
In generale, direi che la critica ha un compito sociale di accertamento e di verifica al servizio del miglioramento della società; senza una simile prospettiva utopica la critica langue, come è confermato dalla crisi odierna.
È possibile identificare in quel che dice la critica qualcosa di “oggettivo” oppure predomina il punto di vista?
La discussione tra l’“oggettivo” e il “soggettivo” è una vecchia querelle irrisolta e forse irrisolvibile. Possiamo immaginare un dialogo in cui l’autore dice al lettore: senza di me non esisteresti, io sono la tua condizione e non puoi trattarmi a tuo piacere; e il lettore risponde: ma senza di me il tuo testo è come se non esistesse, tu non puoi essere qui presente a controllarmi… In queste situazioni, come dire, tra l’uovo e la gallina, bisogna trovare la soluzione nel mezzo… Nel caso di oggettività vs. soggettività, è da evitare da una parte il sogno di una oggettività irrefutabile di tipo scientifico che si è sempre rivelato illusorio perché non c’è metodo che possa spiegare tutto in via definitiva (e poi vorrebbe dire la fine della critica e dell’interpretazione); dall’altra parte, l’idea che il lettore sia autorizzato a dire la sua senza freni (un po’ come avviene oggi nella rete internet con la rissa dei giudizi), perché anche in quel caso la critica finisce e non si è più in grado di confrontare le interpretazioni.
La via di mezzo può essere trovata nel rispetto del testo: non si può fargli dire quello che si vuole. Per esempio: non si può sostenere che, in “Sempre caro mi fu”, “caro” significhi che Leopardi pagava un prezzo piuttosto salato per accedere alla siepe e naufragare nell’infinito. Non ci sono prove a favore di questo significato, almeno finché non si troveranno tracce di una biglietteria ottocentesca nei luoghi leopardiani di Recanati. Ma inversamente, nemmeno ci si può attestare su “quello che voleva dire” l’autore, perché non sempre gli autori hanno lasciato indicazioni in proposito (ci sono casi in cui non sappiamo nemmeno chi sia l’autore); per altro, talvolta, l’autore interrogato risponde che quel che voleva dire è esattamente quello che ha detto… Poiché noi leggiamo sempre a partire dalle nostre esigenze e dalla nostra epoca, un quanto di attualizzazione c’è sempre in ogni interpretazione. Riportare i testi all’epoca in cui furono scritti è essenziale (e fa parte di quel rispetto di cui sopra), ma è anche vero che i testi vivono nel tempo e nei casi migliori sono proprio scritti per i lettori di un tempo futuro che devono ancora nascere.
Personalmente, credo in una “oggettività relativa” connessa all’agire strategico. Così come c’è una strategia del testo (che attraverso le sue rappresentazioni, le sue immagini, il suo linguaggio vuole dimostrare sempre qualcosa) altrettanto c’è una strategia del critico che procede alla sua analisi mosso da una precisa posizione o istanza politico-culturale. Ora, nell’agire strategico (per esempio in un gioco di scacchi o di carte, ecc.) tutto sta nell’indovinare la situazione, cioè si scommette su di una certa oggettività, senza averne la certezza assoluta. La differenza, per la critica, è che non c’è mai la verifica della vittoria o della sconfitta: anche un giudizio critico che oggi può apparire sballato potrebbe essere rivalutato nel corso del tempo e trovare le condizioni per ispirare nuovi percorsi.
Quando e come si sviluppa la critica moderna?
In senso lato la critica moderna sorge con la nascita del pubblico, quindi con l’allargamento della lettura. A quel punto, la critica non può più porsi soltanto prima dell’opera (con la forma-trattato e la poetica prescrittiva) né dopo l’opera (con il commento e la curatela), ma deve muoversi a latere della produzione letteraria. Strumento fondamentale saranno le riviste che ospiteranno insieme i testi e la critica, seguendo passo passo l’evolversi delle tendenze. Nasce quella che noi chiamiamo la critica militante, quasi simultanea all’uscita dei testi; e ‒ man mano che decadono i parametri universali della perfezione ‒ comincia la disputa sui criteri e il problema del gusto, dove il critico rivendica una facoltà percettiva più acuta.
Il punto più avanzato di questa evoluzione si ha nel secondo Novecento, quando si arriva al dibattito sul metodo e con esso la critica prende coscienza del proprio stretto legame con le concezioni del mondo e le grandi interpretazioni della storia e dell’uomo. Nella parte conclusiva del secolo, in corrispondenza con un generale ripiegamento delle spinte rinnovatrici e con il trionfo della logica di mercato, la ricchezza di quel dibattito si perde e si assiste a una sostanziale emarginazione della critica. Se il problema è come vendere la letteratura è chiaro che la critica non serve, la sua ricerca attenta, anche quando arrivasse a verdetti graditi, sarebbe comunque una perdita di tempo. È evidente che serve piuttosto la pubblicità.
Quale evoluzione hanno avuto le teorie della critica letteraria?
La critica letteraria è senza dubbio una pratica. E la si può praticare, come dire, intuitivamente, così come si può suonare uno strumento musicale “a orecchio”. Ed è chiaro che, anche quando aderisce a un metodo, ogni critico ha il suo timbro personale, il suo stile, difficile da imitare: possiamo dedurne degli “strumenti” critici, delle indicazioni di massima, delle parole d’ordine, ma dovremo poi sempre riamalgamarle nel nostro personale impasto. Tuttavia, fin dall’inizio ci sono stati tentativi di autocoscienza, come le poetiche dei poeti così le teorie della critica (tale potremmo considerare già la Poetica di Aristotele). In particolare nell’ultimo periodo: lavorando al libro, che si intitola appunto Le teorie della critica letteraria, mi sono reso conto che nelle sue parti più recenti l’indice degli autori finiva per corrispondere con quello di un manuale di storia della filosofia. Tra l’estetica e la teoria della letteratura c’è infatti una linea di separazione molto sottile.
Direi che l’espansione della teoria è inversamente proporzionale a quella del senso comune. Nei periodi di rinnovamento (intendo “rinnovamento” autentico e profondo, non quello superficiale delle mode) si mette in mora il senso comune: ma, proprio perché vengono meno i parametri ereditati e in qualche modo istintivi, è necessario spiegarsi con adeguate argomentazioni. Quando invece il senso comune torna in auge, la teoria arretra: il senso comune, infatti, non ha bisogno di spiegarsi, perché coincide con quello che tutti pensano senza porsi il problema del perché.
Quali sono state le grandi tendenze metodologiche del Novecento?
Ritorno a quella fase di grande sviluppo delle teorie e alle tre tendenze principali: strutturalismo, marxismo, psicoanalisi. A ben guardare, negli anni Sessanta-Settanta i tre metodi si sono spartiti precisamente i tre ambiti di pertinenza della critica, cioè l’autore, il testo e la società. In qualche modo ciascun metodo aveva quello che mancava agli altri: lo strutturalismo andava sull’analisi del testo e sul linguaggio, ma gli mancava la storia; il marxismo puntava sulla storia sociale, ma gli mancava l’analisi del testo; la psicoanalisi privilegiava l’autore, ma faticava un poco sull’analisi del linguaggio e molto sul versante storico-politico. Assai interessanti saranno perciò le sovrapposizioni: Althusser (marxismo+strutturalismo), Lacan (psicoanalisi+strutturalismo), della Volpe (marxismo+strutturalismo), Orlando (psicoanalisi+strutturalismo), Sanguineti (marxismo+psicoanalisi). È importante notare che tutti e tre i metodi venivano da fuori dell’ambito strettamente letterario (dalla linguistica, dalla cura delle malattie mentali, dall’economia e dalla politica) e questo ha consentito i vantaggi dello straniamento. Vale a dire che si è potuta vedere la letteratura da una prospettiva nuova che portava a una riconfigurazione del campo. Insomma, si è data la possibilità di una “rivoluzione copernicana” rispetto al modo di osservare i fatti letterari come dipendenti da fattori intrinseci (ad esempio il valore estetico, separato da altre considerazioni). Ciò equivale a dire che il critico migliore è quello che abita la letteratura con un piede dentro e uno fuori.
Ma torniamo agli sviluppi. Successivamente, negli Ottanta-Novanta, le direzioni che si sono affermate, ermeneutica e decostruzionismo, hanno costituito un ripiegamento: l’ermeneutica ritornava al senso comune, escludeva il metodo e proponeva essenzialmente il valore del classico garantito dalla tradizione (senza considerare che la tradizione è sempre plurale e c’è una lotta per la sopravvivenza che attraversa anche i classici); la decostruzione insisteva, sì, sul terreno dell’analisi testuale, ma andando ogni volta a trovare l’incertezza del significato cadeva in un esercizio di bravura alla fine monotono (il significato era sempre zero: ogni visione si trasformava in cecità), per cui l’analisi finiva per essere una fatica sprecata e la critica diventava critica della critica della critica all’infinito, finendo in una impasse.
A mio parere le tre metodologie precedenti sono tuttora indispensabili. Si veda il caso di Jameson che le ha riprese tutte e tre come livelli progressivi di analisi (un po’ come i sensi dell’allegoria medievale): prima il livello linguistico, poi quello psicoanalitico e poi il piano più largo, la “storia dei modi di produzione”. Jameson ha parlato di inconscio politico. E io credo che la cosa più urgente oggi sia attrezzarsi con adeguati strumenti per una critica dell’immaginario collettivo.
Quali effetti ha prodotto la psicoanalisi applicata alla letteratura?
In specifico, la psicoanalisi ha costeggiato in più punti produttivamente la critica letteraria: l’analisi dei sogni, con la ricerca di un “contenuto latente” poteva insegnare qualcosa alla critica dei testi oscuri e difficili e proprio su come possa essere importante occuparsi di espressioni apparentemente insignificanti; poi ha insegnato l’attenzione ai particolari, ai dettagli (Freud diceva “i rimasugli dell’interpretazione”); e infine ha dimostrato che il senso va cercato proprio là in cui sembrerebbe non essere, insomma ha suggerito al critico di muoversi in modo sempre sorprendente, spiazzante, eccentrico.
Il lato meno interessante della critica psicoanalitica, a mio avviso, è la tendenza ad occuparsi principalmente della psiche dell’autore, rivolgendosi in gran parte alla biografia, con una confusione poco rigorosa dei dati personali (desunti da diari, epistolari e quant’altro) con gli elementi finzionali delle opere, specialmente identificando autore e protagonista (Zeno con Svevo, ad esempio). In molti casi, l’applicazione della psicoanalisi ha spinto a fare una critica genetica, cioè interessata a capire la fonte, l’origine dell’opera d’arte ‒ in questo cade assai spesso anche il grosso della critica marxista, quando si sforza di riportare il testo alle condizioni storico-sociali determinanti per la sua nascita.
Personalmente, nutro un certo disinteresse per i motivi che hanno portato l’autore a scrivere un testo in questo o quel modo. Mi sembra molto più importante capire gli effetti che si sono prodotti da quelle premesse. È inutile tornare a monte, io dico, le condizioni di partenza non si possono mutare (è inutile diagnosticare nevrosi agli autori e non è neanche del tutto psicoanaliticamente corretto, mancando il setting); piuttosto il compito della critica è valutare la funzionalità del testo qui-e-ora. Mi interessa di più quando viene fatta la psicoanalisi dei lettori.
Quali sono le più recenti tendenze legate all’informatica e alle neuroscienze?
Nel preparare l’aggiornamento della terza edizione del mio libro, mi sono dovuto interrogare sulle tendenze più recenti. Soprattutto mi hanno dato da pensare le ricerche ispirate alle neuroscienze e alle scienze cognitive, che si stanno diffondendo anche in Italia su input ancora una volta proveniente dall’America. Si possono chiaramente interpretare come una reazione al decostruzionismo e allo scetticismo riguardo al raggiungimento del significato; di contro, grazie agli apporti scientifici, ci si prova a ragionare sui processi mentali connessi ai testi letterari. C’è anche, forse, una sfumatura di troppo di neopositivismo. Però mi pare che sia ancora presto per posizionarsi pro o contro, si tratta di aspettare per capire bene dove andrà a parare questo tipo di studi.
Il contributo principale mi pare, per quanto riesco a vedere al momento, che sia da trovare non tanto nel discorso sull’empatia che in fondo significa semplicemente l’immedesimazione nella narrativa, qualcosa di abbastanza banale e di scarsamente critico, perché anche ammesso che la narrativa faccia provare empatia (cosa che si configura in modo diverso nella narrativa seria e in quella umoristica, per dire), bisogna poi capire come viene sfruttata la partecipazione del lettore, con chi si empatizza, cosa porta a dimostrare e così via. Le direzioni più interessanti sono, a mio parere, quelle che riguardano gli attrattori e l’incorporazione. Nel caso degli attrattori si cerca di capire quali siano i “punti di attrazione” che catturano la nostra attenzione in una immagine o in un testo. Naturalmente questa indagine può portare semplicemente a riconoscere una tecnica per prendere il lettore, cioè vista dalla parte del mercato; diversamente, invece, sarebbe se dall’individuazione degli attrattori si passasse a i contenuti profondi che quei “ganci” contribuiscono a trasmettere. Allo stesso modo, riguardo all’incorporazione, non è sufficiente dire che l’incorporazione c’è, ma è essenziale valutare che cosa si incorpora. Torniamo alla funzione “dietetica” della critica, che non può fermarsi alla superficie del piacere, ma deve formulare una diagnosi sull’assimilazione, un po’ come farebbe, nel suo campo, un nutrizionista.
Insomma, la critica letteraria non ha una valenza soltanto settoriale, non deve soltanto puntare a governare il suo campo specifico, ma attraverso di esso deve fungere da allenamento per una facoltà più ampia, senza la quale il cittadino non è adeguatamente fornito: la capacità critica, la criticità. Non ci si può lamentare dell’incapacità di seguire argomentazioni articolate e dell’abbandono alla forza mitica degli slogan, dopo aver lasciato per anni il pubblico in balia di valutazioni critiche (in realtà ben poco critiche) basate sull’emozione, sull’istinto del momento, sulla piacevolezza superficiale e su presunte creatività, in realtà banalissime.
Francesco Muzzioli è docente di Critica letteraria presso l’Università “Sapienza” di Roma. Si è occupato prevalentemente del dibattito metodologico e delle scritture novecentesche sperimentali e d’avanguardia. Sue ultime pubblicazioni sono, oltre alla terza edizione delle Teorie della critica letteraria (Carocci): Mario Lunetta, la scrittura all’opposizione (Odradek), Un colpo di pistola nel concerto (Odradek), L’allegoria (Lithos).