
A differenza del più noto Simbolo niceno-costantinopolitano – il Credo abitualmente recitato nella Chiesa latina durante le celebrazioni liturgiche domenicali e solenni, composto ai concili di Nicea (325) e poi Costantinopoli (381) –, il Quicumque non è organizzato secondo i tre articoli relativi al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, con la conclusione riguardante la Chiesa, il Battesimo, la risurrezione e la vita eterna, ma è suddiviso in due grandi parti, che presentano la fides catholica rispettivamente sulla Trinità e sulla persona di Cristo, con un richiamo finale alla risurrezione e al giudizio. Inoltre, da tutto il testo traspare la preoccupazione di collegare la corretta professione della fede alla salvezza personale di ciascuno; il Simbolo inizia con: «Chiunque voglia salvarsi deve anzitutto possedere la fede cattolica» (Quicumque vult salvus esse, ante omnia opus est ut teneat catholicam fidem), e si conclude con: «Questa è la fede cattolica, e non potrà essere salvo se non colui che l’abbraccerà fedelmente e fermamente» (Haec est fides catholica: quam nisi quis fideliter firmiterque crediderit, salvus esse non poterit).
Diversi studi moderni hanno mostrato che l’autore di questo Simbolo è particolarmente debitore del pensiero trinitario e cristologico di Agostino di Ippona (354-430), di cui viene qui elaborata una mirabile ed efficace sintesi. In generale, vi possiamo trovare un frutto maturo dei punti dogmatici salienti della riflessione patristica sulla Trinità e sulla persona di Cristo, a valle delle dispute del IV e del V secolo, fra i concili di Nicea e di Calcedonia (325-451), esposti in un compendio chiaro e anche facilmente assimilabile e memorizzabile.
Non sorprende quindi che in tutto il corso del Medioevo occidentale il Quicumque abbia avuto una grande diffusione, ulteriormente amplificata dalla progressiva attribuzione ad Atanasio di Alessandria (295 ca.-373), ormai universalmente riconosciuta come erronea, tanto che il testo è oggi conosciuto anche come Simbolo pseudo-atanasiano. In ogni caso, quella che era conosciuta come fides sancti Athanasii entrò talmente a far parte del patrimonio condiviso del Medioevo latino da essere inserita all’interno della Liturgia delle Ore domenicale, fino a essere recitata in alcuni ambienti monastici addirittura tutti i giorni. Già in epoca moderna, anche in seguito ai primi seri dubbi sull’attribuzione ad Atanasio, il Quicumque cominciò a trovare posto nella preghiera ufficiale della Chiesa latina soltanto la domenica dopo Pentecoste, festa della Trinità, fino a scomparire del tutto con la riforma liturgica susseguente al Concilio Vaticano II. Tuttavia, ancora oggi il Simbolo pseudo-atanasiano rimane un valido compendio dei principali dogmi della fede cattolica, utilizzabile con profitto per la riflessione e la preghiera personale.
In quale contesto avviene la sua traduzione in greco?
Il Simbolo Quicumque, in quanto attribuito nel Medioevo latino ad Atanasio, uno dei più grandi Padri della Chiesa greci, ha inevitabilmente giocato un ruolo importante nelle dispute teologiche fra Oriente e Occidente, soprattutto in relazione al Filioque, cioè alla dottrina della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, così come si trova espressa in un’aggiunta al Simbolo niceno-costantinopolitano attestata già nel VI secolo e ampiamente diffusa in epoca carolingia.
Il nostro testo, nella sua versione originaria latina, così recita: «Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio: non fatto, né creato, né generato, ma procedente» (Spiritus Sanctus a Patre et Filio, non factus nec creatus nec genitus, sed procedens). In Occidente, questa affermazione del Simbolo Quicumque non destò stupore; anzi, essa fu più volte citata come testimonianza in appoggio del Filioque, a favore del quale si sarebbe espresso anche Atanasio, il campione dell’ortodossia trinitaria nicena del IV secolo, considerato dunque come un’eminente auctoritas dottrinale anche da parte dell’Oriente cristiano. È principalmente a proposito del Filioque e dell’autorità di Atanasio che il Simbolo Quicumque fu conosciuto in ambito orientale e venne più volte tradotto in greco, a partire da prese di posizione diverse rispetto alla questione dell’aggiunta latina al Simbolo niceno-costantinopolitano.
In particolare, già nell’anno 808, a Gerusalemme, nel corso di una controversia sul Filioque fra un certo Giovanni del monastero orientale di San Saba e alcuni monaci benedettini franchi stabilitisi presso il Monte degli Ulivi, questi ultimi citarono fra le altre auctoritates – oltre alla prassi vigente a Roma e alla corte franca di Carlo Magno – la fides sancti Athanasii: forse in quell’occasione cominciò a essere tradotto in greco il passo del Simbolo Quicumque riguardante la processione dello Spirito Santo.
Sicuramente una simile traduzione parziale del nostro testo fu realizzata all’epoca dello scisma d’Oriente (1054): il cardinale Umberto di Silva Candida († 1061) scrisse in latino un’opera a favore del Filioque, citando per tre volte il Simbolo pseudo-atanasiano insieme ad altre testimonianze patristiche, e tale opera fu immediatamente tradotta in greco per l’imperatore Costantino IX Monomaco († 1055) e il patriarca Michele Cerulario († 1058). È probabilmente a partire da questi eventi che iniziarono a comparire alcune versioni greche dell’intero testo del Quicumque, ormai portato all’attenzione esplicita di Costantinopoli.
Del Simbolo Quicumque possediamo ben nove differenti versioni: qual è la loro collocazione cronologica, geografica e teologica?
Le nove versioni greche (formulae) del Simbolo Quicumque che ho individuato sono tutte databili fra XI e XV secolo: le prime quattro erano già state pubblicate – partendo soltanto da alcuni singoli manoscritti non sempre affidabili – nell’Ottocento nel volume 28 della Patrologia Graeca del Migne fra le opere spurie di Atanasio, mentre altre tre erano state portate alla luce da parte di Caspari nel 1875 e di Ommanney nel 1897. Il mio lavoro è consistito principalmente nel fornire un testo critico di queste sette versioni e di aggiungerne altre due, finora inedite, sulla base di un totale di quasi cento manoscritti greci sparsi tra le biblioteche europee e mediorientali, da Roma a Parigi, da Oxford a Vienna, da Mosca ai monasteri del Monte Athos, da Gerusalemme al Sinai, considerando anche un codice conservato all’Università di Yale negli Stati Uniti. In questo modo, mantenendo l’ordine tradizionale delle diverse versioni greche, ho constatato come le prime cinque – le quattro del Migne e una di Caspari – siano quelle fondamentali, mentre la sesta, la settima e l’ottava siano derivate dalle precedenti; la formula nona, infine, è una rielaborazione fortemente antilatina ispirata al Quicumque e databile al periodo 1440-1480.
In particolare, fra la seconda metà dell’XI e il XII secolo si collocano le due più antiche versioni greche del Simbolo pseudo-atanasiano, la formula tertia e la formula quinta. La formula tertia fu composta negli ambienti monastici filolatini presenti a Costantinopoli dopo lo scisma d’Oriente e forse fu citata già nel 1082 da Giovanni Italo (1030 ca.-post 1082) in una sua professione di fede: questa versione del Quicumque, che non sembra essere ancora conosciuta negli ambienti della corte imperiale alla fine del XI secolo, conferma la sua origine filolatina grazie alla traduzione dell’espressione et Filio, a indicare la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Sono invece proprio queste parole a mancare dalla formula quinta, collocabile negli ambienti filobizantini dell’Italia meridionale e ormai ben nota a Nicola-Nettario di Otranto negli anni 1222-1225: tale versione, benché composta forse in risposta alla formula tertia, è comunque indipendente in molte scelte lessicali e stilistiche.
Ben quattro versioni, poi, sono databili fra XIII e XIV secolo, in diversi contesti geografici e teologici. Da una parte, la formula secunda, di parte filolatina, fu composta a Costantinopoli, probabilmente intorno all’epoca del patriarcato di Giovanni Becco (1275-1282), e ispirò nel secolo successivo la formula octava, frutto di un tentativo di rielaborazione della versione precedente per inserire il Simbolo Quicumque nella preghiera liturgica dei monasteri italogreci dell’Italia meridionale, sul modello della tradizione latina. Dall’altra, entro la fine del XIII secolo fu prodotto il testo primitivo della formula quarta, che trova la sua probabile origine nell’ambiente fortemente antioccidentale dei monasteri del Monte Athos, forse responsabile anche di alcune interpolazioni di taglio cristologico databili al massimo entro l’anno 1341; inoltre, al periodo compreso tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo risale anche la composizione della formula prima, parimenti filobizantina, ma difficilmente collocabile tra l’Italia meridionale e Costantinopoli.
Infine, oltre alla formula nona, anche la sesta e la settima si possono collocare nel pieno del XV secolo, dopo il concilio di Ferrara-Firenze (1438-1445): in particolare, la formula sexta costituisce una rivisitazione filolatina della formula prima, sviluppatasi nel monastero di Casole in Salento come risposta alla propaganda avversa al Filioque; la formula septima, invece, rielabora codici di diverse famiglie testuali della formula prima e della formula tertia, in senso fortemente antioccidentale.
Quali sono i momenti fondamentali della recezione di questa professione di fede di origine occidentale nel panorama bizantino posteriore allo scisma d’Oriente?
Dopo gli eventi dell’XI secolo, si ha nuovamente notizia del Simbolo Quicumque a Costantinopoli intorno al 1166, all’interno di una disputa cristologica sulla corretta interpretazione di Gv. 14, 28 («Il Padre è più grande di me»), in quanto contenente l’espressione «uguale al Padre secondo la divinità, minore del Padre secondo l’umanità» (aequalis Patri secundum divinitatem, minor Patre secundum humanitatem). Secondo la testimonianza del pisano Ugo Eteriano (1110/1120-1182), allora residente nella capitale imperiale, il nostro testo fornì il punto di partenza della disputa e di fatto ne influenzò l’esito, pur essendo considerato in ambito bizantino un falso occidentale.
È però all’epoca dell’impero latino di Costantinopoli (1204-1261) che il Quicumque fu progressivamente considerato anche presso la Chiesa greca come un’opera autentica di Atanasio, composta in latino durante il suo esilio a Roma. A questo proposito, possediamo un interessante resoconto occidentale dell’anno 1252: due monaci cisterciensi furono ospitati in un monastero greco a Nicea e lì scoprirono che un copista aveva appena trascritto da un codice molto antico la confessio catholica beati Athanasii – il Simbolo Quicumque –, ma tralasciando rispetto al suo modello l’espressione et Filio in relazione alla processione dello Spirito Santo; di fronte all’evidenza, il monaco greco sostenne che il proprio modello era stato scritto da un eretico e che dunque andava emendato, mentre quelli latini accusarono piuttosto il copista di eresia, nonché di aver in seguito distrutto il testo greco conforme all’originale latino. Da tale resoconto emerge come la disputa sul Filioque fosse in quel tempo inestricabilmente unita all’attribuzione del nostro testo ad Atanasio.
In seguito, tuttavia, dopo i tentativi di unione fra la Chiesa latina e quella greca al concilio di Lione del 1274, l’enfasi data dal già citato patriarca filolatino di Costantinopoli Giovanni Becco al valore della testimonianza atanasiana contenuta nel Simbolo Quicumque condusse il suo avversario Giorgio Moschampar (attivo negli anni Settanta-Ottanta del XIII secolo) a negarne di nuovo l’autenticità.
D’altro canto, proprio lo sviluppo di diverse versioni greche antilatine del nostro testo portò anche – soprattutto a partire dal XIV secolo – a recuperare il Simbolo Quicumque in ambito bizantino come un’auctoritas da utilizzare esplicitamente in opposizione al Filioque, come avviene ad esempio in Nilo Cabasilas (1298 ca.-1363 ca.).
Al contrario, proprio la possibilità di attribuire ad Atanasio l’affermazione della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio – seguendo le versioni greche filolatine – alimentarono i nuovi desideri unionisti che portarono alla convocazione del concilio di Ferrara-Firenze (1438-1445). Tuttavia, durante le sessioni congiunte fra i Latini e i Greci il Simbolo Quicumque non fu probabilmente neppure menzionato, perché era utilizzato dagli uni e dagli altri a favore o contro il Filioque e dunque perché costituiva un testo di controversa interpretazione, mentre fu citato soltanto in sede di unione con le altre Chiese orientali, sia con quella armena che con quella copta.
In effetti, nel contesto della recezione del concilio di Ferrara-Firenze, nella Chiesa greca il Simbolo pseudo-atanasiano fu citato sia dagli oppositori sia dai sostenitori dell’unione con i Latini, ad esempio da un lato da Giorgio Scolario, poi patriarca di Costantinopoli con il nome di Gennadio II (1405 ca.-1473 ca.), e dall’altro da Giovanni Plusiadeno (ca. 1429/1430-1500).
Anche nei secoli successivi al XV nell’Oriente cristiano si continuò a citare il Simbolo Quicumque come un testimone autorevole a favore o contro il Filioque, fino alla scoperta – fra XIX e XX secolo – della sua origine sicuramente occidentale e pseudoepigrafa.
Don Alberto Nigra, sacerdote dell’Arcidiocesi di Torino, è docente di Patrologia e di Greco biblico presso la sezione di Torino della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. Dalla sua tesi di Dottorato in Teologia e Scienze Patristiche, conseguito presso l’Institutum Patristicum Augustinianum di Roma, ha pubblicato il volume Il pensiero cristologico-trinitario di Giovanni di Scitopoli. Tra neocalcedonismo e prima recezione del Corpus Dionysiacum (Roma-Lugano 2019).