“Le università nell’Italia medievale. Cultura, società e politica (secoli XII-XV)” di Paolo Rosso

Prof. Paolo Rosso, Lei è autore del libro Le università nell’Italia medievale. Cultura, società e politica (secoli XII-XV) edito da Carocci: quando e come nasce e si sviluppa il nuovo sistema scolastico?
Le università nell'Italia medievale. Cultura, società e politica (secoli XII-XV), Paolo RossoIn area italiana le università mossero i loro primi passi nell’ambito delle scuole che operavano nelle città comunali dell’Italia centro-settentrionale già dagli ultimi decenni dell’XI secolo, nelle quali la scienza giuridica occupava un posto importante, insieme alla retorica e all’ars dictandi, insegnamenti utili, tra gli altri, ai futuri giudici e causidici. Questo scuole erano rette perlopiù da maestri laici e avevano un carattere privato, è tuttavia importante sottolineare che mantennero connessioni, almeno nelle prime fasi della loro esistenza, con il milieu culturale e scolastico dei tradizionali centri di alta formazione, rappresentati dalle scuole cattedrali o canonicali. Questo lo riscontriamo anche a Bologna, sede dei più prestigiosi insegnamenti di diritto del tempo, fioriti nei decenni tra i secoli XI-XII in particolare intorno alla grande operazione di esegesi compiuta dal giurista Irnerio e dalla sua scuola sul corpus giustinianeo, la quale permise di arrivare alla ricostruzione del testo del Corpus iuris civilis nella sua interezza e al riordinamento delle sue diverse parti secondo la stesura originaria. Insieme al diritto civile anche quello canonico trovò a Bologna i suoi principali cultori, tra cui si distinse il maestro Graziano che, negli anni centrali del XII secolo, unificò le tante collezioni di norme in una raccolta destinata a diventare l’unica collezione normativa (Decretum). La fama delle scuole bolognesi attrasse in città un grande numero di studenti da regioni sempre più lontane, che dapprima si aggregarono all’interno delle varie scuole, intessendo dei rapporti associativi intorno al loro maestro, per passare spontaneamente, nei decenni a cavallo dei secoli XII e XIII, ad una forma più ampia di associazione, che iniziò ad essere definita nelle fonti “università” degli studenti (universitas scholarium).

È importante interrogarsi sulle ragioni di questa mutazione, le quali risiedono nella medesima urgenza che spinse altri corpi sociali e professionali nel basso medioevo ad associarsi in difesa dei propri diritti. In particolare gli studenti forestieri avevano bisogno di ottenere dall’amministrazione cittadina risposte efficaci alle difficoltà che incontravano durante il loro lungo soggiorno in una città lontana, sia sul piano della sicurezza personale, sia su quello dell’accoglienza. L’esistenza di una università di studenti a Bologna emerge già nel 1155, quando, nei pressi di Bologna, avvenne il famoso incontro dei delegati degli scolari forestieri con l’imperatore Federico Barbarossa, che concesse loro la sua speciale protezione, poi ripresa nel suo privilegium scholasticum promulgato tre anni più tardi (la cosiddetta Authentica Habita). L’elemento “nazionale” fu un importante fattore di spinta associativa tra studenti della stessa area di provenienza, che costituirono raggruppamenti chiamati nationes, sorti molto probabilmente prima delle stesse università e poi confluiti in esse senza tuttavia perdere la loro identità fondata su comuni elementi culturali e di mentalità. L’altra componente del sistema scolastico, cioè i maestri, svilupparono relazioni più proficue con il potere comunale, ottenendo da questo privilegi fiscali e incarichi pubblici. L’assenza di pressanti istanze associative spiega il ritardo con cui anche i magistri si riunirono in corporazioni professionali (collegia), fenomeno attestato solo nella seconda parte del Duecento.

L’organizzazione della struttura delle scuole (lo Studium) si caratterizzò a Bologna per la presenza di università di soli studenti – costituite da nationes, guidate da rettori e dotate di privilegi – e di collegi di dottori. A questo impianto si ispirarono, con tuttavia margini di sperimentazione da non dimenticare, tutte le successive università che sorsero in Italia, mentre quelle transalpine trovarono il loro riferimento nella struttura assunta dall’Università di Parigi, dove il fenomeno corporativo interessò principalmente i maestri (universitas magistrorum), associati in difesa dei loro diritti e, in diverse occasioni, anche di quelli degli studenti, i quali, sebbene ricordati nella medesima universitas con i magistri, restarono tuttavia in una posizione subalterna rispetto a questi ultimi.

Quali vicende accompagnarono la legittimazione delle università medievali?
Come tutte le corporazioni medievali, anche l’università di studenti, movimento associativo sorto spontaneamente da una libera adesione, si diede presto un sistema di norme, al fine di fissare progetti, diritti e regole di comportamento. I più antichi statuti universitari noti sono quelli bolognesi di metà Duecento, le cui norme vennero ulteriormente precisate in avvio del secolo successivo e furono sostanzialmente riprese in tutte le università italiane del medioevo. Più variegato è invece il panorama degli statuti che, dal Trecento, stesero i dottori riuniti nei collegi. Dai decenni centrali del XIII secolo il sistema di scuole universitarie iniziò ad essere oggetto di un’importantissima opera di legittimazione derivata dal pensiero dei giuristi e, soprattutto, dall’intervento delle due istituzioni a carattere universale, cioè il papato e l’impero, che riconobbero alle università il privilegio di rilasciare agli studenti, al termine del loro percorso di studi, un grado accademico che li abilitava a praticare l’insegnamento in tutta la cristianità (licentia ubique docendi). Oltre agli Studi dotati di tale riconoscimento ufficiale, anche le maggiori università sorte per spontanea aggregazione di studenti o di maestri, tra cui quelle di Bologna e di Parigi, a fine Duecento si premunirono di ottenere il riconoscimento del privilegio della licentia ubique docenti dal papa, interessato a rinnovare il tradizionale legame della Chiesa sul sistema scolastico.

Dopo la fase delle università sorte per formazione spontanea o per migrazione di studenti e maestri – tra queste una straordinaria fortuna ebbe quella di Padova, dove nel 1222 si recarono gruppi di universitari partiti da Bologna – iniziarono a prendere vita una serie di università nate grazie alle iniziative dei comuni, attenti, salvo rare eccezioni, a chiedere ai pontefici il privilegio della licenza di insegnare ubique e la qualifica di Studio “generale”, con la quale probabilmente si richiamavano più caratteristiche del sistema scolastico così appellato, come la completezza degli insegnamenti offerti e l’universalità del valore del titolo conferito.

Oltre ai privilegi, il funzionamento e il successo di uno Studio richiedevano la presenza di altre condizioni fondamentali, quali una tradizione culturale e scolastica solida e il convinto sostegno della città all’ambizioso progetto. Dalla metà del XIV secolo si aprì la stagione degli interventi a favore degli Studi generali dell’altro potere universale, quello imperiale, avviata da Carlo IV con una massiccia concessione di privilegi che istituirono o rilanciarono centri universitari, tutti ormai dotati di elementi di legittimazione omogenei. Il sorgere di regimi signorili negli ordinamenti territoriali italiani ebbe dal pieno XIV secolo un importante riflesso anche nella vita degli Studi che agivano in contesti comunali, alcuni dei quali furono riorganizzati all’interno delle dominazioni sovracittadine. Dagli ultimi decenni del Trecento altre università vennero inoltre fondate per intervento delle stirpi signorili o dei regimi repubblicani, i quali mantennero tuttavia uno stretto contatto con i ceti dirigenti della città prescelta ad accogliere lo Studio. Lo sviluppo di questo processo portò, nel pieno Quattrocento, a una geografia di sedi universitarie ormai estesa anche alle aree meno urbanizzate e a quelle pedemontane.

Come era organizzato l’insegnamento?
Su questo versante il sistema universitario si mantenne più “conservativo” rispetto all’organizzazione della didattica e ai contenuti disciplinari adottati nelle precedenti scuole di alta formazione, cioè le scuole cattedrali e capitolari, nelle quali convivevano insegnamento e speculazione. Il campo dei saperi venne tuttavia ampiamente rinnovato nel corso del XII secolo grazie soprattutto alla grande attività di traduzione in latino delle conoscenze scientifiche e filosofiche del mondo arabo e greco. La completa conoscenza degli scritti di logica di Aristotele diede un fondamentale impulso alle tecniche dialettiche: la loro applicazione in ambito didattico trasformò l’impostazione dell’insegnamento, nel quale alla tradizionale lettura (lectio) dell’autorità venne affiancata la quaestio, cioè la scelta di un tema intorno al quale aprire un dibattito (disputatio) condotto con i rinnovati strumenti della logica e della retorica.

Non più solo lettura e commento del testo quindi, ma un nuovo sistema di studio e di approccio ai saperi, più tardi chiamato “scolastica” dagli umanisti, che, attraverso il confronto tra le autorità, esercitava il maestro e lo studente a sviluppare processi speculativi via via più raffinati. Il metodo della scolastica interessò tutti gli indirizzi disciplinari dell’insegnamento universitario, cioè i due ambiti costituiti dalle scienze “lucrative” (il diritto e la medicina) e le altre scienze “liberali”, rappresentate dalla teologia e dalle arti, queste ultime destinate sempre più alla formazione richiesta per l’accesso alle altre discipline “superiori”.

Un elemento di innovazione portato dalle università fu l’introduzione della licentia ubique docendi, grado che, confermando il livello di preparazione dello studente, autorizzava quest’ultimo alla trasmissione delle conoscenze. La licentia esisteva già nelle scuole episcopali del XII secolo, ma nelle università veniva rilasciata dal cancelliere dello Studio (che in Italia era il vescovo, ad eccezione dell’Università di Bologna, dove l’incaricato era l’arcidiacono della cattedrale) dopo che il candidato aveva superamento un esame dinanzi a una commissione di dottori della sua facoltà. Gli alti costi richiesti da un cerimoniale di laurea sempre più sfarzoso e simbolico, che segnava l’ingresso dello studente nel gruppo sociale fortemente privilegiato dei dottori, spiega perché la percentuale degli studenti che concludeva gli studi con il titolo accademico rimase per tutto il medioevo molto bassa.

Come funzionava l’editoria universitaria?
La “fame” di libri seguita all’incremento, fino ad allora impensabile, del numero di studenti che frequentavano gli Studi spinse le stesse università e l’amministrazione cittadina a intervenire sulla questione. Il libro, strumento didattico fondamentale tanto per il maestro quanto per lo studente, si dovette trasformare per adeguarsi ai contenuti e ai metodi dell’insegnamento universitario: si passò alla scrittura su due colonne, con ampi margini destinati alle glosse e alle letture dei maestri, e vennero introdotti titoli, segni di paragrafo, indici, tutti dispositivi utili – allora come oggi – per un libro di studio. La leggibilità del testo divenne fondamentale, e per questo si adottò una particolare scrittura libraria (detta littera textualis), che consentiva inoltre un risparmio di pergamena e una esecuzione più rapida, grazie all’uso di un condiviso sistema di abbreviazione di parole.

Il testo dell’autorità trasmesso dal libro doveva tuttavia essere anche corretto sul piano del contenuto, e per questo si ricorse a una produzione di manoscritti orientata alla serialità e alla standardizzazione, realizzata in specifiche botteghe (stationes) in cui era inoltre possibile acquistare e affittare libri nuovi o usati. Già dal primo Duecento a Bologna le università svolsero un diretto controllo su alcuni librai, che furono incaricati di tenere nelle loro stationes dei testi-modello, detti exemplaria, delle opere impiegate dai docenti nelle loro lezioni. La correttezza di questi exemplaria era “garantita” dalle autorità universitarie, per cui, in linea teorica, il testo delle copie che venivano tratte da essi, al netto degli errori del copista, era privo di errori. Per consentire il lavoro contemporaneo di più copisti sul testo-modello, questo era costituito quasi sempre da una serie di pezzi (“pecie”) di pergamena, piegati due volte a formare un fascicolo di quattro fogli, e vergati con una scrittura con poche abbreviazioni. A partire dalle singole pecie venivano prodotti manoscritti secondo un sistema di copia “multipla”, condotto da più scribi che simultaneamente trascrivevano le pecie dell’esemplare. Completato il manoscritto, questo poteva poi essere sottoposto al controllo di un apposito correttore di libri. Un sistema quindi di una certa complessità, sul quale gli statuti delle università intervennero regolamentando con precisione l’attività degli stazionari, al fine di proteggere la qualità degli exemplaria, e fissando le quote di locazione di questi manoscritti. Il controllo si fece più diretto con l’affidamento della sorveglianza sulle stationes al bidello generale dell’università, cioè a un membro “interno” al medesimo Studio.

Il cosiddetto sistema “exemplar-pecia” non fu però risolutivo nel ridurre sensibilmente i tempi di realizzazione dei manoscritti né il prezzo dei libri, e per questo iniziò a declinare nella seconda parte del Trecento. A questi problemi, ancora più sentiti dagli studenti per l’assenza di biblioteche “universitarie” in Italia fino al primo Seicento, si riuscì a dare risposte solo con l’introduzione della stampa nel mondo universitario, che aprì ai tipografi un vastissimo mercato.

Come erano reclutati i maestri?
Questo importantissimo punto ci permette di cogliere la forte riduzione nel tempo del grado di autonomia e della capacità d’azione delle università degli studenti, incalzate dagli interventi sempre più invasivi dei dottori e dei poteri pubblici. Nelle università delle origini il docente non era nominato, come avveniva invece nelle scuole ecclesiastiche, dalle massime autorità della Chiesa cittadina ma la scelta (electio) del professore aveva luogo all’interno delle medesime organizzazioni studentesche, che talvolta chiamavano docenti anche da scuole di altre città universitarie. La facoltà di scelta del docente era strettamente legata alla responsabilità della sua retribuzione: per fare fronte al salario del maestro gli studenti adottarono il sistema della colletta, che, se da un lato intaccava le loro risorse economiche, spesso già esigue, dall’altro permetteva loro di vigilare e di intervenire sulla qualità e sulla continuità degli insegnamenti impartiti.

Il sistema della ripartizione del salario magistrale tra studenti fu progressivamente sostituito dall’intervento diretto dell’amministrazione comunale, che acquisì così anche il diritto di nominare i docenti, relegando le università degli studenti a una semplice funzione di indirizzo nelle nomine. La definitiva affermazione del salariato universitario avvenne nei secoli XIV-XV, con l’ingresso degli Studi sotto il governo di regimi signorili, che fecero della selezione della docenza uno degli strumenti del loro governo. Il controllo signorile sulla gestione del finanziamento degli insegnamenti diede infatti vita a una vera “politica delle cattedre”, orientata a selezionare professori e a favorire ambiti disciplinari ritenuti strategici al consolidamento delle istituzioni statali: per raggiungere questo obiettivo i centri di potere limitarono fortemente la mobilità dei docenti del loro Studio e, insieme, agirono con grande dinamismo nel “mercato” della docenza, promettendo migliori condizioni salariali e privilegi ai professori di altre sedi universitarie.

Chi erano gli studenti?
Ricostruire il profilo dello studente “tipo” non è facile perché le fonti trascurano spesso l’aspetto sociale della popolazione studentesca. I grandi costi che comportava il lungo soggiorno in una città lontana, insieme alle spese per lo studio (soprattutto per l’acquisto dei preziosi libri) e per le cerimonie di laurea portano naturalmente a ritenere che una parte considerevole degli studenti fosse costituita da giovani ben dotati economicamente. Questo è certamente vero: nella documentazione bolognese di natura notarile troviamo attivi in transazioni economiche gruppi di studenti provenienti da famiglie nobili, anche di alto lignaggio, o principesche, e la loro presenza aumentò negli ultimi secoli del medioevo, quando i dottori acquisirono sempre più evidenti caratteri di ceto in senso aristocratico. Insieme ai rampolli della nobiltà sono attestati anche membri delle famiglie del patriziato urbano e di quelle “borghesi” (artigiani, mercanti o commercianti), nonché i figli di possessori terrieri. Non mancavano poi studenti appartenenti a gruppi parentali già ben innestati nelle professioni intellettuali – come giudici, causidici, medici, maestri – che crearono presto vere e proprie “dinastie” professionali, fortificate da reti di clientele e da legami matrimoniali.

Lo studente inoltre era, come abbiamo detto, spesso un forestiero, inquadrato nella sua natio, dove condivideva interessi (e spesso la lingua) comuni e trovava assistenza, e incline alla mobilità, quindi poco attento al radicamento nella città universitaria. Una parte molto consistente degli studenti erano chierici, condizione che permetteva loro, anche attraverso la semplice “prima tonsura”, di assumere benefici ecclesiastici, preziosi per integrare il denaro, spesso scarso, destinato loro dalle famiglie per gli studi, e di godere delle prerogative e delle immunità fiscali e giudiziarie fissate dal diritto canonico per coloro che erano di condizione clericale. È importante sottolineare l’alto livello di “clericalizzazione” della popolazione studentesca (e anche di una parte consistente dei maestri) per sfumare una certa immagine oleografica, che ha radici lontane e persistenti, che insiste sulla presunta “laicità” del sistema universitario, che sarebbe stato frequentato quasi solo da laici.

La grande frequenza con cui le fonti qualificano gli studenti come “poveri” (pauperes) fa intendere che questa categoria fosse molto consistente. Anche in questo caso però non dobbiamo proiettare anacronisticamente nell’età medievale la nostra immagine di povero, in genere associata a una forte indigenza: esisteva certamente lo studente pressoché sprovvisto di mezzi, ma il pauper citato nella documentazione era in massima parte un giovane, talvolta nobile, privo solo momentaneamente dello status giuridico e sociale che richiedeva la sua condizione.

Ho usato spesso il termine “giovane”, ma dobbiamo chiederci se lo studente delle università del medioevo fosse realmente tale. Definire l’età media degli universitari è un’operazione complessa per gli scarsi dati anagrafici a nostra disposizione, è tuttavia possibile gettare qualche luce su questo tema attraverso le fonti ecclesiastiche, che prevedevano limiti di età per accedere ai vari ordini sacri cui ambivano molti studenti, oppure scorrendo gli statuti universitari, che fissavano l’età minima per assumere alcuni incarichi, come il rettorato, o, infine, analizzando l’iconografia universitaria, dove troviamo molti studenti raffigurati spesso come uomini maturi. Mettendo insieme queste e altre indicazioni è possibile individuare intorno ai 14-15 anni l’età media degli studenti che iniziavano a frequentare le lezioni di arti liberali, mentre, per l’avvio dei successivi studi di diritto o di medicina, l’età saliva ai 16-17 anni: se consideriamo la durata degli studi in questi due campi disciplinari, possiamo immaginare nelle università del medioevo una consistente presenza di scolari di 25-30 anni, età da elevare ulteriormente per i teologi. In questo quadro sociale della popolazione studentesca deve essere rilevata una assenza: l’università era un mondo “senza donne”. Queste erano escluse dagli sbocchi professionali offerti dallo Studio (l’insegnamento universitario, la professione del giurista o del medico, la carriera ecclesiastica nel clero secolare, l’esercizio di funzioni di governo o amministrative) e gli stessi dottori giuristi espressero con chiarezza il loro pensiero sull’inopportunità di avviare la donna ai “virili” studi universitari.

Un altro aspetto di grande interesse, ma anch’esso difficile da cogliere pienamente, riguarda l’entità della presenza studentesca e i raggi delle migrazioni degli scolari, cioè il grado di “internazionalizzazione” dello Studio. Per l’età medievale non possediamo purtroppo i registri della matricola generale degli studenti né altre fonti seriali attraverso cui “misurare” l’affluenza studentesca. Le ipotesi che sono state fatte evidenziano una frequenza media molto variabile, dell’ordine, per le università maggiori, di un migliaio di studenti, numero molto lontano da quello delle università che conosciamo oggi ma che rappresenta un gruppo umano in grado comunque di incidere in modo rilevante sulla demografia e sulla società delle città del tempo, che non superavano qualche decina di migliaia di abitanti.

Che relazione esisteva tra città e università?
Fu proprio il “carico umano” di studenti appena citato che rese la posizione della città fortemente ambivalente nei confronti dell’accoglienza di una università tra le sue mura. Gli studenti portavano all’economia cittadina grandi benefici economici: la presenza di potenziali consumatori, in buona parte benestanti, stimolò molti settori professionali urbani, tra cui quelli legati al credito e alla produzione del libro. Grandi vantaggi e poche frizioni crearono i dottori giuristi e i loro colleghi medici, spesso ben integrati nella vita politica locale e reclutati, in forme più o meno strutturate, nelle magistrature urbane e negli apparati di governo principeschi oppure chiamati a dare il loro contributo nella gestione della sanità pubblica. Insieme a questi diretti vantaggi, lo Studio portava alla città anche fama e prestigio, tutti elementi che spinsero le amministrazioni cittadine a fare fronte ai grandi impegni finanziari richiesti per garantire insegnamenti di qualità e mantenere la necessaria stabilità sociale e politica necessaria per il funzionamento delle scuole universitarie. Certo, gli studenti che soggiornavano in città chiedevano di essere adeguatamente ospitati e approvvigionati di generi alimentari; pretendevano inoltre spazi per lo svago e per l’incontro, e per questo fiorirono taverne, biscazzerie e postriboli, questi ultimi necessari per una popolazione esclusivamente maschile.

Uno dei temi maggiormente associato alla storia delle università nel medioevo è quello delle endemiche contrapposizioni sorte nello spazio urbano tra studenti e cittadini, due gruppi sociali con abitudini e visioni di vita molto differenti. Oltre a reati di natura minore, come i furti o gli insulti, gli studenti, nei casi estremi, arrivavano a macchiarsi di reati criminali, che comprendevano la violenza fisica contro la persona; la cittadinanza, dal canto suo, male sopportava i tradizionali privilegi (in modo particolare il privilegio del foro) e le libertà di cui godevano gli universitari, che le autorità cittadine cercarono ripetutamente di limitare. Nella lettura delle forme di relazione che si instaurarono tra Studio e città dobbiamo tuttavia prestare molta attenzione alla natura delle fonti a nostra disposizione, in gran parte costituite da una documentazione che perlopiù registra il fatto eccezionale, cioè il contrasto, lasciando in ombra la quotidiana coesistenza e la pacifica integrazione dell’universitario nel tessuto sociale. La “normalità” la possiamo cogliere nella condivisione dei medesimi spazi urbani, ampiamente occupati dai collegi per studenti e dalle scuole universitarie, dal Quattrocento riunite in sedi stabili sempre più ampie e sontuose, nella partecipazione solenne dei corpi dello Studio ai principali momenti pubblici che scandivano la vita civile e religiosa della città, nella convergenza verso medesimi valori identitari, come il culto dei santi patroni cittadini, dagli studenti affiancato alla venerazione dei “loro” santi patroni, quelli dell’università.

Paolo Rosso insegna Storia medievale presso l’Università di Torino. I suoi ambiti di ricerca riguardano le istituzioni scolastiche e le università nei secoli XII-XV, gli orientamenti culturali e i percorsi di formazione dei ceti intellettuali di ambito laico ed ecclesiastico, la redazione e la circolazione di testi impiegati nei processi di trasmissione di saperi. Su questi temi si segnalano La scuola nel Medioevo. Secoli VI-XV (Roma, Carocci, 2018); Negli stalli del coro. I canonici del capitolo cattedrale di Torino (secc. XI-XV) (Bologna, Il Mulino, 2014); Studio e poteri. Università, istituzioni e cultura a Vercelli fra XIII e XIV secolo (Torino, Zamorani, 2010).

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