
Che gli italiani non leggano è convinzione diffusa, quasi un luogo comune.
L’Italia, in effetti, è un paese ove si legge poco, ove non sempre si capisce bene ciò che si legge, e gli studenti stessi hanno scarsa dimestichezza con le parole dei libri. D’altro canto quanti scrivono e pubblicano in italiano (facendo informazione o divulgazione scientifica, o anche occupandosi di fiction) faticano – oggi come in passato − a trovare una lingua ‘semplice’: una lingua pulita, diretta e facilmente fruibile.
Non sono questioni da poco. Padroneggiare male la propria lingua, stentando a spiegarsi con efficacia e a capire ciò che dicono e scrivono gli altri, determina forme di esclusione sociale. E su un altro piano tende a favorire banalizzazioni e stereotipi, alimentando quelle verità virtuali senza fondamento reale e quelle ‘parole di nebbia’ rilanciate anche dai social media che in tempi recenti hanno scosso regole consolidate e gerarchie di valori, rendendo sempre più difficile la verifica e la comprensione dei fatti.
Proprio lo sviluppo tecnologico ha di recente contribuito a riportare alla ribalta il tema della lettura e dell’accesso consapevole ai testi scritti: non solo l’analfabetismo di ritorno ma le difficoltà legate a nuovi analfabetismi funzionali. Basta pensare agli analfabeti digitali: analfabeti loro malgrado, che non sempre sanno di esserlo e forse non vogliono neppure saperlo, ma che rischiano di essere pesantemente discriminati. La pandemia degli ultimi anni ha rappresentato un ulteriore potente acceleratore del digital divide: il trasferimento forzoso sul web di ulteriori segmenti di lavoro e di servizi ha spinto progressivamente ai margini anche persone scolarizzate o addirittura colte, che per ragioni di età o di incompetenza informatica durano ormai fatica ad accedere in modo autonomo a prestazioni essenziali (salute, fisco, finanze, ecc.).
Sono problemi attuali, che hanno però una lunga storia. La scarsa dimestichezza degli italiani con le parole scritte ha infatti radici lontane. Si pensi al disagio e all’incertezza che a lungo hanno segnato, nella nostra penisola, le pratiche di lettura; all’analfabetismo come secolare piaga endemica; al divario tra colti e semicolti scavato nel tempo da una lingua scritta ‘bella e impossibile’. Pur radicati nel passato, tali nodi non del tutto risolti segnano ancora il nostro presente; proviamo quindi a identificarne le cause risalendo ai secoli della prima età moderna.
In che modo la censura ha influenzato la storia culturale nell’Italia moderna?
È fondamentale ricordare che nel corso del ’500 i conflitti scatenati dalla Riforma protestante portarono drammaticamente alla ribalta il controllo dei libri e quello della cultura. Il timore dei disordini morali, politici e religiosi che potevano nascere dalla lettura determinò sorveglianza e sanzioni sempre più severe, che si estesero gradualmente dalle opere di religione a quelle di intrattenimento (novelle, poemi, commedie ecc.). La censura entrò allora a far parte dell’orizzonte quotidiano degli abitanti della penisola. La censura ma altresì l’autocensura, perché va rammentata anche la capacità dell’apparato diretto dal Sant’Ufficio dell’Inquisizione di orientare in profondo produzione e consumo di libri. Divieti e castighi agirono dall’esterno sulla condotta del pubblico, ma indussero al contempo forme di adattamento più sottili, che agivano sulle coscienze per tradursi poi in atteggiamenti e pratiche culturali. Pratiche che rimasero ben differenziate a seconda dei livelli sociali: mentre la minoranza colta, indotta all’autocensura, ripiegò negli esercizi poetici e retorici, nei gruppi popolari il clima di sospetto verso libri e sapere non autorizzati agì piuttosto a livello preventivo, minando la familiarità dei ‘semplici’ con le parole scritte.
Il confronto con altre realtà permette di capire quanto le scelte religiose pesassero sui diversi destini dei paesi europei, scavando differenze destinate a durare nel tempo anche per quanto riguardava libri e letture, con conseguenze oggi ancora visibili nei processi di alfabetizzazione e acculturazione.
In sintesi, nei paesi protestanti l’intensa frequentazione della Sacra Scrittura fu un fattore non trascurabile per un’alfabetizzazione più precoce e diffusa, scoraggiata invece dalla Chiesa controriformistica che vietò ogni lettura, anche parziale, della Bibbia in volgare, in base al principio secondo cui proprio da essa (o meglio dalle molte false interpretazioni) nascevano le eresie. Questo in piena Controriforma. Ma anche quando a metà Settecento il papato romano avrebbe eliminato il divieto di lettura della Bibbia nelle lingue nazionali, l’inerzia delle antiche proibizioni continuò a produrre i suoi effetti, tanto che i più diffusi manuali di istruzione per i confessori ribadivano ancora in pieno Ottocento gli antichi e non dimenticati divieti del Concilio di Trento.
Anche da questa radicale disparità tra i due mondi discese il più largo uso delle lingue volgari, la maggiore consapevolezza dottrinale, la più frequente abitudine alla lettura individuale nel mondo protestante rispetto a quello cattolico.
Quali fattori modellavano il rapporto con i libri nell’Italia moderna?
Teniamo presente che al timore delle eresie religiose si sommava quello dei disordini sociali nel popolo, un timore che spingeva a limitare fortemente l’istruzione dei ceti bassi e delle menti più fragili. Ai popolani e alle donne a lungo furono somministrate solo pillole di alfabetizzazione religiosa; un sapere ristretto che portava al riconoscimento di scampoli di testi già noti e memorizzati (come il Catechismo e la Dottrina cristiana) ma non necessariamente incoraggiava l’accesso ad altri libri, e tanto meno ne favoriva la piena comprensione. È significativo che intorno al 1850 il tasso di analfabetismo oscillasse fra il 10 e il 20% in Scozia, Prussia e Svezia, di contro al 75-80% di Italia e Spagna, superate solo dell’atavica Russia feudale con il 90%.
Un altro elemento da tenere a mente è la rilevanza delle questioni linguistiche. Per l’Italia soprattutto la prolungata supremazia del latino come lingua del sacro e della cultura, e il ruolo subordinato dell’italiano in ogni ordine di scuola. E ancora la frattura tra una lingua parlata fortemente regionalizzata e una lingua scritta di alto tenore estetico-letterario: un modello definito a metà ’500, controllato dall’Accademia della Crusca e quasi imbalsamato, come se si trattasse di una ‘lingua morta’.
Tra il popolo la conquista di una lingua diversa dal dialetto fu lenta, e difficile fu il passaggio dal volgare ‘cencioso’, utile solo a decifrare testi minimi, a un italiano medio e comune. La lingua dei ‘buoni’ libri, diversa da quella usata per le scritture pratiche, rimase per secoli un marchingegno complicato ed esclusivo, un filtro che ostacolava l’accesso di gran parte della popolazione, anche alfabetizzata, a opere di politica, scienza e letteratura caratterizzate da uno stile molto elaborato.
Quali opere componevano l’universo delle letture popolari?
Un dato di fondo che caratterizza la situazione italiana è la fragilità del sistema editoriale, che nel corso del ’500 perse molte posizioni rispetto a concorrenti europei sempre più agguerriti. È un fenomeno che va considerato nel lungo periodo, e si lega al declino di molte delle più grandi aziende e alla sopravvivenza di un tessuto editoriale fatto soprattutto di imprese di dimensioni ridotte e scarsi capitali, che campavano sia rispondendo alla domanda di un pubblico ristretto di eruditi ed ecclesiastici, sia (e soprattutto) offrendo scritture minime, di basso costo e poche pagine. Librai e stampatori della penisola stentavano a intercettare le nuove domande delle frange non letterate, come donne e giovani, e a farsi spazio in nuovi settori, come i romanzi o la divulgazione scientifica. La loro era in prevalenza un’offerta ripetitiva e poco qualificata, tra sacro e profano, tra lingua e dialetto: abecedari, catechismi, «libriculi, librettuzzi e libricciuoli», filastrocche, fogli volanti, almanacchi, che erano presenti anche sui banchi delle fiere, e distribuiti anche dagli ambulanti; un’offerta che risultava parzialmente accessibile anche agli incolti, se non altro attraverso l’ascolto della lettura altrui.
Proprio la pluralità delle possibili fruizioni va quindi tenuta in conto: la lettura collettiva, la recitazione, il racconto dei cantastorie, lo spettacolo, la riduzione in rima di scritti concepiti originariamente in prosa al fine di favorirne la memorizzazione, contribuiscono a spiegare la fortuna avuta nella penisola dai poemi cavallereschi, dalle stampe legate al teatro e alle opere in musica. Erano prodotti in bilico tra oralità e scrittura, capaci di arrivare dove analfabetismo, povertà e approssimativa conoscenza della lingua nazionale ponevano ostacoli altrimenti insormontabili. Ma si trattava di scorciatoie, che valevano poco di fronte alla sfida dei libri dal contenuto più complesso e dal ritmo meno orecchiabile.
Come cambiarono nel Settecento le vie dei libri?
Sotto l’influenza delle correnti illuministe, intorno a metà Settecento, si delineò una svolta significativa, tale da rinnovare parzialmente il panorama della stampa e della lettura anche nel nostro paese.
Lo testimonia, ad esempio, la crescente diversificazione dei generi in funzione di pubblici specifici: fogli periodici, scritti di vario intrattenimento, romanzi, saggi con riferimenti all’attualità anche politica. Ma anche altri indicatori, come la tendenziale riduzione del formato o l’abbassamento del prezzo, comprovano la nuova attenzione degli operatori del settore per una platea più ampia di potenziali destinatari;
Accanto alle imprese autorizzate cresceva inoltre tutto un mondo di attività borderline o francamente illegali, animato da tipografi avventurosi che pubblicavano o importavano libri di natura e contenuti diversi, e si proponevano di raggiungere anche i lettori non professionali. Era un universo precario e difficilmente quantificabile, ma a suo modo vitalissimo, che nel secondo Settecento si sviluppò ulteriormente, profittando di un parziale allentamento della censura.
Resta però il fatto che tali fenomeni coinvolgevano un pubblico ancora relativamente ristretto, almeno a confronto con altre situazioni europee. Se lo si guarda in prospettiva comparata, il nostro paese rimanda l’immagine di una modernizzazione fragile, segnata da scarsa resistenza a stress e crisi, e corrosa all’interno da strutturali fattori di debolezza che avevano radici lontane nella lingua e nella cultura, oltre che nell’economia attardata: fattori come l’estrema frammentazione delle stamperie, la scarsa circolazione dei libri e il pubblico limitato, che anche in età successive avrebbero continuato a segnare la storia della penisola, e a differenziarla da realtà come l’Inghilterra e la Francia.
Se è vero che libri e letture cambiavano anche in Italia, soprattutto nel tempo dei Lumi, a paragone di altri paesi cambiavano comunque con fatica, e soprattutto con ritmi diversi: più rapidi ai vertici della ristretta élite colta, più lenti tra i lettori popolari. Su questo terreno entravano infatti in gioco anche altri fattori, come il peso di una censura che aveva modellato nei secoli il rapporto con i testi scritti, incanalandolo in pratiche prudenti e conformiste, o il conservatorismo politico-sociale di gran parte dei gruppi dirigenti della penisola. Costoro tendevano infatti a schierarsi ancora a favore di una cultura elitaria e di una lingua letteratissima, difese come ultimi baluardi di un glorioso passato entro un’Europa in cui progresso culturale e sviluppo economico parevano invece procedere di pari passo; quasi che nel nostro paese il ricordo dell’antica grandezza rendesse ancor più difficile affrontare il futuro.
Non a caso i prodotti dell’editoria e degli autori autoctoni faticavano a dare una risposta a bisogni e curiosità d’una platea diversa e più larga delle cerchie accademiche; e non a caso all’estero gli abitanti del Bel Paese erano ancora percepiti come lettori comparativamente deboli. Ma il problema un’Italia a lungo disunita sul piano della lingua e della cultura non era ignorato neppure all’interno, e fu ben presente anche ai protagonisti del Risorgimento. Come sottolineava ad esempio Pasquale Villari (letterato, patriota e poi ministro) anche dopo l’Unità nella penisola si fronteggiavano ancora − spesso senza capirsi − 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di poeti e accademici.
Marina Roggero ha insegnato Storia moderna nell’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni: L’alfabeto conquistato (1999) e Le carte piene di sogni (2006)