella capacità dei lettori di tener distinta vita e letteratura (come i dieci narratori esortano spesso a fare), temesse un uso ‘improprio’ delle sue novelle erotiche e cercasse in un primo tempo di controllare la diffusione dell’opera, anche perché intorno al 1360 aveva preso gli ordini minori ed era ormai un uomo maturo, impegnato nella vita politica fiorentina e dedito a un diverso tipo di letteratura. Ben presto, comunque, l’opera ebbe una larga fortuna, soprattutto presso lettori e copisti dei ceti mercantili e professionali. Anche il Petrarca lo apprezzò , sia pure tra molte riserve, lodandone le parti più “serie” e impegnate, come le introduzioni alla prima e alla quarta giornata, e soprattutto la novella conclusiva, quella di Griselda, di cui compose un fortunato rifacimento latino.
Quali sono le strutture portanti dell’opera?
La peculiarità del Decameron è quella di inserire le novelle in una struttura estremamente rigorosa e articolata: le 100 novelle sono divise in 10 giornate in base a un criterio tematico; ogni giornata prevede un’introduzione e una conclusione, nelle quali agisce una brigata di dieci giovani, che, fuggita dalla Firenze appestata nell’estate del 1348, si rifugia in campagna per due settimane, e per cinque giorni alla settimana racconta 10 novelle al giorno. Il tutto è poi incastonato fra un Proemio e una Conclusione dell’autore. La ‘cornice’ è un meccanismo che Boccaccio eredita dalla tradizione novellistica precedente, soprattutto orientale: ma di questo artificio egli si serve per nobilitare il genere-novella sia dal punto di vista letterario (costruendo un ‘libro’ che guarda alla compattezza strutturale della Commedia dantesca e del Canzoniere, cui negli stessi anni il Petrarca stava lavorando) che culturale (servendosi delle novelle per imbastire una sorta di ‘trattato’ morale). È infatti la cornice che fornisce al lettore le chiavi di lettura delle novelle, conferendo loro, e al libro nel suo complesso, un preciso significato; e che obbliga a considerare l’opera come un tutto unico, evitando di isolare poche e singole novelle (sempre le stesse, in genere…) per fondare su di esse l’interpretazione dell’intero Decameron.
Nel Suo testo Ella tratta della “leggera profondità del Decameron”: cosa intende?
Il Decameron è un libro di novelle, e la novella, all’epoca del Boccaccio, era un genere minore, finalizzato principalmente all’intrattenimento, e senza pretese di alta cultura, benché comunque dotato, quasi sempre, di un valore ‘esemplare’. Boccaccio, pur conservando a gran parte delle sue novelle il tono ‘leggero’ previsto dal genere, affronta o sfiora – grazie anche alla cornice e ai preamboli che precedono molte delle novelle – tematiche di notevole serietà e complessità, religiose (nelle prime tre novelle della prima giornata) e soprattutto morali: l’amore, la fortuna, l’ira, le passioni, i vizi, le virtù, il male, il bene. Il lettore può anche limitarsi al piano del ‘diletto’, ma nel Proemio l’autore afferma che accanto ad esso il libro si prefigge anche l’ ‘utile’, ossia una finalità di insegnamento, condotta non in modo cattedratico e didascalico, ma ludico, attraverso la canonica modalità dell’exemplum e attraverso le considerazioni morali affidate ai dieci narratori nella cornice e nei preamboli delle novelle più importanti.
In che senso il Decameron può dirsi un libro morale?
L’àmbito di interesse del Decameron è, programmaticamente, la vita quotidiana dell’uomo sulla terra, di cui il libro intende descrivere tutte le sfaccettature, senza nulla occultare e trascurare: vita e morte, bellezza e orrore, virtù e vizio, purezza e corruzione, le vette della magnanimità come gli abissi della crudeltà e dell’abiezione. Ma Boccaccio non si limita a registrare con impassibilità le azioni e i caratteri degli uomini, senza giudicare e senza gerarchizzare; il suo libro è sì, come è stato detto, un “atlante della condizione umana”, ma ciò non va inteso nel senso che Boccaccio voglia semplicemente squadernare, senza dare alcun giudizio morale o senza fornire al lettore gli strumenti per darlo, tutte le possibili situazioni dell’esistenza. Certo, Boccaccio non giudica ex cathedra, ma il confronto tra le novelle, la struttura dell’opera, il proemio, la cornice, le premesse e i commenti dei narratori, il lessico impiegato, fanno emergere il punto di vista dell’autore e guidano il lettore verso il corretto approccio all’opera, permettendogli di ricavare da essa quell’utile insegnamento che insieme al «diletto» è la finalità per la quale è stata composta. In estrema sintesi, la prospettiva del Decameron è quella del ‘giusto mezzo’ e della ‘misura’ razionale, contro la mortificazione ascetica della natura ma anche contro ogni eccesso passionale, che porta solo (come emerge in primis dalle novelle di amore infelice della IV giornata) dolore, distruzione e morte. Una lezione di equilibrio e di saggezza, questa, cui i dieci narratori uniformano le loro vite durante i quindici giorni di permanenza in campagna, e con la quale tornano poi nella città ancora devastata dalla peste, per ricostruire i fondamenti della vita civile distrutti dall’epidemia, e per affrontare il male e la morte senza angoscia e disperazione. Nell’introduzione alla IX giornata, Boccaccio non per nulla esclama che se qualcuno li avesse visti in quel momento – verso la fine, cioè, della loro esperienza di vita in comune, e ormai prossimi al rientro in Firenze – avrebbe detto che «o costor non saranno dalla morte vinti, o ella gli ucciderà lieti».
La parodia riveste un ruolo centrale nell’opera?
La parodia è uno dei meccanismi principali della comicità, e nel Decameron gioca un ruolo centrale, grazie alla capacità del Boccaccio di manipolare i molteplici materiali fornitigli dalle sue fonti. Il gioco parodico coinvolge soprattutto, come è ovvio, i codici culturali più noti al lettore tardo-medievale, vale a dire la religione cristiana e la tradizione cortese; e il suo scopo non è soltanto quello di divertire col piacere intellettuale prodotto dal capovolgimento ironico e demistificante, ma anche quello di stimolare a riflettere su aspetti nascosti o insospettati dei testi letterari e della realtà stessa, senza prendere troppo sul serio ciò che si ascolta o ciò a cui si assiste. Così, alcune novelle propongono la parodia di luoghi comuni della letteratura di amor cortese (dalle storie di Tristano e Isotta a certi lais di Maria di Francia), capovolti in chiave comica e degradata; in altre, la parodia si appunta su riti, usanze e credenze religiose, quali la confessione, i sacramenti, la predicazione, ma soprattutto sugli aspetti più superstiziosi della devozione (culto delle reliquie, venerazione per santi fasulli, visioni e soggiorni nell’aldilà, ecc.). Ciò non deve essere letto però come documento di presunte posizioni anti-religiose e anti-cristiane del Boccaccio: la parodia non è infatti di per sé indicativa di precise convinzioni ideologiche, e in questi casi siamo nel solco della semplice satira religiosa, comunissima nel Medioevo, e rivolta non contro la fede, ma contro la corruzione del clero e contro la rozza religiosità popolare.
Ella ricorda nel Suo testo la centralità e unicità del Decameron nell’opera del Boccaccio
Il Decameron, in effetti, si colloca al centro della parabola intellettuale del Boccaccio, non solo cronologicamente, ma anche culturalmente, perché per certi aspetti porta a maturazione le istanze delle opere giovanili, mentre per altri anticipa alcuni caratteri degli scritti della maturità, differenziandosi però, al tempo stesso, dalle une e dagli altri, e distinguendosi quindi per la sua effettiva unicità all’interno della produzione boccacciana. Il Decameron, infatti, si fonda su presupposti del tutto particolari, che aspirano a conciliare gli elementi ludici e le tematiche amorose con un intento educativo e morale, in una visione armonica dell’esistenza e dell’anima umana che non si riscontra, con questa compiutezza, nelle altre opere del Boccaccio, e che in particolare verrà meno negli scritti successivi (fin dal Corbaccio), più fortemente influenzati dal magistero petrarchesco, cui si deve l’approdo del Certaldese a una ben diversa concezione della letteratura e del ruolo dell’intellettuale, in una direzione che potremmo definire da un lato moralistica, dall’altro ormai ‘pre-umanistica’.
Il Decameron è ancora attuale?
In linea generale, un’opera scritta quasi settecento anni fa non può avere alcuna attualità: il mondo che descrive è lontanissimo dal nostro, e anche quando Boccaccio adopera parole ancora in uso, spesso il loro significato è diverso da quello che esse hanno oggi nella nostra lingua. Se andiamo alla ricerca di un’attualità immediata e superficiale, corriamo il rischio del totale fraintendimento, scambiando il Decameron – come è accaduto più volte – per un manifesto del moderno pensiero ‘laico’ e agnostico, o per un inno alla libertà amorosa e sessuale. Potremmo piuttosto dire che, grazie all’arte e alla sapienza del suo autore, l’opera riesce ancora a conseguire i due fini per i quali fu scritta: diletto e utile. Non attualità, dunque, ma utilità: il Decameron, oltre al divertimento che continua a procurarci, può servire anche a noi moderni come lezione di equilibrio interiore e come invito a ricercare una dimensione armoniosa del vivere, nella quale ogni aspetto della persona trovi il giusto spazio e la debita valorizzazione, senza preclusioni, ma anche all’interno di una precisa gerarchia di valori. E la grandiosa allegoria della peste con cui l’opera si apre autorizza a leggere il libro anche come una sorta di liberatorio day after, come un invito a cercare e a ricreare dentro noi stessi (dopo le tante apocalissi del nostro tempo) le fondamenta di un nuovo modo di vivere, nel segno della ragione, della natura e della libertà.