“Le signore del mare. Una storia del Mediterraneo medievale” di Sandra Origone

Prof.ssa Sandra Origone, Lei è l’autrice del libro Le signore del mare. Una storia del Mediterraneo medievale pubblicato dall’Università degli Studi di Genova, Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia: quando e come nasce il nome “repubbliche marinare”?
Le signore del mare. Una storia del Mediterraneo medievale, Sandra OrigoneL’espressione repubbliche marinare proviene dalla tradizione sette-ottocentesca. Ludovico Antonio Muratori usò il termine repubbliche per indicare in generale le città che nel XII secolo si affermarono dandosi forme di autogoverno. Perlopiù egli si servì del sostantivo per indicare una singola città, che fosse marinara o meno: ad esempio, per Venezia – “Veneta repubblica” o per Bologna “repubblica di Bologna”. Anche Jean-Charles Léonard Simonde de Sismondi utilizzò nel titolo della sua opera il termine repubbliche abbinandolo all’aggettivo italiane. Com’è noto, egli era un sostenitore dell’insegnamento pratico e morale che queste realtà medievali avrebbero potuto costituire per gli uomini del suo tempo dedicando anche diverse pagine alle città legate al mare e al rapporto con Bisanzio. Un altro autore, il milanese Carlo Cattaneo, mise in evidenza il ruolo delle città nel risveglio dell’economia medievale: esempi dell’intraprendenza e della propensione all’innovazione che avrebbero dovuto ispirare il decollo della società moderna.

In realtà l’espressione repubblica contiene in sé due registri semantici, che si riconducono alla città-stato: l’uno in riferimento all’autogoverno e all’autonomia, l’altro alla polis nel senso di governo democratico. Nel libro sono esaminate le quattro “signore del mare”, in genere indicate come “repubbliche marinare” con una sottolineatura celebrativa di stampo ottocentesco. Tuttavia l’astrazione dell’espressione emerge se guardiamo alla storia istituzionale, alle vicende, alla cronologia delle principali protagoniste. Appare evidente che le quattro città svilupparono con sfasature cronologiche e intensità diverse aspirazioni all’autogoverno, alla formazione di un territorio e all’affermazione di un governo rappresentativo o, quantomeno, non improntato a un fattore dinastico: situazione quest’ultima che si impose in modo netto nella fase comunale.

Quando e come si sviluppò la potenza delle quattro città di mare protagoniste del periodo medievale?
Io credo che si tratti di una storia lunga. Se vogliamo che il nostro discorso abbracci i quattro modelli proposti e che emerga la pregnanza mediterranea della storia di queste città, è opportuno rifarsi ad esperienze sul mare molto anteriori rispetto allo sviluppo della civiltà comunale del secolo XII. Non a caso nel libro ho dato spazio alla fase “Bisanzio, Longobardi, Franchi”. Tutte le città costiere del Mediterraneo medievale, non solo Amalfi e Venezia, nate nel contesto della dominazione bizantina e più a lungo collegate all’impero e ai suoi modelli, ma anche Genova e Pisa hanno avuto un passato riconducibile a Bisanzio in seguito alla riconquista giustinianea della Penisola. Per le città del Tirreno settentrionale, che si trovarono sotto la dominazione bizantina solo fino al primo periodo dell’Esarcato, si trattò di una fase terminata nella prima metà del VII secolo. Questa esperienza è stata fondamentale per il mantenimento di una continuità marittima con ruoli di collegamento e di difesa, che conosciamo, se pure attraverso scarse e frammentarie testimonianze, anche per i periodi meno ricchi di fonti come sono i secoli alto medievali. La continuità si evidenzia soprattutto per collegamenti con Sardegna e Corsica e per azioni difensive nel Tirreno settentrionale sin dal periodo delle dominazioni longobarda e franca. Erano potenzialità che sarebbero emerse nelle prime imprese per la liberazione del Mediterraneo dalle incursioni saracene. Certamente, però, se vogliamo parlare di potenze sul mare, dobbiamo tenere presenti per ciascuna città tempi diversi, Amalfi precoce per i suoi interessi in Egitto, Terra Santa e Costantinopoli, incominciò a declinare sotto la dominazione normanna a partire dal 1073, Pisa in piena espansione nel Mediterraneo del XII secolo con interessi in Provenza, in Sardegna, nel Nordafrica, nel Levante, a Costantinopoli subì i contraccolpi della disfatta che l’aveva colpita alla Meloria (1284); dopo il XIII secolo rimanevano in lizza solo Genova e Venezia, che, nonostante le crisi dei tempi e le lotte l’una contro l’altra per la supremazia marittima, erano di fatto potenze che avevano raggiunto l’egemonia sul mare e un notevole dominio coloniale.

Amalfi e Pisa esaurirono ben prima di Genova e Venezia il loro protagonismo nelle acque del Mediterraneo: quali vicende segnarono il loro declino?
Amalfi fece le spese dell’avanzata normanna nel Sud-Italia. Nel 1073 la città si dovette arrendere ai nuovi invasori che erano nemici dei bizantini. Da quel momento gli imperatori orientali non considerarono più Amalfi come un’alleata fidata e privilegiarono le altre città, in particolare Venezia. Per di più il dominio dell’età normanno-sveva di certo non incoraggiava l’autonomia mercantile delle città. Gli amalfitani, sfavoriti sui mercati internazionali, restrinsero gli orizzonti della loro attività senza perdere, però, l’attitudine alla mercatura. Pisa, invece, certamente ridusse il proprio ruolo dopo la battaglia della Meloria e la conquista aragonese della Sardegna (1323-26), ma la vera fine del suo ruolo di protagonista si verificò nel 1406 con l’annessione da parte di Firenze, anche se i pisani non cessarono di avere un peso nell’attività economica all’interno del sistema fiorentino.

In che modo va riconsiderata la tradizionale impostazione verticistica che si focalizza sul ruolo delle quattro città?
Bisogna premettere alcune considerazioni: 1) che le grandi città avevano bisogno di un territorio di supporto da cui trarre risorse e uomini; 2) per imporsi sul territorio esse dovevano assoggettare centri di potere ostili e città rivali che potevano contendere la loro supremazia; 3) che l’attività a livello apicale era svolta dalle città in possesso di sbocchi in diverse parti del Mediterraneo, flotte potenti, relazioni diplomatiche con controparti come Bisanzio, i potentati saraceni, i regni del tempo. Altre città (Ancona, Bari, Gaeta, Noli, Ragusa, Savona ecc.), tuttavia, talvolta sulla scia di quelle più importanti avevano sviluppato potenzialità analoghe, anche se con minore efficacia e continuità. Queste realtà “minori” – il loro rapporto con le città dominanti e la loro funzione all’interno delle aree di mercato – sono i soggetti su cui si sta orientando e dovrà orientarsi la ricerca.

Di quale rete di interessi, ruoli economici e competenze estese in tutte le direzioni le città marinare rappresentavano il punto apicale?
In un primo momento le città marinare disponevano quasi esclusivamente della loro capacità di navigazione e della possibilità di offrire servizi diplomatici, militari e di trasporto (come fecero significativamente nei confronti dell’impero bizantino). Possedevano poche merci idonee allo scambio con paesi in grado di esportare prodotti di lusso e preziosi. Gli italiani incominciarono smerciando oggetti del loro modesto artigianato (scodelle di legno, armi sono i primi prodotti a comparire come oggetti di esportazione cui si aggiunsero panni lana di modesto pregio, ma molto richiesti nell’Africa settentrionale) e, assai più apprezzati nei paesi islamici, ferro, schiavi e legname, incontrando ostacoli nei divieti ecclesiastici. Per controbilanciare la ricchezza dei mercati orientali si dedicarono molto presto al carrying trade. Erano essi che avevano la possibilità di acquistare i prodotti pregiati d’Oriente per trasportarli nella Penisola iberica e nel Nordafrica, di trasferire prodotti dell’Occidente in Egitto e di esportarne merci preziose o di importare il grano siciliano nel Maghreb in cambio di oro. Non solo, ma la loro capacità di navigare rendeva ogni attività, compresa la pirateria, un importante cespite di guadagno. Le attività mercantili arricchivano non solo mercanti qualificati e appartenenti ai ranghi dell’aristocrazia cittadina, ma anche l’intera città perché nuovi ceti avevano la possibilità di affacciarsi al commercio e di elevarsi anche dal punto di vista sociale. I grandi mercanti incominciarono a impegnare somme di denaro in attività mercantili affidate a terzi, investendo contemporaneamente su diverse piazze. Le ricchezze accumulate consentirono loro di dedicarsi anche alle attività armatoriali e finanziarie. La rete commerciale era estesa in diverse direzioni, proprio per consentire alle merci di circolare per tutto il Mediterraneo: se Amalfi e Venezia si erano concentrate sulle piazze dell’Egitto, del Vicino Oriente e di Bisanzio, Genova e Pisa avevano intessuto una rete di rapporti che dalla Provenza andava in direzione del Maghreb, dal Levante all’Egitto fino a Bisanzio.

Il possesso di insediamenti e domini coloniali consentiva ai mercanti delle città di avere sbocchi diversi sia di approvvigionamento sia di smercio e di dominare il mercato anche attraverso una rete di agenti che fornivano informazioni sull’andamento dei prezzi, sui rifornimenti e sui cambi. Inoltre – mi riferisco all’ultimo periodo – tanto Genova quanto Venezia e Firenze (la quale, conquistata Pisa ne aveva potenziato le capacità) avevano la possibilità di interfacciarsi con i mercati internazionali dell’Europa occidentale (di grande interesse soprattutto per genovesi e fiorentini) e settentrionale, ottenendone ingenti profitti.

In che modo la storia di queste città va letta coerentemente con lo sviluppo urbano dell’età medievale?
Ciascuna delle città considerate aveva uno spettro d’azione sul mare che consentiva loro di aspirare a svincolarsi dai legami troppo stretti col sistema territoriale cui appartenevano. È di per sé eloquente la vicenda – ben nota attraverso gli Annali cittadini – della resistenza dei genovesi a Federico Barbarossa, quando essi giustificarono il rifiuto a sottoporsi alle imposte da lui richieste per il fatto che la città non viveva dei prodotti della terra, ma di quelli portati via mare per i quali i dazi erano già stati pagati nelle regioni di esportazione. Di fatto, tuttavia, queste città, per quanto peculiari, a partire da un certo momento della loro storia si collocarono nel sistema occidentale. Basta pensare che Amalfi dovette condividere il destino delle altre città meridionali annesse al dominio normanno, poi a quelli svevo, angioino, aragonese; che Venezia, nel IX secolo in bilico tra franchi e bizantini, nell’XI-XII secolo gravitava ormai nettamente nella sfera politica dell’impero occidentale, pur mantenendo costante l’impronta bizantina grazie alla tradizione culturale e alla figura istituzionale del doge. Per non parlare di Genova e di Pisa le quali, inquadrate nel sistema longobardo e successivamente nell’impero franco-tedesco, condivisero in seguito l’esperienza comunale delle città del nord-Italia; mentre Venezia, retta dal doge, si avvicinò al modello cittadino prevalso nel Settentrione italiano affiancando alcuni decenni dopo, nel 1147, l’organismo comunale al governo dogale.

La nostra valutazione si basa su aspetti non solo politico-istituzionali, ma anche socio-economici, osservando che alla metà del XIII secolo Genova, Venezia, Pisa, città mercantili per eccellenza, presentavano aspetti comuni ai principali centri dell’Italia comunale, come la contrapposizione tra il ceto mercantile popolare, che si era arricchito indisturbato e reclamava uno spazio politico, e la militia, che rappresentava la più antica antica nobiltà, ricca e potente.

Le “signore del mare” conobbero anche uno sviluppo territoriale (Venezia con il suo dominio da tera; Genova con il suo distretto; Pisa inglobata nel territorio fiorentino) che ne fece degli stati regionali anche se, ad esempio, Genova e Venezia non ebbero mai signori, ma un governo elettivo quale formalmente era il dogato. Tale sistema per Venezia si fondava sulla propria antica tradizione; per Genova, invece, fu un’acquisizione recente a segnare un’evoluzione del governo di matrice popolare nel vano tentativo di garantire alla città, sempre in preda alle lotte tra fazioni, un sistema più stabile.

Quale comparazione è possibile tracciare tra le quattro città?
La comparazione tra le quattro città è tutt’altro che astratta, si basa su fatti concreti e richiede di tenere presenti fondamentali variabili cronologiche e di natura istituzionale ed economico-mercantile. Per questo motivo è necessario ricondurre il confronto a segmenti della loro storia. Prima di tutto si parla di Amalfi e Venezia, entrambe sorte nell’ambito di ducati bizantini retti da un duca insignito di titoli aulici dall’impero orientale, analoghe tra di loro fino al X-XI secolo non solo per i caratteri istituzionali, ma anche per il raggio d’azione dei loro precoci commerci verso l’Egitto e l’Oriente, che Amalfi fu costretta a contrarre a seguito della dominazione normanna.

Pisa e Genova sono comparabili per diversi fattori: l’iniziale sfera d’azione tirrenica (lotta contro i raid islamici, rivalità commerciale in Provenza e nei potentati islamici iberici e nordafricani); l’evoluzione istituzionale dal sistema carolingio-ottoniano all’autonomia comunale; le successive fasi di sviluppo comunale con l’affermazione di un regime popolare ghibellino e l’ascesa di nuove componenti mercantili; gli interessi contrapposti, dalla Provenza al Nordafrica, alla Sardegna, a Costantinopoli, ad Acri, a gonfiare la rivalità culminata nel conflitto della fine del XIII secolo.

Infine il discorso approda sulla comparazione tra Genova e Venezia. Indicherei la prima fase del confronto a partire dal XII secolo, quando l’apertura del mercato di Costantinopoli anche ai genovesi rese bene evidente la rivalità tra le due città che raggiunse il suo culmine con gli esiti della Quarta Crociata e, successivamente, a seguito del trattato di Ninfeo, con l’affermazione genovese nell’impero orientale. Le vicende complesse dell’azione di entrambe in Oriente determinò il rafforzamento dei rispettivi domini coloniali nel mar Nero e nell’Egeo impegnando le due città sugli stessi problemi, quali le relazioni con l’impero orientale e con gli altri potentati, la gestione dei rapporti con l’elemento locale, il controllo dell’operato dei funzionari inviati dalla madre patria, la contrapposizione alla minaccia turca. Entrambe, per quanto rispondessero a criteri di governo differenti, si avvalsero di sistemi di gestione analoghi affidando gli insediamenti a funzionari inviati dalla madre patria oppure giovandosi delle famiglie che si erano impiantate nei domini orientali.

Le due città, pur avvalendosi di metodi diversi secondo la ben nota formula «deux styles une réussite», in realtà raggiunsero i medesimi obiettivi: accumulo di grandi ricchezze, lusso, tendenza al dinamismo sociale progressivamente bloccato dall’affermazione di un patriziato sempre più esclusivo, expertise marittimo-coloniale, capacità finanziaria, duratura indipendenza da poteri superiori. Alla fine dell’età medievale erano entrambe rette da un doge, che nel caso veneziano rappresentava il vertice di un’organizzazione di governo piramidale ed era portato in carica attraverso un complicato sistema di sorteggio tra i membri del Maggior Consiglio. A Genova, invece, a dispetto delle prescrizioni legislative del 1363, l’elezione del doge era il risultato di accese lotte di fazione con la conseguente vittoria dell’una sull’altra, guadagnata spesso addirittura con l’appoggio straniero. Ciò che rendeva potente Genova non era la stabilità politica che a Venezia nell’ultimo medioevo aveva dato la possibilità di costruire una salda compagine territoriale, bensì la capacità finanziaria dei genovesi che si esprimeva soprattutto attraverso il Banco di San Giorgio, espressione degli interessi delle grandi famiglie mercantili, che nel 1528 assunsero anche formalmente la piena responsabilità politica della Repubblica.

Sandra Origone è Professore ordinario di Storia medievale presso l’Università di Genova

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