
Nel libro Lei narra la vicenda della ventunenne Alham Tamimi, una tra le più temute terroriste del mondo arabo: una storia esemplare di come la partecipazione delle donne ad atti terroristici sfugga alle tradizionali interpretazioni.
Ho deciso di raccontare la sua storia proprio per sottolineare come le donne possano essere perfette orchestratrici di stragi, e sfatare l’immaginario collettivo che le relega in secondo piano nell’ambito del terrorismo, dipingendole solo come soggetti passivi. Ahlam Tamimi era una combattente palestinese di Hamas che, a soli 21 anni, nel 2001, architettò un violento attacco suicida contro la pizzeria Sbarro di Gerusalemme est che, allora come oggi, si trova sotto il dominio israeliano. Scelse lei il luogo, l’orario e la modalità con cui l’azione si sarebbe dovuta svolgere. Accompagnò lei stessa il kamikaze, un combattente palestinese coetaneo, nel luogo stabilito, ordinandogli di detonare la bomba all’interno del locale, così da poter uccidere il maggior numero di persone possibile. Come gli altri militanti di Hamas, Ahlam era consapevole che, se un ordigno viene azionato in un luogo chiuso, l’esplosione risucchia l’ossigeno presente nella stanza facendola implodere su sé stessa. Ma non è tutto. La ragazza aveva scelto appositamente un kamikaze per essere sicura che l’azione andasse a buon fine. Un paio di mesi prima, Ahlam aveva provato a posizionare una bomba in un supermercato, rimanendo delusa dal fatto che alcuni agenti di polizia l’avevano individuata e disattivata prima che potesse esplodere. Da quell’episodio, la terrorista aveva imparato che un attentatore suicida ha più possibilità di avere successo nell’uccidere, in quanto è una bomba con un cervello, che si può adattare ad eventuali cambiamenti improvvisi. Dopo aver accompagnato il kamikaze alla pizzeria, si allontanò per tornare a Ramallah, sua città di origine e venne a sapere l’esito dell’attacco dalla radio dell’autobus. Ci sono alcune interviste, rintracciabili su Youtube, in cui Ahlam stessa racconta questi dettagli, che fanno rimanere a bocca aperta per la spietatezza delle sue affermazioni. La ragazza, con un sorriso che fatica a contenere, racconta di come fosse stata felice di apprendere che le vittime totali erano state 15, mentre i feriti oltre 130. Il momento più raccapricciante dell’intervista sovviene quando il giornalista la informa che tra i morti c’erano stati 8 bambini. A quel punto la terrorista spalanca gli occhi e scoppia in una risata compiaciuta, affermando che, fino a quel momento, era convinta che i minori morti nell’attacco fossero stati meno di 8. Ahlam Tamimi, così come altre militanti palestinesi, giustifica l’uccisione di bambini israeliani sostenendo che, una volta cresciuti, diventeranno soldati che colpiranno i bambini palestinesi. Dal momento che la leva militare è obbligatoria per tutti i cittadini in Israele, ogni bambino o bambina è destinato ad entrare a far parte dell’esercito, e quindi fin dalla nascita costituisce un potenziale pericolo per tutti i palestinesi. Penso che non ci sia pensiero più crudele e spietato di questo ma, dal momento che gli israeliani sono considerati il male assoluto per i combattenti palestinesi, questi ultimi ritengono che la loro uccisione sia giusta e benefica per il proprio popolo. È difficile accettare un’immagine del genere quando si è abituati a vedere le donne soltanto come docili vittime. È vero che lo sono in certi casi, ma ne esistono altrettanti in cui sono assassine spietate. La sete di sangue non è dimostrata solo dalla volontà di prendere parte agli attentati, ma anche dalla partecipazione alla vita delle organizzazioni. Al loro interno, le donne hanno ricoperto, e continuano a ricoprire una molteplicità di ruoli: diffondono propaganda, indottrinano altre persone e svolgono il ruolo di vere e proprie leader politiche, che dirigono le azioni. È il caso delle terroriste tedesche della Banda Baader-Meinhof, Ulrike Meinhof e Gudrun Ensslin, le quali architettarono e condussero un assalto per liberare il loro compagno Andreas Baader che si trovava in carcere. Tutte le storie che cito nel libro le ho scelte appositamente per evidenziare l’indole violenta delle terroriste, andando oltre qualsiasi differenza di genere applicata genericamente nell’ambito del terrorismo.
Il terrorismo al femminile sa essere feroce e spietato quanto e più di quello degli uomini: dalle leader dell’Armata Rossa Giapponese o delle Brigate Rosse, alle maoiste peruviane di Sendero Luminoso o le kamikaze delle Vedove Nere cecene o ancora le Tigri Nere dello Sri Lanka, cosa accomuna le storie raccontate nel Suo libro?
Come ho spiegato nella risposta alla prima domanda, non è possibile tracciare l’identikit di una “terrorista tipo”, poiché ogni donna di cui ho parlato ha avuto una storia singolare. Di conseguenza, la decisione di unirsi a un gruppo terroristico e di spargere violenza, in tutti i casi, è stata dettata dall’esperienza personale e dal contesto politico in cui queste donne si sono trovate ad operare. Quello che accomuna tutte le protagoniste del libro, invece, è la convinzione che le proprie azioni abbiano avuto un nobile scopo. Per ogni sanguinaria, gli assassinii, i rapimenti, gli attacchi, l’attività di reclutamento e gli assalti hanno avuto tutte il fine di contrastare ed eliminare il nemico per il bene del proprio gruppo, in nome di una determinata ideologia politica o religiosa. Le guerrigliere peruviane di Sendero Luminoso combattevano per destabilizzare le autorità centrali di Lima. Allo stesso modo, le militanti Tamil compivano assalti contro l’esercito srilankese, fiere di commettere azioni suicide perché convinte che tali atti avrebbero portato beneficio alla propria gente, oppressa dal governo di Colombo. E così tutte le altre donne di cui parlo nel libro. Un aspetto interessante è il fatto che alcune terroriste decisero di sacrificare la vita dei propri figli in nome della causa per cui si battevano. È stato il caso, ad esempio, di Ulrike Meinhof, madre di due gemelle che dovette abbandonare una volta abbracciata la lotta armata, accettando di separarsi da loro. La terrorista, in particolare, architettò un piano per mandare le figlie in Giordania, dove lei stessa si era addestrata per alcuni mesi, affinché venissero accolte in un centro per orfani palestinesi. In tale modo, non appena giunte in Giordania, le bambine avrebbero perso il proprio nome ed ogni legame con lei e con il resto della loro famiglia. Pur di non farle crescere in un ambiente ostile agli ideali per cui combatteva, Ulrike Meinhof accettò che il passato delle figlie venisse cancellato, compiendo quello che ai suoi occhi era un puro gesto di amore. Diversamente agì la “regina del terrorismo”, Fusako Shigenobu, fondatrice dell’Armata Rossa Giapponese. Durante i 30 anni trascorsi a combattere al fianco dei combattenti palestinesi in Libano, Fusako Shigenobu ebbe una figlia, May Shigenobu, che crebbe con sé, sottoponendola ad una vita di militanza, lontana dal Giappone e dalle sue origini. In un’intervista rilasciata alla BBC nel 2001, May Shigenobu, che oggi è una giornalista che abita e valora in Giappone, racconta che, nonostante la sua infanzia e la sua adolescenza siano state diverse da quelle dei suoi coetanei, è convinta che Fusako sia stata una buona mamma, dolce e amorevole. Dalle sue parole, che riporto testualmente nelle pagine del libro, emerge che la regina del terrorismo, seppur responsabile di uccisioni e violenti attacchi, era capace di amore verso la figlia e gli altri membri dell’organizzazione. Tale intervista è particolarmente importante perché conferma che la mentalità a codice binario è comune a tutti i terroristi e alle terroriste donne. Coloro che sono considerati essere il bene si meritano amore e protezione, mentre coloro che sono considerati il male meritano soltanto morte e sofferenze. Nel raccontare le storie delle sanguinarie ho riportato le spiegazioni fornite dalle donne in relazione ai propri atti violenti, non per giustificarle, ma per dimostrare che le donne, come gli uomini, possono essere capaci di spargere violenza volontariamente. La radicalizzazione è un fenomeno che può interessare tutti gli esseri umani, al di là del genere di appartenenza. Tutte le donne del libro, esattamente come i compagni maschi delle loro organizzazioni, hanno intrapreso e completato processi di radicalizzazione che le hanno portate a ritenere che ciò che facevano era giusto e benefico.