
Nonostante il primo Capo di Stato maggiore dell’esercito dell’Italia liberata fosse Raffaele Cadorna, figlio di Luigi e nipote del Raffaele della breccia di Porta Pia, comandante militare del Clnai che si comportò eroicamente durante il biennio di guerra civile, sin da subito dall’interno dell’esercito emerse la convinzione che non sarebbe stato facile ottenere lo stesso peso decisionale che i militari avevano durante l’Italia liberale e quella fascista. Oramai i militari di carriera si trovavano di fronte a una situazione del tutto nuova, con la più totale assenza di preparazione al gioco democratico del controllo parlamentare, del primato delle autorità civili su quelle militari e del doveroso passaggio delle loro norme interne ai valori repubblicani. Almeno fino all’inizio delle discussioni dell’Italia nella Nato le alte gerarchie militari si limitarono a rimanere “nelle caserme” senza entrare più di tanto nelle questioni politiche, fatta eccezione per gli interventi di ordine pubblico che gli alti comandi cercarono sempre di evitare in quanto li consideravano compito precipuo di polizia e carabinieri.
Che rapporto si sviluppò tra la classe politica antifascista e il mondo militare?
Almeno inizialmente il rapporto tra la classe politica antifascista e il mondo militare fu un rapporto di reciproca sfiducia. Non potevano essere dimenticate facilmente le guerre fallimentari del fascismo e l’acquiescenza di generali e ammiragli che, seguendo l’esempio del loro comandante in capo Vittorio Emanuele III, avevano accettato senza batter ciglio l’instaurazione del regime. Pur non riuscendo a fascistizzare le forze armate era innegabile che il ventennio mussoliniano aveva consentito un autogoverno e la tradizionale dicotomia tra il mondo civile e quello militare si era allargata. Difficile quindi immaginare che la maggior parte dei politici, a guerra finita, potesse avere un’opinione positiva delle forze armate tenendo conto che molti loro avevano combattuto in guerra e avevano sperimentato da vicino l’inadeguatezza di una guerra preparata male e combattuta peggio.
Tale sfiducia emerse in maniera evidente nelle settimane precedenti al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 quando in seno al governo De Gasperi emersero diverse voci altamente preoccupate dell’atteggiamento delle forze armate. Forze armate che erano chiaramente vincolate al giuramento reale e che si temeva, in caso di vittoria repubblicana, potessero essere una sorta di “guardia pretoriana” di casa Savoia. In realtà le carte di polizia mostrano quanto i presunti complotti monarchici non trovarono nessuna eco nelle caserme anche per l’energica vigilanza del ministro della guerra Manlio Brosio, un liberale convintamente repubblicano che aveva fatto la Resistenza occupandosi proprio dei rapporti del Cln con il Fronte militare clandestino del colonnello Cordero di Montezemolo. Il timore maggiore si ebbe per le reazioni della marina che era considerata la forza armata più vicina al re tanto che il Capo di stato maggiore e ministro competente, l’ammiraglio Raffaele De Courten, divenne l’oggetto delle preoccupazioni delle sinistre. Nenni e Togliatti credevano che dal suo punto di osservazione l’ammiraglio potesse tramare assieme a Umberto II e al suo entourage approfittando della situazione creata dalla richiesta del sovrano di una corretta lettura dei risultati della consultazione referendaria contestando l’idea che si potesse assegnare la vittoria della Repubblica sulla base dei voti validi e non sugli elettori votanti. Non vi furono momenti di tensione al momento della partenza del “Re di Maggio” e furono pochi gli ufficiali che abbandonarono il servizio attivo per non dover prestare un nuovo giuramento. Anche durante i giorni successivi all’attentato a Togliatti, nel luglio 1948, di fronte all’attivismo e alle preoccupazioni del ministro dell’interno Mario Scelba che avrebbe voluto l’utilizzo di mezzi draconiani, gli alti comandi dell’esercito incaricati di fronteggiare i disordini assunsero un atteggiamento più moderato. Pur riconoscendo la pericolosità dei disordini perpetrati dai comunisti non considerarono le violenze come effetto di un piano preordinato a Mosca per la conquista del potere e ribadirono la richiesta di esentare i militari dai compiti di ordine pubblico, i tempi di Bava Beccaris che sparava sulla folla invocando pane e libertà erano oramai definitivamente alle spalle. Un aspetto che non mutò tra l’epoca liberalfascista e quella repubblicana fu quella di un sostanziale autogoverno delle forze armate in quanto, con l’eccezione di Randolfo Pacciardi, i ministri della difesa che si alternarono nel dicastero di via Venti settembre non furono particolarmente avvezzi alle tematiche militari lasciando quindi un discreto spazio di manovra ai rispettivi Capi di stato maggiore.
In che modo il cammino per l’inserimento dell’Italia nella Nato fece emergere un rinnovato ruolo degli alti ufficiali dell’esercito?
L’estate del 1948 fu caratterizzata dai primi colloqui che si svilupparono in seno al governo De Gasperi sull’opportunità di partecipare alla costituenda Alleanza occidentale. In un giro d’orizzonte che il Presidente del consiglio organizzò con diplomatici, funzionari del ministero degli esteri e il capo di Stato maggiore della difesa, il generale Trezzani, emerse una sostanziale unanimità sulla scelta occidentale del Paese. Proprio Trezzani espose un punto di vista abbastanza eterodosso rispetto alla maggioranza: secondo il suo punto di vista la soluzione migliore per l’Italia sarebbe stata quella di una “neutralità armata”. Tale idea nasceva dalla convinzione che, in virtù delle condizioni economiche e militari del paese, sarebbe stato auspicabile per l’Italia non aderire al blocco occidentale, con la garanzia di avere un’assistenza militare esclusiva statunitense. Il parere di Trezzani rispecchiava la grande fiducia – mista a una grande ingenuità – che le gerarchie militari nutrivano per l’aiuto americano, un punto di vista che si era sedimentato negli anni dopo un iniziale scetticismo verso la reale volontà degli alleati di voler davvero contribuire alla ricostruzione delle forze armate italiane. De Gasperi invece sin da subito comprese infatti quanto la Guerra Fredda avesse cambiato radicalmente le relazioni internazionali tra i diversi paesi, Non era più tempo di esitazioni o di scorciatoie. L’impresa non fu facile considerando quanto anche all’interno della Democrazia cristiana non vi era un’unanimità di vedute, nella sinistra del partito non mancavano voci che avrebbero preferito una neutralità del paese e un utilizzo delle risorse spese per il riarmo verso il processo di ricostruzione. In questo difficile frangente furono proprio tre missioni che videro protagonisti due alti ufficiali che modificarono sensibilmente la situazione. La prima vide protagonista l’ammiraglio Franco Maugeri, capo di Stato maggiore della marina, che in un “abboccamento” con il generale Georges Revers, massimo responsabile dell’esercito francese, ottenne una dichiarazione importante da parte del militare francese: era impensabile un’alleanza difensiva senza il contributo italiano. La seconda del Capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Efisio Marras, con il comandante delle forze americane in Europa, il generale Lucius Clay nel quale il militare italiano, chiaramente su indicazione governativa, espresse la volontà italiana di partecipare a un’alleanza con gli Stati Uniti ma evidenziando come vi fosse un effettivo bisogno di un riammodernamento degli armamenti in quanto, allo stato attuale, non si poteva garantire nemmeno la tenuta del confine orientale presidiato dalla nuova Armata popolare jugoslava. Gli alti comandi militari, così come la maggior parte dei diplomatici, intensificarono gli allarmi sull’eccessivo procrastinare di una scelta che avrebbe potuto indispettire gli americani. Fu infine la missione americana di Marras del dicembre 1948, chiamato negli Usa ai fini di un chiarimento su tutti gli aspetti della cooperazione militare tra i due paesi, a smuovere la situazione. Le istruzioni governative ricevute da Marras furono molto chiare: da una parte si metteva nuovamente l’accento sulla debolezza militare italiana e dall’altra si auspicava un’assistenza anche nel caso, non auspicabile, di un’Italia fuori dal Patto atlantico. I colloqui segnarono la fine di qualsiasi illusione su un’assistenza esclusiva degli Usa che invece chiesero un chiaro pronunciamento da parte italiana di una scelta occidentale, senza più infingimenti. E la scelta definitiva voluta da De Gasperi, di un’Italia convinta aderente e tra i soci fondatori della Nato, arrivò quindi anche per un contributo decisivo dei militari. Cosa non scontata osservando l’Italia dell’aprile 1945.
Andrea Argenio è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di scienze politiche dell’università di Roma Tre e insegna storia contemporanea presso l’Istituto di alti studi SSML Carlo Bo di Roma. Fa parte del comitato di redazione di “Mondo contemporaneo”. Le sue ricerche riguardano la storia politica dell’Italia contemporanea e i rapporti italo francesi nel secondo dopoguerra con un’attenzione alla cultura di massa.