
Le fondamenta stesse dello star system, insomma, risiedono nello spazio pubblico. Le star suggeriscono modelli di consumo, influiscono sulla ridefinizione dei costumi e talvolta anticipano o incarnano le trasformazioni in atto nella società. Quanto al rapporto tra politica e spettacolo, va sottolineata prima di ogni altra cosa la sua natura bidirezionale: se è vero che il linguaggio politico e le competizioni elettorali, ad esempio, sono state profondamente influenzate dal loro incontro con il mondo dell’intrattenimento, non si può dimenticare come anche quest’ultimo abbia via via incorporato molti elementi propriamente politici. Si è di fatto assistito, da un lato, all’ingresso nell’arena politica di numerose personalità legate allo spettacolo – da Reagan a Trump, da Berlusconi a Beppe Grillo, passando per l’ex governatore della California Arnold Schwarzenegger e per l’attuale presidente dell’Ucraina Zelens’kyj – e, dall’altro, a un attivismo politico sempre più intenso da parte delle celebrità.
Quali trasformazioni ha subito il rapporto tra lo star system e la sfera politica?
Dagli anni Cinquanta a oggi il cambiamento è stato radicale. Nel 1963 Francesco Alberoni pubblicò il primo saggio italiano sul divismo con un titolo di per sé eloquente, L’élite senza potere. I divi erano definiti come quei membri di una comunità che tutti potevano osservare, amare o criticare per ciò che facevano nella loro vita privata, ma ai quali era preclusa ogni via d’accesso alle istituzioni. Anzi, sembravano quasi al riparo dalle tensioni politiche. Non potevano in alcun modo considerarsi leader carismatici, perché i loro seguaci – i fans – non formavano un gruppo che si sentisse unito dallo stesso destino, ma soltanto un aggregato. Le regole morali cui dovevano sottostare erano poi più flessibili di quelle che riguardavano gli altri individui, primi fra tutti gli uomini politici, la cui vita privata non era normalmente oggetto di pettegolezzo.
Molti fattori hanno fatto sì che la situazione, nel tempo, si capovolgesse. Le innovazioni introdotte nel linguaggio cinematografico e nei mezzi di comunicazione di massa – su tutte, la diffusione della TV – contribuirono fortemente a un processo di “umanizzazione” dei divi, con l’inesorabile ridimensionamento delle differenze che separavano le star dai comuni mortali. Lo star system non poté così astenersi dal prendere parte alle trasformazioni sociali introdotte negli anni Sessanta e Settanta. Il cambiamento più evidente si ebbe negli Stati Uniti, con lo smantellamento del rigido codice di autocensura concordato negli anni Trenta dalle case di produzione hollywoodiane – le cui linee guida riproducevano una morale inflessibilmente puritana – e dove anche l’industria discografica cominciò a voler intercettare nuove fette di mercato dando voce alla protesta giovanile.
C’è infine un aspetto che meriterebbe più attenzione di quella che normalmente gli viene tributata: le star cominciarono a sposare cause sociali e ad acquisire un’identità politica quando ottennero il pieno possesso della loro immagine pubblica. Durante l’epoca d’oro di Hollywood, le case di produzione cinematografica scoprivano, fabbricavano e modellavano i divi a loro piacimento: erano solite vincolare gli attori con contratti a lunga scadenza che potevano essere rescissi anche nel caso in cui costoro manifestassero in pubblico comportamenti moralmente inappropriati. Considerando l’orientamento repubblicano di gran parte degli studios – un esempio per tutti, la Metro Goldwyn Meyer, dell’ultraconservatore Louis B. Meyer – e l’indiscriminata repressione delle “attività antiamericane” nell’epoca maccartista, non è difficile comprendere la ritrosia delle star a esporsi politicamente.
Fu alla fine degli anni Ottanta, dopo eventi globali come il Live Aid di Bob Geldof in favore dell’Africa e la conclusione della Guerra Fredda, che l’impegno politico, civile e umanitario delle celebrità divenne un tratto distintivo dello star system. Tra divi e case di produzione s’interposero, con sempre maggiore forza, agenzie di talenti di lungo corso come la William Morris o di più recente fondazione come la Creative Artists Agency, che s’incaricarono anche di far sposare alle star le battaglie civili più appropriate alla loro immagine. L’attivismo sociale, da allora, è diventato un elemento tutt’altro che riducibile ai vantaggi in termini fiscali e di reputazione che può talvolta comportare per il singolo divo: rappresenta ormai uno dei simboli che ne attestano la reale appartenenza allo star system.
Quali ambiti sono stati particolarmente toccati da tale processo?
Oltre ad aver introdotto molti elementi di novità nella comunicazione politica – impregnandola di cultura pop – e ad aver in parte ridisegnato il volto dello star system, questo processo di osmosi tra politica e spettacolo ha avuto le sue ripercussioni più importanti in ambito umanitario. La seconda parte del mio libro è interamente dedicata a questo tema. Benché il coinvolgimento dei divi in attività filantropiche sia antico quanto lo stesso star system, molte cose sono cambiate nel corso degli anni. Le star, che in origine si attivavano quasi esclusivamente in occasione di particolari iniziative o di gravi emergenze umanitarie, iniziarono a collaborare stabilmente con le Nazioni Unite e con altre organizzazioni, per poi approdare sempre più spesso alla decisione di creare fondazioni benefiche proprie.
Il popolare attore comico Danny Kaye, amatissimo dai bambini, nel 1954 fu il primo divo a essere nominato Ambasciatore di Buona Volontà di un’agenzia Onu, l’Unicef: gli avrebbero fatto seguito, oltre ad Audrey Hepburn, numerosissime celebrità, soprattutto tra gli anni Novanta e Duemila, durante i due mandati di Kofi Annan come Segretario generale. Il mondo aveva nel frattempo assistito al più grande evento benefico della storia, il Live Aid, storico concerto organizzato nel 1985 da Bob Geldof negli stadi di Londra e di Philadelphia per raccogliere fondi a favore delle popolazioni africane colpite dalla carestia. Su quel palcoscenico si era tra l’altro compiuta la definitiva consacrazione di una band del calibro degli U2 e del suo frontman Bono Vox, la rockstar che negli anni successivi avrebbe dato voce al movimento globale per la cancellazione del debito dei Paesi poveri e che avrebbe spinto la celebrity advocacy ai suoi limiti estremi.
Quali ricadute genera l’umanitarismo delle celebrità?
Si può azzardare una risposta a questa domanda solo dopo aver preso coscienza dell’eterogeneità del fenomeno e di come non sia possibile valutarlo in termini generali. Sin dall’inizio, uno dei suoi principali punti di forza è parso risiedere nella capacità delle star di suscitare l’interesse dei media rispetto a problematiche poco conosciute o volutamente trascurate. A ogni fruitore dei mezzi di comunicazione di massa, del resto, viene dato in pasto un flusso incontrollato e ininterrotto di informazioni che lo induce fugacemente a farsi un’idea su ogni questione, salvo poi condurlo ad altri lidi se non c’è un elemento iconico – una star, ad esempio – a mantenere alta la soglia dell’attenzione.
Ogni singolo caso, tuttavia, va valutato nella sua specificità. Talvolta le celebrità, anche collaborando con le élite politiche e finanziarie, hanno effettivamente ottenuto risultati pregevoli, mentre in altri casi hanno rischiato di danneggiare irrimediabilmente l’immagine delle cause che intendevano sostenere. La figura di Bono, ad esempio, si è distinta su entrambi i fronti. Da un lato, neppure i suoi critici più feroci sono riusciti a sminuire il ruolo che svolse nell’approvazione del Pepfar, un piano anti-Aids lanciato dagli Stati Uniti di George W. Bush proprio nello stesso periodo dell’invasione dell’Iraq, ma senza il quale centinaia di migliaia di africani avrebbero potuto perdere la vita. Dall’altro, nel 2005, durante il vertice del G8 di Gleneagles, né lui né Bob Geldof seppero rappresentare adeguatamente davanti ai potenti del mondo la richiesta di cancellazione del debito ai Paesi in via di sviluppo, rischiando di trasformare il fallimento della campagna Make Poverty History in un pericoloso boomerang per tutte le Ong che avevano animato l’iniziativa. Ciò rimanda a uno degli aspetti più rilevanti e problematici della celebrity advocacy: la sua difficoltà di elaborare forme di attivismo che non rientrino nei termini stabiliti dal potere.
È inevitabile notare, infine, come l’umanitarismo delle celebrità subisca anche gli attacchi di un filone di critiche che si spinge a indagare le “reali” intenzioni delle star, spesso incaricandosi di svelare la loro poca sincerità. Un filone fondato su criteri di valutazione assai discutibili, ma la cui sempre maggiore diffusione non è senza conseguenze.
Attorno alle attività filantropiche di stelle quali Bob Geldof, Bono Vox, Angelina Jolie e George Clooney si è sviluppato un ampio storytelling: cosa ne rivela l’analisi?
Trattandosi di figure assai diverse tra loro, diverso è stato anche lo storytelling di cui ciascuna di esse si è resa protagonista. Bob Geldof non si è mai preoccupato di celare né la propria franchezza, né il cinismo nel quale spesso sconfinavano le sue valutazioni politiche: è sempre apparso come un irriducibile antidiplomatico, per dirla con lo studioso americano Andrew F. Cooper. Non esitava a esprimere la propria repulsione per il ruolo messianico di cui si sentiva investito dai media. Dopo il Live Aid pretese che l’organizzazione creata per gestire il denaro raccolto esaurisse la propria funzione una volta stanziati quei fondi, deludendo chi sperava che s’istituzionalizzasse. Da allora, non avrebbe mai cessato di esternare le proprie posizioni rispetto a svariati temi politici – dai limiti dell’Unione europea alle rivendicazioni indipendentiste della Scozia dal Regno Unito, dalle persecuzioni delle minoranze musulmane in Birmania alla Brexit –, ma sempre rifiutandosi di porsi alla testa di una specifica organizzazione.
A incarnare il modello opposto di celebrity advocacy sarebbe stato paradossalmente proprio il suo vecchio amico Bono. Benché anche l’impegno umanitario di quest’ultimo fosse cominciato sul palcoscenico dei concerti degli U2, a testimonianza di una sensibilità politica vagamente progressista, esso si sarebbe presto trasformato in un’attività non meno importante di quella musicale. Dopo aver sostenuto con particolare veemenza il processo di pace in Irlanda del Nord e nell’ex Jugoslavia, Bono concentrò i propri sforzi sulla titanica impresa di risollevare l’Africa dalla povertà: l’attenzione mediatica generata dai suoi appelli per la cancellazione del debito ai Paesi in via di sviluppo lo portò a rappresentare agli occhi del mondo un movimento globale vasto ed eterogeneo. I legami che strinse con personalità quali Bobby Shriver, membro della famiglia Kennedy, e il celebre economista Jeffrey Sachs, per citare solo due esempi, gli permisero poi di entrare in contatto con le alte sfere del potere politico ed economico americano: divenne una sorta di lobbista al servizio dell’Africa. Per raccogliere nel tempo i frutti degli sforzi compiuti, diversamente da Geldof, diede inoltre vita a una propria organizzazione umanitaria, ONE, che prese il nome da un celeberrimo brano degli U2. La sua immagine pubblica non solo abbandonò le tinte ribelli di un tempo per mediare con il potere politico e con le élite finanziarie, ma arrivò persino a produrre uno storytelling volto a dimostrare la compatibilità del sistema capitalistico con la fine della povertà per il Terzo Mondo. Ciò sarebbe divenuto ancor più evidente all’inizio del 2006 con il lancio del marchio (RED), un logo concesso su licenza a grandi aziende come Apple, Starbucks o Armani affinché lo imprimessero su una loro linea commerciale con l’impegno di devolvere una piccola parte dei profitti al Fondo globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria. Grazie a questa operazione uscivano rafforzati i valori fondanti del capitalismo consumistico, che erano persino ricondotti a una vaga idea di virtù morale, e le marche coinvolte ottenevano benefici molto maggiori dei contributi che destinavano in beneficenza.
In questo senso, Bono Vox ha rappresentato perfettamente il modello di attivismo umanitario affermatosi dopo la Guerra Fredda e la sua sostanziale adesione ai paradigmi della globalizzazione neoliberale: è stato lui stesso a dichiarare che se si fosse dedicato a lanciare molotov nelle manifestazioni di piazza non avrebbe ottenuto nessuna delle concessioni che riuscì a strappare presentandosi nei palazzi del potere americani con una ventiquattrore piena di rapporti della Banca Mondiale sotto il braccio. Si tratta però di una condizione che, come si è visto in molti casi, rischia di affidare all’umanitarismo delle celebrità un ruolo ancillare rispetto al potere e alla sua continua ricerca di consensi.
I casi di George Clooney e di Angelina Jolie, pur appartenendo al medesimo contesto, presentano a loro volta alcuni elementi di specificità. Clooney ha legato il proprio nome a una questione più definita di quelle affrontate da Bono, l’emergenza umanitaria in Darfur, dedicandosi a sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale riguardo a una tragedia in atto in un luogo semisconosciuto. A lui, nel tempo, sono state rivolte molte delle critiche già indirizzate a Bono: molti non gli hanno perdonato di avere svolto il ruolo di testimonial nell’operazione di parziale rebranding avviata da Nestlé, la multinazionale simbolo dello sfruttamento del continente africano. Angelina Jolie, invece, ha compiuto una sorta di rebranding su se stessa: famosa sin da giovanissima soprattutto per i suoi comportamenti trasgressivi e provocatori, durante le riprese del film Lara Croft: Tomb Raider (2001) in Cambogia entrò in contatto con il lavoro dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, e decise di sostenerne stabilmente le attività. Negli anni della sua chiacchieratissima relazione con Brad Pitt non avrebbe poi mai smesso di associare la propria immagine a iniziative benefiche: creò la Maddox Jolie-Pitt Foundation, attiva soprattutto nella lotta alla povertà in Cambogia, e come Ambasciatrice di Buona Volontà dell’Unhcr apparve al fianco dei rifugiati in oltre venti Paesi del mondo. Il suo caso è ora riconosciuto come uno degli esempi di celebrity humanitarianism di maggiore successo.
Tutti ricordiamo le polemiche generate nell’estate 2019 dal gesto di Richard Gere, salito a bordo dell’Ong Open Arms per dare sostegno ai migranti: fino a che punto è giusto che si spinga l’interventismo umanitario dei divi?
Anche chi condividesse senza riserve il messaggio lanciato in quell’occasione da Richard Gere – com’è nel mio caso – non può mai dimenticare che ogni azione politica deve essere giudicata in virtù dei risultati che ottiene e di quanto questi ultimi si avvicinino agli obiettivi di partenza. Valutare l’impatto di gesti come quello di Gere è sempre molto difficile, perché si tratta di manifestazioni di solidarietà che, per quanto forti e radicalmente “umane”, restano semplici testimonianze dirette alla coscienza dei singoli. Circa la reazione prodottasi all’interno dei confini italiani, è plausibile che le persone mobilitatesi a favore della linea dei «porti chiusi» propugnata dall’allora ministro Salvini siano state molte di più di quelle che l’azione di Gere può avere sensibilizzato. D’altro canto, il gesto di una star della sua portata potrebbe aver contribuito attivamente a compromettere l’immagine del governo italiano dinanzi ai principali organi di stampa internazionali, similmente a quanto avvenuto – anche grazie alle celebrità – con la figura di Donald Trump al di fuori degli Stati Uniti. Occorre poi precisare che Richard Gere non era nuovo a prese di posizione scomode o solitarie: già nel 1993, dal palco della notte degli Oscar, aveva coraggiosamente denunciato le «azioni orribili» perpetrate dal governo cinese in Tibet, attirandosi molte antipatie a Hollywood, e nel 2007 aveva rincarato la dose chiedendo il boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino.
Se si volesse stabilire un giusto limite all’umanitarismo delle celebrità, in ogni caso, bisognerebbe fare esclusivo riferimento alle conseguenze che tale fenomeno produce e può produrre. Il potere di attirare l’attenzione di cui dispongono le star non si traduce sempre in un beneficio e non deve farsi carico dei problemi del mondo creando l’illusione di poterli risolvere. Ciascuna celebrità, insomma, dovrebbe sempre tenere presente che esiste un imperativo persino più forte di quello che impone di aiutare chi è in difficoltà: l’imperativo di non arrecargli danno.
Manuel Lambertini (Bologna, 1990) è laureato in Studi Internazionali presso l’Università di Bologna e in Mass Media e Politica presso il campus di Forlì dello stesso Ateneo. Unisce l’interesse per le scienze politiche e la sociologia a quelli per il cinema, la canzone d’autore, il movimento beat, la storia mediorientale e la letteratura ispanica e latinoamericana. Ha trascorso in terra iberica prolungati periodi di studio e lavoro. Le stelle non stanno a guardare (Infinito edizioni, 2019) è il suo primo libro.