“Le strategie del riconoscimento nel vangelo di Giovanni. Percorsi di un topos letterario” di Gilberto Marconi

Prof. Gilberto Marconi, Lei è autore del libro Le strategie del riconoscimento nel vangelo di Giovanni. Percorsi di un topos letterario edito da Carocci: in che modo l’agnizione costituisce un topos letterario?
Le strategie del riconoscimento nel vangelo di Giovanni. Percorsi di un topos letterario, Gilberto MarconiIl topos è una categoria accreditata dall’uso, ciò che in letteratura più comunemente si chiama genere o forma. Avrei potuto chiamarlo genere letterario o forma letteraria. L’uso è stato costante nella letteratura, sebbene sia maggiormente studiato nelle lettere classiche greche e latine. Per spiegarne l’uso e l’evoluzione ho iniziato il percorso non dall’inizio narrativo ma da quello teorico, da Aristotele che nei cc.11 e 16 della Poetica definisce l’identità dell’agnizione (“passaggio dall’ignoranza alla conoscenza … accompagnato dal rovesciamento”) e le categorie messe in discussione, almeno in parte, dall’inserzione del lettore come personaggio del racconto (cfr. U.Eco). L’approccio sui testi poetici e narrativi è stato successivo, iniziato dall’Odissea si è accostato ad alcune tragedie della grecità classica per approdare al quarto vangelo: ne ho mostrato la sostanziale continuità non senza evidenziarne gli scatti innovativi che in alcuni casi pertengono ai singoli scritti in altri sono dovuti alla specificità degli argomenti: le forme non sono rigide, lo sono diventate nelle schematizzazioni dei retori e dei linguisti che le hanno fatte diventare non infrequentemente gabbie per costringere la carne viva del testo anziché servire alla sua intelligenza. Il terreno che accomuna tutti i testi di natura agnitiva è costituito dalla relazione strettamente personale, in genere di natura dialogica, istaurata tra i personaggi in scena; il pianto in alcune occasioni sancisce il riconoscimento avvenuto, in altre è l’espressione del dolore di cui il riconoscimento si nutre. L’assenza è il primo carattere vero e proprio di un racconto di agnizione. Perdita che si esprime come sottrazione per lo più di una persona. La presa d’atto di un’assenza crea sofferenza e disagio: nel dolore affonda le radici l’agnizione. La sofferenza si colloca alla base del percorso, mette in moto la cerca che poi, attraverso le prove, le testimonianze, i ricordi, le intuizioni e quant’altro addiviene al riconoscimento.

Nella tradizione precedente al Nuovo Testamento il dolore è generato spesso dalla sveglia posta alla memoria: Odisseo al sentir cantare le gesta degli Achei a Troia piange, come Enea a Cartagine, nel tempio di Giunone ove vede rappresentate le vicende della stessa guerra. Il ricordo muove le lacrime. Altre volte il processo di riconoscimento inizia come reazione istintiva a qualche movimento interiore che solo a posteriori prende forma nella coscienza, un’azione inconscia della memoria verso qualcosa di sepolto dentro di noi, a volte di ancestrale, altre volte dall’infanzia, o pure da poco vissuto ma depositato nel proprio passato che torna a galla dopo che l’evento e/o la persona che l’ha provocato se ne è andata: Nestore, Telemaco, i due di Emmaus… Al dolore non sempre, ma nemmeno infrequentemente, consegue la cerca. La distinzione tra chi cerca e chi è cercato dovrebbe essere palese. Spesso lo è. A volte però i due ruoli sono assunti dallo stesso personaggio che si sdoppia. Il caso di Edipo è emblematico, soggetto e oggetto della conoscenza: è stato medicina quando s’è trattato di curare la città dalla sfinge; è stato malattia quando ha inteso fare giustizia. Invece – è qui la tragedia – è marito e figlio della stessa donna, giudice e criminale. Il processo agnitivo si pone a partire da questa situazione doppia, dal rifiuto dello specchio offertogli da Tiresia. Di questa doppiezza di ruoli sarà vittima pure Maddalena che invece accetterà lo specchio offertole dal Nazareno. Nel riconoscimento di entrambi i casi, di Maddalena come di Edipo, non potrà non essere sottolineata la reciprocità dei soggetti sulla scena. Nel passo della Maddalena il redattore giovanneo farà dire a chi è cercato il nome di chi cerca, con una palese quanto apparente confusione di ruoli per indicare pure la reciproca perdita assieme al reciproco riconoscimento. Lo stesso avviene per Edipo che mentre da giudice sovrano cerca il colpevole dell’uccisione di Laio scopre di essere lui stesso il regicida. Ulteriore motivo presente nelle scene di riconoscimento è il travestimento, un mascheramento per cui chi cerca non riconosce chi è cercato, sebbene l’abbia dinanzi. Giocasta non riconosce Edipo, né il figlio riconosce la madre; Penelope non riconosce il proprio sposo; Telemaco non riconosce il padre; Eumeo non riconosce il padrone. Il travestimento è così importante da andare ben oltre le persone per investire i luoghi: Atena sparge la nebbia su Itaca perché Odisseo non la riconosca. Odisseo prima non riconosce la propria patria e poi non si fa riconoscere da quelli della propria famiglia. Il protagonista subisce in anticipo quanto destina agli altri. In questi, come in altri casi, il riconoscimento mancato accentua lo stupore nel momento del riconoscimento. Al mascheramento segue la rivelazione della propria identità, per lo più attraverso il nome, di colui che viene cercato riferito a chi lo cerca. Giuseppe nella narrazione biblica si rivela ai fratelli dicendo chi è, Ulisse al figlio e a Penelope rivela chi realmente è, Oreste a Elettra rivela di essere il fratello creduto morto. Nei passi riferiti l’agnizione avviene dopo la rivelazione degli stessi personaggi che devono essere riconosciuti: che tale svelamento avvenga direttamente attraverso la rivelazione del proprio nome o con altri segni cambia nulla dal punto di vista del soggetto agente. La rivelazione della propria identità non infrequentemente trova ostacoli in chi cerca, e allora chi si rivela abbisogna di addurre prove, necessarie in altre occasioni a chi cerca per dare il nome giusto al ricercato. La prova è dunque un elemento essenziale al riconoscimento. Se l’agnizione non si dà senza i segni, questi sono ambigui o falsi già in partenza, cioè costruiti ad arte: la tunica di Giuseppe dai fratelli è stata macchiata del sangue di un capro per ingannare Giacobbe facendogli credere che il figlio prediletto sia morto; la tunica di Giuseppe nella fuga lasciata in mano della moglie di Potifar è servita a questa per ingannare il marito e accusare Giuseppe di averle fatta violenza. Le vesti di Giuseppe sembrano fatte apposta per ingannare. Altra prova ingannevole è il pelo posticcio di Giacobbe messosi addosso per ingannare il padre e fargli credere che sia Esau al fine di estorcerne la benedizione. Riconoscere l’ambiguità del segno rischia di essere ugualmente riduttivo: può essere falso o essere riconosciuto e far passare dall’ignoranza alla conoscenza; ma può dire pure di più. Nell’ultimo esempio suindicato Isacco crede di vedere con le mani quanto non riesce con gli occhi. Ma le mani lo ingannano. Ciò non sarebbe accaduto se avesse potuto vedere con gli occhi. Tuttavia, nonostante la cecità non abbia permesso a Isacco di riconoscere Esaù, anzi glielo ha fatto scambiare per Giacobbe, come non avrebbe voluto, gli ha permesso di accedere a un livello decisamente altro rispetto alle scelte basate su criteri puramente umani, quali la consuetudine della primogenitura e la preferenza della cacciagione; a un livello più elevato che agli occhi sarebbe sfuggito, quale appunto la realizzazione del progetto divino. Le ambiguità non finiscono mai e il segno le attraversa tutte. Infatti Giacobbe che inganna verrà a sua volta ingannato dallo zio Labano che gli fa passare la prima notte di matrimonio assieme a Lia, la figlia maggiore, anziché a Rachele che lui ama. Se ne accorgerà la mattina dopo. Naturalmente pure Labano verrà abbondantemente ripagato nell’inganno, sia dal nipote col bestiame pezzato, sia dalla figlia col furto degli idoli, complice pure in questo caso Giacobbe.

Come si struttura la cornice agnitiva del quarto vangelo?
Lei mi costringe a chiarire il significato delle parole che uso e che mi sembra non rispondano perfettamente al significato che Lei attribuisce alle Sue. Per “struttura” io intendo un processo sincronico, mentre l’agnizione, in quanto forma letteraria, pertiene alla diacronia. Provo a rispondere dando al termine “struttura” il significato di organizzazione esterna del dettato evangelico. È stata mia intenzione mostrare come l’intera narrazione giovannea miri a far conoscere il Nazareno attraverso caratteri propri del genere agnitivo. Dovendo limitare lo studio in un numero contenuto di cartelle ho preferito mostrare anzitutto come l’inizio e la fine dell’attività pubblica del Nazareno nella redazione giovannea si richiamino tramite altrettanti racconti di riconoscimento a loro volta preceduti da brevi scene di agnizione, del Battista (1,19-39) e dell’intiero gruppo dei discepoli (20,19-21). In entrambe le narrazioni un terzo personaggio comunica l’incontro con Gesù al protagonista che risponde con scetticismo, segue l’incontro personale tra il personaggio e il Nazareno che gli si rivela con un segno grazie al quale scaturisce il riconoscimento del Cristo e la conseguente confessione messianica. In queste due scene di confine i cui attori principali sono Natanaele e Tommaso, si giocano pure i rapporti tra vedere e credere, tra presente e futuro, tra individuale e universale. Le scene iniziano e si sviluppano come un rapporto individuale tra il protagonista e Gesù coinvolti nella loro situazione presente; il maestro però conclude la relazione rivolgendosi, in entrambi i casi, a un plurale e al futuro coinvolgendo pure altre persone per l’avvenire.

Quali sono i principali episodi agnitivi nel vangelo di Giovanni e quale ne è il valore teologico oltre che formale?
L’episodio in cui maggiormente risaltano i caratteri dell’agnizione così come sono stati delineati credo sia allocato alla fine dell’attività pubblica del Nazareno, nel racconto della Maddalena. Pur conoscendo le tradizioni dei sinottici nei quali si narra che alcune donne vanno al sepolcro, il redattore del quarto vangelo lascia andare solo Maria di Magdala e lei da sola lo incontra senza riconoscerlo (il mascheramento pertiene all’agnizione) né lui fornisce alcuna prova di sé stesso, ma la chiama per nome: cioè non dice chi è lui che ma chi è lei che lo sta cercando. Non solo, ma una volta che lei lo ha riconosciuto lui le chiede di non trattenerlo perché deve andare. Non è comune che colui che venga cercato dica non la propria identità ma quella di colui che lo cerca. Maddalena si riconosce nel nome chiamato dall’uomo e finalmente riconosce chi l’ha chiamata; quell’uomo che aveva dinanzi e che fino a quel momento aveva creduto fosse il giardiniere. Quando Tiresia dice a Edipo chi è veramente – lo dice per l’insistenza dello stesso Edipo che lo accusa di essere il mandante dell’omicidio di Laio – non lo riconosce come veggente tanto meno si riconosce in quel che gli dice. Le situazioni sono diverse, però sia la Magdalena che Edipo sono stati coloro che hanno avviato la cerca, lei materialmente andando al sepolcro, lui attraverso l’indagine condotta con la parola. Entrambi cercano una persona: la donna cerca il corpo della persona amata, Edito l’omicida di Laio. La posizione di partenza dei due diverge non poco: Edipo è re, colui che dovrà emettere una sentenza, Magdalena è una donna, per lo più vicina a un criminale condannato a morte. Alla fine della cerca lei troverà la persona cercata in chi prima le ha fatto riconoscere se stessa, lui nella stessa sua persona. Entrambi i cercatori alla conclusione del proprio percorso, arrivano a sé stessi. Però mentre Magdalena giunge subito al traguardo, come se avesse un percorso più breve Edipo prima di giungere alla bandiera a scacchi ha una tappa intermedia costituita dal gran premio della montagna troppo impegnativo rispetto alle sue forze, Tant’è che, mentre la Magdalena riconosce subito se stessa e l’altro che l’ha chiamata per nome, Edipo non riconosce né se se stesso per quel che realmente è in ragione di quel che sta cercando (l’assassino di Laio), né le facoltà oracolari di Tiresia che l’aveva accusato di essere lui l’assassino del padre e ora s’era sposato la madre. Perché questa differenza? Donde nasce questa diversità di reazione? Come si giustifica? Solo dallo stato di partenza dei due? Edipo è re e giudice e come tale non può riconoscersi regicida: sarà disposto a riconoscere la propria colpa – in realtà nelle azioni di Edipo non c’è colpa, né preterintenzione, tanto meno dolo – solo dopo aver avuto le prove esterne dal messaggero di Argo e dal vecchio pastore, unico superstite dell’incidente avvenuto al trivio della Focide. Allora si toglierà la vista e sarà solo e ramingo. La cecità dunque è la conseguenza, non la causa del riconoscimento. Pertanto fare appello al motto paolino «se qualcuno di voi si crede sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente»(1Cor. 3,18) è fuori luogo. Nel caso di Edipo la causa va cercata altrove, in un contesto ben diverso da quello che potrebbe sembrare una istanza proto cristiana. Il riconoscimento delle eventuali colpe e dunque della propria identità, non può che precedere la pena che Edipo s’infligge, ed esattamente questo momento è strettamente collegato all’acquisizione delle prove esterne della sua colpevolezza, (il sostantivo è improprio). Il messaggero aveva recato le notizie da Argo secondo cui, morto il re, Edipo era stato chiamato per essere eletto re di Corinto, benché non fosse il figlio naturale del defunto, ma solo adottivo. Il vecchio pastore, unico superstite della morte di Laio, era stato il destinatario pure di un compito gravoso affidatogli dal re di Tebe molti anni prima: doveva esporre il figlio del re alle intemperie della natura perché morisse. Non ebbe cuore. Consegnò invece il pargolo con i malleoli forati al re e alla regina di Corinto che lo allevarono come un figlio. Da questi due resoconti Edipo trae le prove esterne che lo condurranno alla deduzione della sua colpevolezza. Edipo compie da solo, unicamente con l’ausilio del proprio ragionamento, il tragitto che lo conduce all’agnizione. Le prove sono esterne, meramente funzionali a un percorso logico razionale. Per Magdalena, invece, oltre ad essere più breve, il tragitto è condotto assieme all’altro che le si pone dinanzi come uno specchio nel quale lei riconosce sé stessa: l’altro è parte di sé, l’alterità pertiene alla sua stessa identità. Il suo riconoscimento è il risultato di un atto d’amore, quello di Edipo è frutto della ragione. Edipo è passato a Delfi per arrivare dentro di sé; Magdalena è transitata per Nazaret. Nel quarto vangelo la deduzione viene sostituita dalla riflessione. Attraverso le prove Edipo realizza, secondo l’ideale delfico («conosci te stesso»), una conoscenza solipsistica e autoreferenziale pagata cara, il redattore giovanneo invece, attraverso una conoscenza mediata da un altro, indica il primato dell’amore rispetto a una forma di onanismo esistenziale. Provo a tradurre il messaggio della Maddalena: in una relazione affettiva stretta non si perde solo uno; il riconoscimento di sé precede quello dell’altro; il riconoscimento di sé passa attraverso l’altro il quale fa da specchio: senza l’altro non si vede il proprio volto (l’altro non mi completa, mi fa esistere); l’alterità resta tale, anche una volta riconosciuta: non può perdere il proprio carattere senza perdersi di nuovo. Questa penso sia la bellezza (pure teologica) del percorso agnitivo riscritto dal redattore giovanneo.

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