
I trattati di adherentia sono appunto uno dei molti ritrovati di questo laboratorio politico e istituzionale. Con “aderenza” (o con uno dei suoi numerosi sinonimi, come “accomandigia” e “raccomandazione”) si intende un tipo di legame politico che aveva l’obiettivo di coordinare fra di loro due realtà asimmetriche, solitamente una “potenza grossa”, cioè un grande stato territoriale come (per ricordarne qualcuno) il ducato di Milano, la repubblica di Venezia o quella di Firenze, gli stati Estensi o il ducato di Savoia, e una realtà minore, come una signoria o una comunità. Il legame così instaurato rispondeva, almeno in prima istanza, a esigenze schiettamente strategiche: il principalis del trattato otteneva infatti, da parte dell’aderente, sostegno militare (con cui condurre le guerre in cui si trovava coinvolto) e logistico, concretizzato ad esempio nella fornitura di viveri da parte dell’accomandato, o nella possibilità di transitare nei suoi territori e di sfruttare i castelli portati nell’aderenza. Inoltre, all’accomandato risultava impossibile condurre una politica estera autonoma, trovandosi obbligato a fare guerra e pace a volontà del principalis. D’altro canto, l’adherens si trovava posto sotto la protezione della “potenza grossa” e, soprattutto, grazie al legame si vedeva legittimate una gamma più o meno vasta di rivendicazioni di varia natura, che potevano andare dalla semplice conferma del possesso di un bene, alla garanzia di forme di autonomia, fino al riconoscimento delle più alte prerogative giurisdizionali, magari anche a discapito di altri congiunti che non erano stati inclusi nell’aderenza.
Già da queste righe emerge un altro tema nodale: ogni trattato di aderenza, al di là di alcune caratteristiche minime e ricorrenti, presentate qui sopra, è diverso dall’altro, sotto molteplici punti di vista. Partiamo dalle figure dei “contraenti minori”: si va da patti che riguardano singoli signori, che stipulano il legame esclusivamente per se stessi, ad aderenze che coinvolgono decine e decine di domini, come può essere il caso delle accomandigie concluse dai conti di Cocconato, in cui i signori che effettivamente stipulano il contratto rappresentano anche tutti i loro (numerosissimi) agnati. Questo ci porta a un’altra questione, quella della durata: le aderenze potevano durare pochi anni o estendersi “per sempre”, andando a coinvolgere così non solo i contraenti diretti, ma anche i loro figli e i loro discendenti. Questo, chiaramente, se le condizioni e gli equilibri politici lo consentivano: una forma pattizia così flessibile ed elastica era infatti soggetta a continui rimaneggiamenti, e le rotture del legame (stante anche l’effettiva difficoltà di applicare i – peraltro molto vaghi – dispositivi punitivi previsti) erano piuttosto frequenti, né davano vita all’impossibilità di nuovi contratti di fronte a ulteriori spostamenti degli equilibri politici.
Infine, le stesse clausole che compongono i trattati sono potenzialmente differenti da caso a caso, in quanto sono tese a soddisfare quanto più possibile le esigenze dei contraenti. Vi sono alcune clausole minime presenti “sempre”: per ricordare solo quelle più ricorrenti e caratterizzanti, l’aderente deve riconoscere gli amici del principalis per amici e i nemici per nemici, facendo pace e guerra a sua volontà; deve dare transito, vitto e alloggio alle truppe della “potenza grossa”; il principalis deve invece proteggerlo e inserirlo in tutte le trattative che condurrà. Ma al di là di tali elementi, il resto del trattato è peculiare di volta in volta e dipendente dagli equilibri entro cui va a inserirsi. L’aderenza può così diventare lo strumento con cui il ramo di un lignaggio, o addirittura un singolo signore, va a erodere i diritti dei consanguinei, o al contrario può essere uno strumento con cui un dominatus ritrova compattezza e aumenta la sua solidità nel territorio; per il principalis può essere una via da battere per aumentare la presa su spazi periferici o dall’incerta appartenenza politica, o ancora un’“arma” con cui indebolire la sfera di influenza altrui.
In che modo e con quali scopi i Visconti fecero ricorso a tale forma pattizia?
L’immagine delle spire della vipera viscontea, che dà il titolo al libro, ben si presta come immagine dell’uso che fecero di principi viscontei dell’aderenza. Ho scritto in precedenza che le accomandigie rispondono in prima istanza a esigenze di natura militare. Se questo è indubbio, non è però che il primo punto della questione. Le accomandigie, soprattutto dalla prospettiva della “potenza grossa”, hanno infatti un valore ben più profondo, in quanto sono legami che vanno a inserirsi a pieno titolo nei processi intrapresi da quelle realtà che si stavano via via dotando di assetti statali e nella gestione delle relazioni con le altre potenze che animavano lo scenario peninsulare.
La prospettiva milanese sul tema si rivela così estremamente rilevante. Se l’aderenza fu, come si è detto, uno strumento noto e utilizzato da tutte le maggiori potenze italiane, pochi casi eguagliano quello visconteo come portata del legame, ambizione nel suo utilizzo e capillarità nel stipularlo: proprio per questo studiare l’aderenza da questo punto di vista significa usufruire di un punto di osservazione privilegiato per meglio apprezzare sia le specificità, sia gli elementi maggiormente ricorrenti e modellizzanti, di un legame che conobbe tanta diffusione e che condizionò in profondità gli sviluppi politici e istituzionali dell’Italia del basso medioevo e del primo Rinascimento.
La casistica in merito alle modalità attraverso cui i Visconti fecero ricorso all’adherentia è ricchissima. Solitamente i signori (poi duchi) di Milano inserirono la stipula dei legami in strategie più ampie, legate ai conflitti in cui si trovarono costantemente coinvolti con le altre potenze della penisola. Facendo leva sulle esigenze, sulle ambizioni e sulle necessità dei signori locali via via toccati dall’espansione del dominio visconteo, i principi aprivano (tramite l’invio di procuratori creati ad hoc) i canali diplomatici necessari per dare vita al legame. Fosse quindi in previsione, durante o in seguito a un conflitto, grazie alla sua elasticità l’aderenza ben si prestava a divenire un punto di contatto tra il principe e i vari domini loci, grazie anche a un’altra peculiarità che la caratterizzava: le accomandigie potevano essere stipulate non solo con quelle realtà che ricadevano in un dominio, ma anche con quelle che si trovavano all’esterno del medesimo e che, eventualmente, insistevano all’interno di un’altra potenza (ed è questo, ad esempio, il caso delle signorie appenniniche degli Ubertini, degli Ubaldini, dei Guidi e via discorrendo, formalmente abbracciate nel dominio fiorentino ma più volte aderenti dei Visconti).
Questo ci porta così alla seconda questione sollevata dalla domanda: gli scopi perseguiti dai Visconti tramite l’utilizzo dell’aderenza. Al di là degli immediati obiettivi militari, soddisfatti dall’invio di truppe da parte degli aderenti e dalla creazione di teste di ponte attorno a cui progettare spedizioni e nuove campagne, il vero e più importante valore dell’aderenza va ricercato in due processi di grande importanza. Da una parte, infatti, l’adherentia divenne un importante strumento dei processi di costruzione statale che coinvolsero le principali potenze italiane fra XIV e XV secolo, impegnate a dotarsi di apparati burocratici solida, di assetti di dominio stabili, di una proiezione territoriale, se non definita (o definitiva), quantomeno profilata, e via discorrendo. I Visconti, in particolare, da una parte seppero sfruttare tale vincolo (tanto all’interno, quanto all’esterno del dominio) in quelle zone a bassa densità urbana e a ricchissima presenza signorile, quali gli spazi subalpini (come ben evidenziano i numerosi esempi dall’Astigiano), gli scacchieri emiliani (in particolar modo per quanto riguarda gli spazi reggiani), e quelli lunigiani, facendo leva sull’elasticità dell’aderenza per giungere là dove i vincoli di dipendenza feudale non riuscivano, a causa delle loro eccessive rigidità, ad arrivare. Dall’altra parte i Visconti sfruttarono le accomandigie come uno dei canali attraverso cui gestire le relazioni interstatali con le altre potenze della penisola, sia secondo un approccio “aggressivo”, individuando aderenze dentro le sfere di influenza altrui, o direttamente nei confini statali così da rosicchiarne la portata e indebolirne la consistenza e la stabilità, sia durante processi di pace che tentavano di porre fine ai numerosi conflitti del tempo: spesso nei trattati di tregua o di pace si trovano infatti le liste degli accomandati delle potenze coinvolte, così da definire (spesso infruttuosamente) i reciproci ambiti d’azione. Fosse quindi per “stringere” le formazioni che insistevano all’interno del dominio visconteo, o per “stritolare” gli avversari che si trovavano al di fuori dello stesso, attraverso continue mute l’aderenza rivela di volta in volta, di caso in caso, tutta la sua efficacia.
Quando e come nacque l’aderenza viscontea?
Parlare di aderenza significa parlare di questioni fortemente attuali. Si pensi alle tematiche toccate sinora: sfere di influenza, relazioni interstatali, asimmetria tra potenze, pluralità delle forze in campo, ambizioni contrastanti, approcci flessibili alla diplomazia, e via discorrendo: sono tematiche che, col passare del tempo, sono emerse con sempre maggior forza nel dibattito pubblico. L’aderenza ha radici indubbiamente antiche, conosce il momento di maggior diffusione tra basso medioevo e Rinascimento e incontra la conclusione della sua parabola nel corso dell’età moderna – ma non per questo non getta luce su questioni su cui siamo chiamati a riflettere.
Il tema della “nascita” dell’aderenza è questione complicata e su cui ancora mancano effettive indagini. Per quanto riguarda la sua forma “viscontea” al momento non è ancora possibile osservarne la crescita e i primi sviluppi, e il legame emerge dalla documentazione in una forma, se non matura, quantomeno già ben strutturata. Intorno alla metà del XIV secolo i Visconti si trovarono in guerra contro una coalizione di diverse realtà toscane e umbre, guidate da Firenze e Perugia. La posta in gioco era rilevante: Giovanni Visconti, signore e arcivescovo di Milano, aveva acquistato Bologna dai Pepoli (i precedenti signori della città), e questo aveva comportato un sensibile (e pericoloso, per le potenze dell’Italia centrale) spostamento in avanti dell’area di influenza viscontea. Le prime liste di aderenti viscontei a oggi note sono legate proprio a questo conflitto: la prima, infatti, venne prodotta in occasione della lega di Milano del 1351, con cui i Visconti si assicurarono l’alleanza di Scaligeri, Estensi e Gonzaga in vista della guerra; la seconda, invece, si trova nel trattato di pace stipulato a Sarzana nel 1353, con cui si pose fine al conflitto e vennero definite le aree di influenza viscontea e fiorentina.
Fu quindi per sostenere l’impegnativo sforzo militare cui fu sottoposto il dominio che Giovanni Visconti coordinò a sé col tramite dell’aderenza numerose signorie abbarbicate sugli Appennini, che in molti casi avevano alle spalle lunghe stagioni di lotte contro Firenze. Fu una costruzione impressionante, che tuttavia si sfarinò subito dopo la stipula del trattato di pace (con cui Firenze rintuzzò, almeno per qualche tempo, la presenza viscontea nei versanti meridionali degli Appennini) e, soprattutto, dopo la morte di Giovanni Visconti nel 1354. Tale questione, inoltre, permette di evidenziare un’altra peculiarità dell’aderenza viscontea: il suo essere cioè un legame schiettamente personale (a differenza di quanto avveniva, ad esempio, a Firenze, dove a essere coinvolti nella sua stipula erano i collegi della repubblica). E se è vero che spesso le accomandigie erano stipulate “per sempre”, è anche vero che la scomparsa di un principe, o di un signore locale, causavano spesso spostamenti negli equilibri politici tali da imporre ripensamenti, aggiornamenti e veri e propri cambi di schieramento, spesso condotti proprio col tramite delle aderenze.
Quali vicende segnarono il successivo sviluppo delle aderenze viscontee?
In seguito alla morte di Giovanni Visconti lo stato visconteo si trovò ripartito tra i due successori, Bernabò e Galeazzo II: il primo ricevette la parte orientale e meridionale del dominio, mentre il secondo ottenne gli spazi occidentali. L’immagine è certamente condizionata da un panorama documentario non sempre ricco e non sempre perspicuo, ma i due domini sembrano aver dato all’aderenza una declinazione differente: maggiormente “strategica” e meno diffusa, per parte di Bernabò, meglio inserita nei processi di inspessimento del tessuto della dominazione, e segnata da una diffusione più capillare, per quanto riguarda Galeazzo. Non si pensi a tali differenze come esclusive ed eccessivamente dirimenti: Bernabò Visconti, nell’aderenza stipulata nel 1373 con Guido Savina da Fogliano (uno dei più potenti signori del Reggiano), dimostra di saper sfruttare pienamente il legame anche nei complicati e mai lineari processi di costruzione statale.
È nell’età di Gian Galeazzo Visconti, signore della parte occidentale del dominio alla morte del padre Galeazzo nel 1378, quindi – eliminato lo zio Bernabò nel 1385 – unico dominus dello stato visconteo, che l’aderenza vive una delle sue stagioni maggiormente rilevanti. Il Visconti, forte anche dell’investitura a duca di Milano nel 1395, seppe declinare l’aderenza secondo forme quantomai efficaci, dando vita a nuove e impressionanti reti di sostenitori negli spazi veneti e trentini (battendo piste già aperte da Bernabò), in Piemonte (dove raccolse appieno e arricchì l’eredità paterna), in Emilia, in Romagna (dove aderirono al Visconti anche signorie urbane, come quella dei Manfredi di Imola), in Lunigiana e in profondità sugli Appennini. L’impressionante edificio così costruito, che sostenne l’espansionismo visconteo in Veneto, negli spazi alpini e negli scacchieri toscani, dove forse più che altrove l’aderenza dimostrò tutta la sua efficacia nell’accerchiare e nell’isolare Firenze, subì un violentissimo colpo, per poi nei fatti dissiparsi, alla morte del duca nel 1402.
L’improvvisa scomparsa di Gian Galeazzo, cui successe il primogenito Giovanni Maria, gettò il ducato in una violenta stagione di torbidi, nei fatti chiusa solamente agli inizi degli anni ’20 dal terzo duca di Milano, Filippo Maria Visconti. Se negli anni che vanno tra il 1402 e il 1412 (anno della morte del secondo duca) l’aderenza conobbe un progressivo ripiegamento e indebolimento, parallelo alla perdita di potere da parte del duca (e, conseguentemente, di forza attrattiva), con l’avvento di Filippo Maria per l’accomandigia si aprì una nuova, rilevantissima, stagione.
Che ruolo svolse l’aderenza nell’età di Filippo Maria Visconti?
Durante l’età del terzo duca di Milano (1412-1447) l’aderenza conobbe una nuova “riprogrammazione”. Senza perdere il suo carattere di addentellato con cui sostenere i processi di costruzione statale, in particolar modo negli scacchieri subalpini (Parma e Reggio erano scivolate nella dominazione estense, mentre Bergamo e Brescia con la pace di Ferrara del 1428 caddero definitivamente in mano veneziana), e continuando a svolgere allo stesso tempo un’importante funzione di canale diplomatico (e anche di arma) nelle relazioni con gli altri poteri, per Filippo Maria, impegnato, come e più dei suoi predecessori, in costanti guerre contro coalizioni animate da avversari potenti, i legami di aderenza divennero anche lo strumento con cui innalzare delle “cortine difensive” attorno al ducato, assediato sostanzialmente da ogni direzione. Astigiano, Romagna e Lunigiana divennero così tre snodi dall’elevatissimo valore strategico, da cui ricavare truppe o con cui respingere le pressioni degli avversari di turno, Venezia e Firenze in testa.
Concludendo, e senza voler imprimere alle righe che seguono carattere necessario o finalistico, non bisogna vedere negli ultimi dell’età di Filippo Maria alcunché di crepuscolare, o quantomeno di crepuscolare fine a se stesso. Se è indubbio che in seguito alla sua morte lo stato visconteo conobbe una nuova stagione di crisi, che per quanto riguarda l’aderenza fu caratterizzata dai medesimi travagliati movimenti che fecero seguito alla scomparsa di Gian Galeazzo, bisogna anche evidenziare come anche l’accomandigia fece parte dell’eredità raccolta da Francesco Sforza, duca di Milano dal 1450, che non solo riattivò i legami intessuti dai suoi predecessori, ma seppe anche sfruttarli come elemento in grado di legittimare la sua posizione come nuovo principe, giungendo alla pace di Lodi del 1454 con una rete di accomandati solida e ben definita. Un ulteriore elemento, questo, che illumina efficacemente l’importanza del legame e la sua influenza all’interno di dinamiche che tanto avrebbero segnato i successivi sviluppi politici della penisola (e non solo).
Francesco Bozzi è professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano. Si occupa di storia politica e istituzionale del basso medioevo e del primo Rinascimento italiano, con particolare attenzione agli spazi lombardi fra XIV e XV secolo.