
Senz’altro, a inizio ‘900, quando i paesi industrializzati – Inghilterra, Germania, Stati Uniti – avanzavano in testa al mondo occidentale, l’economia ancora fortemente rurale della Spagna si saldava ad alcuni aspetti della sua storia e cultura, nutrendo uno stereotipo di nazione arretrata e dominata da istinti primordiali: “orientale”, più che “occidentale”.
Questa immagine ha radici profonde ed è al centro della cosiddetta leyenda negra, o leggenda nera, un modo di pensare e raccontare la Spagna che dura dalla fine del Medioevo. Gli italiani sono i primi a diffondere quest’idea di Spagna esotica e oscura, ai confini della Cristianità: una rappresentazione che sarà poi integrata nella letteratura tedesca e olandese, quindi nei testi fiamminghi, calvinisti e, infine, statunitensi, per via della migrazione di queste tradizioni letterarie in America. La persistenza della leyenda negra si deve, in origine, a due fattori in particolare: il primo è la percezione degli spagnoli come nemici, a causa della secolare egemonia dei regni di Spagna, dai tempi di Castiglia e Aragona, sullo scacchiere mediterraneo e poi atlantico, con la scoperta dell’America nel 1492; il secondo è la posizione geografica e culturale della Spagna, al confine tra universo cristiano, ebraico e musulmano – dove questi ultimi, in Europa, hanno a lungo incarnato l’ “altro” per eccellenza, da temere o emarginare. Un evento cruciale per il consolidarsi di questa narrazione è, proprio nell’anno in cui Colombo sbarca in America, la cacciata di musulmani ed ebrei dalla penisola iberica: momento culmine della Reconquista che porta molti ebrei spagnoli a rifugiarsi in Italia. In epoca moderna, quindi, la Spagna è il nemico potente o lo straniero entro i propri confini: è il conquistador, il “bravo” manzoniano, ma anche il “moro”, il “giudeo”, il “marrano”. Questa rappresentazione, come spesso accade in casi simili, ha profondamente influenzato la Spagna stessa, gli spagnoli, che nella loro produzione culturale hanno alimentato la stessa leyenda negra cucita loro addosso da uno sguardo esterno. Così, nonostante il declino politico-militare che la potenza spagnola conosce dal ‘600 in avanti, lo stereotipo culturale legato alla Spagna mantiene la sua vitalità.
Se guardiamo ai testi, un contributo importante al consolidarsi di questa rappresentazione è venuto da un autore dell’Illuminismo francese, Masson de Morvilliers (1740-1789), che firma la voce “Espagne” dell’enciclopedia geografica Géographie moderne, pubblicata nel 1782. Masson de Morvilliers propone un elenco di dati fisici, culturali (due aspetti che spesso confonde), storici e politici secondo lui tipicamente spagnoli. Questa descrizione, che ha l’ambizione di essere oggettiva, è in realtà costellata da giudizi di valore e – soprattutto – disvalore: la Spagna descritta da Masson de Morvilliers è un paese decadente, antiquato, prostrato alla religione e del tutto marginale nel panorama della cultura europea settecentesca. La pubblicazione di “Espagne” suscita sdegno e innesca un dibattito centrale nel ‘700 europeo. Di fatto, però, questo sguardo sulla Spagna offrirà un appoggio molto duraturo agli stereotipi sulla terra e il popolo spagnoli.
Veniamo dunque ai primi del ‘900, da dove siamo partiti. La situazione internazionale è molto cambiata, rispetto ai tempi del Siglo de Oro, in cui la monarchia spagnola dominava incontrastata. Nel 1898, la Spagna ha perso Cuba, la sua ultima colonia e, mentre altri paesi macinano chilometri di fabbriche e ferrovie, Madrid si fa conoscere nel mondo per mediazione francese, con la Carmen di Bizet, che dà scandalo a Parigi nel 1875. La Spagna regina del mondo non esiste più, eppure, dal punto di vista culturale, l’immagine di terra di “mori” e gitani, di toreros e donne ammaliatrici non è tramontata. Con il diffondersi del turismo, la leyenda negra si è ammorbidita e cristallizzata in attrazione folkloristica. Gli inglesi, i francesi, gli italiani, che un tempo si scontravano con la forza militare spagnola, vengono ora a visitare le belle città arabe dell’Andalusia.
Da un punto di vista politico, invece, la questione è più complessa. Il mondo occidentale si rivolge alla Spagna con occhi diversi e numerosi, ciascuno legato a una diversa ideologia. Da un lato troviamo le frange dell’anarchismo internazionale, che prima della Grande Guerra vede nelle insurrezioni catalane l’impresa da sostenere; più tardi, la vittoria della Sinistra alla fine della Seconda Repubblica offre ai sostenitori del comunismo una realizzazione dell’ideale in Europa, e giovani volontari provenienti da vari paesi occidentali intervengono nella guerra civile a difenderlo. Dall’altro lato, la Spagna è per un periodo il paese del dittatore Primo de Rivera (1923-1930), mentre nel 1936, quando Franco riesce a vincere la Guerra civile e scalzare il governo repubblicano, il paese diventa nuova conquista del fascismo. Anche grazie all’estrema volatilità della politica spagnola di questo periodo, l’idea di un popolo istintivo, passionale, coraggioso, caliente sembra accomunare le rappresentazioni offerte da ciascuno di questi punti di vista, per quanto opposti.
L’antica alternanza fra leggenda aurea e leggenda nera come condiziona la narrativa e il teatro italiani dell’epoca?
Iole Scamuzzi – La visione della Spagna da parte dell’Italia del Novecento è assai semplificata e limitata. Pesa ancora molto l’ombra lunga lasciata dai “Promessi Sposi” di Manzoni, che già allora erano programma d’insegnamento nelle scuole, e sono latori di una delle versioni più feroci della leggenda nera. Faccio un esempio abbastanza attuale: nel “Fermo e Lucia” – prima redazione del romanzo, del 1828 – quando parla della peste, Manzoni accusa esplicitamente “gli spagnoli” di strage premeditata a danno del popolo italiano, responsabilità di delegati incompetenti, disumani e corrotti; giunge a rinnegare la loro umanità, dicendo “La non fu spensieratezza; fu proponimento volontario, abbandono pensato della salute degli uomini; e quelli che lo commisero non sono nostri avi” (Fermo, IV, 3). Nelle redazioni successive, quelle che studiamo a scuola, il giudizio è più velato, ma non sostanzialmente diverso. Vicente Ferrer, mentre corre a mettere in salvo il vicario di provvisione, parla tra sé in spagnolo mentre rassicura il popolo insorto in italiano; quelle parole in lingua spagnola, “Adelante, Pedro, con juicio”… “si es culpable”, sono diventate quasi proverbiali nell’indicare la doppiezza dei potenti.
A compensare l’ombra nera lasciata da Manzoni c’è però Don Chisciotte, che si presenta all’Italia in veste eroica nella penna di Miguel de Unamuno. Il suo “Vida de Don Quijote y Sancho”, uscito in Italia col titolo di “Commento al Don Chisciotte” nella traduzione di Gilberto Beccari nel 1913, ebbe un enorme successo, forse anche grazie all’enorme entusiasmo del Beccari per il filosofo. Don Chisciotte si emancipa da una fortuna italiana prevalentemente buffonesca (nel teatro del Settecento era una maschera assimilabile al Soldato Fanfarone o al Capitano della Commedia dell’Arte) e diventa un campione di idealismo. Per elaborare le sue teorie, Unamuno si basava su una solida tradizione di “visione romantica” del cavaliere della Mancha prodotta da Germania, Francia e Inghilterra a partire dalla fine del Settecento, e la volgeva in senso esistenzialista e mistico. Don Chisciotte diventa per lui e per i suoi appassionati lettori come l’incarnazione della volontà libera dai vincoli imposti dalla vile realtà, capace di cambiarla col coraggio, il sacrificio e una nobile ostinazione. Un mito volontarista, quindi, in grado di porre in essere il meglio di una Nazione (la Spagna, per Unamuno) e persino di trascendere lo stato mortale, dando vita a un Dio creato dall’uomo, ma non “troppo umano”. Questa “versione” di Don Chisciotte è ghiotta per i movimenti che si percepiscono innovatori in tutte le epoche e sotto tutte le bandiere. In Iberoamerica, spesso, il Cavaliere diventa il simbolo delle lotte di indipendenza dalla madrepatria nel processo di decolonizzazione. In Italia calca le scene come miniatura esotica del Duce. Sancho, dietro di lui, rappresenta la realtà disposta a cambiare se messa faccia a faccia con l’ideale, nella forma del gregario spinto all’azione dal suo leader. Margherita Sarfatti, in un articolo pubblicato su “La Stampa” il 27 gennaio 1934, scrive di Don Chisciotte (che ha visto nel film di Georg Wilhelm Pabst): “Il Cervantes qui adombra con simbolo involontario la sorte di tutte le truppe, di fronte al generale; di tutti i gregarii di fronte al capo; di tutte le masse di fronte alle aristocrazie, di tutte le maggioranze di fronte alle minoranze guida. […] In questo sta la grandezza del capo, che risveglia questo bisogno e questa sete nell’animo stesso dei Sancio, là dove essa pareva morta, e non era se non sopita”. L’ispirazione che guida la Sarfatti è indubbiamente “nera”, ma non nel senso che intendiamo qui: Don Chisciotte che con la sua passione e il suo dolore, come un nuovo Cristo, spinge l’uomo ad andare oltre sé stesso, è senz’altro una delle forme che la leggenda aurea assume in questo secolo.
Quale rappresentazione del Paese iberico emerge dai racconti di viaggio in Spagna?
Viola Zangirolami – L’attrazione di molti intellettuali per la Spagna si inserisce in un’ampia tendenza. A partire dalla fine del’600, una fascinazione per le terre spagnole si annoda alla cosiddetta leyenda negra. Mentre la potenza spagnola perde colpi, la rappresentazione della Spagna ormai radicata nelle culture euroamericane si trasforma, acquisendo un valore squisitamente estetico. Resta intatto il senso di una natura oscura, liminare, anima di un paese che è membrana porosa tra Occidente e Oriente. La Spagna esercita insomma un’attrazione simbolico-culturale del tutto coerente con l’esotismo che, dal ‘700 alla prima metà del ‘900, partorisce nel contesto europeo varie rappresentazioni dell’“altro”.
Perciò, una schiera di nuovi turisti viaggia per la Spagna sulle tracce della sua essenza negra, questa volta però negra come il buon selvaggio. Tra i loro resoconti scritti, a volte veri e propri diari di viaggio, altre volte saggi brevi o racconti ispirati a soggiorni in terra spagnola, emergono alcuni elementi che permettono di definire un micro-genere letterario, composto da testi soprattutto di tipo memorialistico-autobiografico. Di volta in volta, questi intellettuali portano un punto di vista peculiare: essi mostrano l’evoluzione dei luoghi che si trovano a visitare, del popolo spagnolo che li abita. Cambia il paesaggio: Madame d’Aulnoy, Théophile Gautier, Edmondo De Amicis viaggiano in Spagna quando il monastero di Monserrat è raggiungibile solo a dorso d’asino, mentre negli anni ‘20 del ‘900 Raffaele Calzini lo visita con l’agio del turista di un’altra epoca. Cambiano le celebrità – toreri, pittori, cantaores. Cambia anche l’orizzonte d’attesa dei viaggiatori “moderni”. Eppure, nonostante queste differenze, i racconti di viaggio in Spagna condividono il chiaro desiderio, soddisfatto o frustrato, talvolta accompagnato da una consapevolezza autoironica (“metaturistica”, se vogliamo), di incontrare uno stereotipo che coincide con l’istinto, la passione del popolo spagnolo, la convivialità – pur nella povertà – e una sorta di venerazione della morte, di tradizionale teatralità, uniti a colori insieme cupi e vivaci. Ancora per Mario Praz, nel 1954, l’immaginario sulla Spagna pittoresca, primitiva, nera non si è affatto estinto. Come ogni costruzione culturale calzata su un popolo, esso è flessibile, resistente, trae nutrimento dagli eventi storici per ricomporsi in forme adatte al tempo presente. Se anzi studiassimo l’evolversi della leyenda negra nella seconda metà del Novecento e fino a oggi, ne potremmo di certo scoprire ulteriori propaggini, nascoste nella cultura europea. Le parole di Praz, suo malgrado, ci mostrano proprio la natura proteiforme e longeva dei costrutti ideologici che spesso guidano il nostro incontro con l’“altro”, preconcetti di cui cerchiamo conferma nell’esperienza del viaggio turistico.
Per quanto acuti nella nostra osservazione, abbiamo bisogno di ridurre una cultura, una nazione, una zona del mondo a schemi noti, e di conseguenza un po’ più comprensibili, meno spaventosi, nella loro alterità.
Quale immagine della Spagna e della sua cultura veicolano le testate giornalistiche italiane della prima metà del Novecento?
Iole Scamuzzi – Nel nostro libro l’esperto di storia del giornalismo è Mauro Forno e si deve a lui l’intervento su questo argomento all’interno del volume. La sua ricerca si muove attraverso il doppio canale dello studio degli archivi editoriali (Il Corriere della Sera) e della lettura sistematica delle pagine culturali dei quotidiani dell’epoca. Dagli archivi emergono timidi tentativi di instaurare collaborazioni stabili con intellettuali spagnoli, senza però riuscire mai a convergere su uno stile di scrittura e di comunicazione ritenuto accettabile da entrambe le parti. Gli spagnoli sono considerati ampollosi e retorici dagli italiani, e gli italiani incomprensibili dagli spagnoli. Può darsi che ci sia anche qui lo zampino del pregiudizio manzoniano sull’eccessiva retorica degli spagnoli, ma non possiamo saperlo…
La cultura spagnola come tema emerge invece a chiazze, mai in modo sistematico, con alcune punte d’interesse. Certamente la fa da padrone Unamuno – soprattutto prima di rinnegare il fascismo – seguito rapidamente dai classici del Secolo d’Oro, quindi Cervantes (nel 1905 e nel 1915 si celebra il terzo centenario della pubblicazione del “Don Chisciotte”) e Lope de Vega (nel 1937 il terzo centenario della sua morte). A debita distanza si collocano altri due celebri membri della “generazione del 98”: il poeta Ernesto Giménez Caballero e il filosofo José Ortega y Gasset. Non c’è traccia, nella stampa italiana, della generazione d’argento della letteratura spagnola, nota anche come “generazione del 27”, ossia il gruppo di intellettuali che giravano intorno a Federico García Lorca, Rafael Alberti, Luis Buñuel; né si trova menzione – se non come titoli nelle rassegne editoriali – della ricca stagione dei loro maestri poetici, come Juan Ramón Jiménez e Rubén Darío. Il “Diorama Letterario” della Gazzetta del Popolo, eccellenza fra le pagine culturali negli anni ‘30 (si può consultare tutto qui: http://www.dioramagdp.unito.it) il 16 settembre 1931 pubblicava un medaglione con quattro scrittori spagnoli bizzarramente assortiti: a fianco dei celebrati José Ortega y Gasset e Ramón Gómez de la Serna, schierava due soggetti assai degni, ma nettamente di seconda fila, come Luis Araquistáin e Ramón Pérez de Ayala. La scelta dei personaggi da citare era certamente assai casuale; se vi si vuole trovare un’intenzione, o per lo meno una tendenza, è quella di segnalare intellettuali dalla forte componente ideologica, mai artisti puri. Ma questo forse non stupisce: la poesia pura, intesa da Juan Ramón Jiménez e dalla generazione del ‘27 nel senso lato di arte pura, è artiglieria della resistenza.
Quale attenzione è riservata sulla stampa italiana alle vicende della guerra civile spagnola?
Iole Scamuzzi – Se nel caso della cultura spagnola ci troviamo di fronte a scarso interesse e superficialità, la Guerra Civil fu certamente oggetto di maggiore preoccupazione da parte della stampa del Regime. Mauro Forno (prima della pandemia che ha bloccato quasi tutto) ha fatto alcune incursioni all’Archivio Centrale dello Stato e ha analizzato, tra le carte dell’Agenzia Stefani, tutte le veline relative al periodo della Guerra Civile. La vicenda fu seguita accuratamente dal Ministero per la stampa e la propaganda e le veline emesse furono quindi varie centinaia. La linea indicata ai giornali fu lo specchio dell’andamento del conflitto, con i suoi entusiasmi, battute d’arresto, cautele, retorica ecc. Infatti, passando alla lettura dei giornali, vediamo che la notizia dell’assassinio di Calvo Sotelo e della successiva crisi del governo “comunista” arriva in tempo reale sulle prime pagine delle nostre testate. Sul “Corriere” si crea uno spazio fisso intitolato “La guerra in Spagna”, che esce più volte a settimana. La “Gazzetta del Popolo” manda nella penisola alcuni inviati, che cambia però molto spesso, non appena essi sembrano essersi fatti un’opinione troppo precisa sulle varie parti in lotta. La rappresentazione che emerge del conflitto in modo quasi unanime è quella di un enorme spargimento di sangue fratricida, che c’è urgenza di calmare, e il miglior candidato per farlo è il generale Franco che sta risalendo la Penisola con la sua legione marocchina. Poco alla volta, prendono piede le cronache di miseria e violenza nei territori ancora controllati – più o meno – dal governo repubblicano. Si dà spazio alla reticenza della Catalogna a difendere la Madrid repubblicana (ma sappiamo bene che una delle regioni che avrebbe pagato più caro il prezzo del franchismo sarebbe stata proprio quella…). Si costruisce l’immagine di una compagine anarco-comunista disordinata e litigiosa, al suo interno, fino alla crudeltà. Si parla assai poco dell’intervento italiano e tedesco a sostegno di Franco, mentre è più esplicito il riferimento ai volontari in arrivo dalla Francia a supporto dei “comunisti”. Solo a conflitto terminato vengono celebrati i legionari di ritorno dalla Spagna, e solo allora Italia e Spagna -con Germania e Giappone- vengono definiti popoli fratelli, accomunati da una missione civilizzatrice. Si dà il benvenuto alla Spagna nel “blocco degli stati totalitari anticomunisti” e la guerra civile viene incardinata nella narrazione delle sorti dell’Europa come “non una vera e propria guerra civile interna, ma piuttosto una battaglia internazionale tra forze che volevano fare della Spagna una ridotta marxista al servizio di interessi stranieri e forze che auspicavano invece una spagna forte e indipendente” (Corriere, 10.4.39, p.7): le prove generali, insomma, della Seconda Guerra Mondiale.
Iole Scamuzzi è professoressa associata in Letteratura Spagnola nel Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino. È autrice di numerosi studi sulla ricezione della cultura spagnola in Italia e della cultura italiana in Spagna, dal basso medioevo all’età contemporanea. Ha diretto il progetto di ricerca Spain and Spanish Culture in Italian Press, finanziato dalla Compagnia di San Paolo dal 2016 al 2020.
Viola Zangirolami, dottoressa di ricerca in Letterature Comparate e attrice, collabora a diversi progetti di ricerca dell’Università in ambito ispanico, comparatistico e teatrale. È autrice di una monografia su Victor Serge (Mimesis, 2019) e di numerosi articoli scientifici su vari aspetti della letteratura europea in età moderna e contemporanea.