
Rispetto all’Islanda, la situazione norvegese appare invece più enigmatica: a giudicare dai manoscritti pervenutici, infatti, sembra che la produzione di testi in lingua norrena riguardanti la storia della Norvegia venisse soprattutto affidata a intellettuali islandesi. La corte norvegese assume un ruolo propositivo solo per quanto riguarda un tipo particolare di testi: le traduzioni di letteratura cortese e cavalleresca continentale, probabilmente funzionali all’affermazione di una “moderna” ideologia monarchica.
Qual era la situazione politica e sociale di Norvegia e Islanda nel medioevo?
Fino al 1262 – anno in cui l’Assemblea generale riconosce l’autorità sull’isola del re di Norvegia – l’Islanda costituisce un caso unico nel panorama dell’Europa medievale. La comunità islandese, infatti, dopo la colonizzazione non si organizza secondo il modello monarchico che, in quegli stessi anni, si stava affermando in Scandinavia, ma dà vita a un sistema “repubblicano”. In passato si è spesso voluto riconoscere in questo sistema una sorta di democrazia medievale, ma si tratta di una semplificazione anacronistica. L’Islanda del medioevo era retta da un complesso sistema di assemblee locali al cui vertice stava l’Assemblea generale (Alþingi), a cui partecipavano i capi locali e i loro sostenitori. L’Assemblea generale poteva deliberare nuove leggi e, nel corso delle sue riunioni, potevano essere emessi verdetti sulle dispute tra i diversi capi. Mancava però del tutto un organo esecutivo e le sentenze dovevano essere applicate dalla parte in causa vincitrice. Già dal XII secolo, un gruppo ristretto di famiglie andò via via allargando la propria base di potere e assunse il controllo dell’Assemblea generale. La tendenza di ognuna di queste famiglie ad allargare il proprio territorio di influenza e ad assoggettare le famiglie rivali portò a un’endemica conflittualità, a una guerra civile che devastò il paese per tutta la prima metà del XIII secolo e in cui ognuna delle parti in conflitto cercava di assicurarsi l’appoggio del re di Norvegia. Infine, come abbiamo detto, l’unica soluzione capace di porre fine agli scontri apparve quella di consegnare il potere nelle mani del sovrano norvegese. La storia islandese dei secoli XII-XIII può dunque essere intesa come un tentativo fallito di trasformare un sistema oligarchico in uno monarchico, e il fallimento fu dovuto al fatto che nessuna delle fazioni in lotta aveva la forza sufficiente per imporsi sulle altre. In Norvegia, invece, nonostante l’esistenza di numerose piccole entità politiche in lotta tra di loro, nello stesso periodo storico un potere monarchico centralizzato riuscì, sia pur faticosamente e tra numerosi arretramenti, ad affermarsi, e il XIII secolo è dominato dalla figura di un monarca colto e abile come Hákon IV.
Come nascono le saghe?
Questo è sicuramente il problema più difficile da risolvere. Come abbiamo detto, i presupposti sociali e materiali si formano nel primo secolo dopo la conversione: la materia prima per la pergamena viene fornita dall’allevamento, le competenze scrittorie vengono acquisite grazie alla formazione del clero all’estero, la possibilità di scrivere testi narrativi in volgare viene confermata dall’esempio delle tradizioni celtiche. Tutto questo però non spiega come mai in Norvegia e in Islanda – ma soprattutto in Islanda – venga prodotto nell’arco di un paio di secoli un corpus di narrazioni in prosa volgare che non ha uguale nel resto d’Europa. Una risposta certa non l’avremo probabilmente mai; credo però che alcuni fattori importanti, in questo fenomeno, siano individuabili. In primo luogo va tenuto conto che, proprio per la scarsa numerosità della comunità islandese, le stesse famiglie occupavano le posizioni più eminenti sia della società laica, sia di quella ecclesiastica. Questo, naturalmente, non significa che non potessero esserci tensioni e scontri tra poteri secolari e poteri ecclesiali, significa però che gli “specialisti della scrittura” appartenevano in genere alle stesse stirpi che controllavano le istituzioni politiche dell’isola. Non credo sia un caso se la produzione di saghe sulla storia dei sovrani scandinavi e sui colonizzatori dell’Islanda abbia inizio a partire dalla seconda metà del XII secolo, nel periodo quindi in cui le strategie politiche dell’oligarchia ponevano con urgenza la questione dell’assetto istituzionale dell’isola e dei suoi rapporti con la Corona norvegese. In quel particolare contesto politico e culturale, la ricostruzione della memoria e l’esaltazione di certe figure di capostipiti potevano assumere forza di legittimazione delle posizioni di potere del presente.
Come sono giunti fino a noi questi testi?
Le saghe hanno una lunghissima tradizione manoscritta. Prima di tutto bisogna dire che non ci è arrivato nessun manoscritto originale di una saga, se per originale intendiamo il manoscritto su cui ha scritto il primo estensore del testo (il termine “autore”, parlando di saghe, va usato con prudenza, visto che almeno in alcuni casi il primo ad aver messo per iscritto una saga ha fatto poco più che riorganizzare un racconto tramandato oralmente). Soprattutto per quanto riguarda il gruppo di saghe che narrano le vicende dei colonizzatori (le cosiddette “Saghe degli Islandesi”), è interessante osservare che tutti i manoscritti che le tramandano sono in genere di almeno un secolo successivi alla composizione. È anche interessante che la tradizione manoscritta si sia protratta fino alle soglie del XX secolo: l’attività di copiatura è andata avanti, infatti, molto a lungo dopo l’introduzione della stampa. Le saghe, comunque, non sarebbero mai arrivate fino a noi senza lo straordinario movimento di recupero delle tradizioni medievali che ha avuto luogo in Scandinavia a partire dal XVI secolo e che ha preso forza nel XVII, quando sia la Danimarca – che si era nel frattempo impossessata di Norvegia e Islanda – sia la Svezia cercavano nelle storie dell’antico Nord la legittimazione delle loro politiche di potenza anche sul suolo Europeo, si pensi al ruolo svolto dalle due monarchie scandinave nel corso della Guerra dei trent’anni. Sta di fatto che, a partire dall’epoca rinascimentale, ha avuto inizio una sistematica ricerca dei manoscritti antichi, le saghe sono state pubblicate in lingua originale con traduzione a latere o in calce in latino o in una lingua moderna – lingue nordiche in un primo momento, poi, nel XVIII secolo, grazie alla figura dell’intellettuale ginevrino Paul Henri Mallet, anche in francese. Così, quando l’Europa è stata percorsa dalle grandi ondate del preromanticismo e del romanticismo, gli intellettuali di tutto l’Occidente hanno trovato a loro disposizione un patrimonio di testi “sublimi” che corrispondevano al nuovo gusto estetico. Da allora l’attività di edizione, traduzione e rielaborazione non ha più avuto termine.
L’etichetta saga viene applicata a un corpus di testi narrativi in prosa tra loro assai diversi: in quali generi si articola questo corpus disomogeneo?
Prima di tutto va detto che la corrente suddivisione del corpus in generi non ha riscontro nelle testimonianze medievali. È però evidente che – almeno in linee generali – la collocazione spazio-temporale delle vicende narrate e il tipo di protagonista di queste vicende determinano fattori stilistici e, più in generale, di strategia narrativa. Su questa base si è formata una classificazione più o meno condivisa dagli studiosi e che appare soprattutto utile alla discussione scientifica e alla pratica didattica, nella consapevolezza che si tratta di una generalizzazione che presenta molti limiti. I generi che compongono il corpus sono dunque:
- le “Saghe dei re”, che narrano le vicende di un singolo sovrano nordico (come la “Saga di Sverrir”) o di un’intera dinastia (come la Heimskringla, il “Cerchio del mondo”);
- le “Saghe degli Islandesi”, i cui protagonisti sono i colonizzatori dell’Islanda, vissuti tra la fine del IX e la fine del X secolo;
- le “Saghe dell’età contemporanea”, sui conflitti che hanno lacerato l’isola tra XII e XIII secolo;
- le “Saghe del tempo antico”, su figure leggendarie vissute prima della colonizzazione dell’Islanda;
- le “Saghe dei vescovi”, biografie dei vescovi delle due diocesi islandesi;
- le “Saghe dei santi”, traduzioni e rielaborazioni in norreno di testi agiografici latini e tedeschi;
- le “Saghe dei cavalieri tradotti”, traduzioni in norreno di testi cortesi ed epici continentali, eseguite in parte su iniziativa di re Hákon IV di Norvegia;
- le “Saghe originali dei cavalieri”, testi composti in Islanda su imitazione sia delle traduzioni di letteratura cortese e cavalleresca, sia delle “Saghe del tempo antico”.
Quali mondi narrativi costruiscono le saghe?
In un certo senso ogni saga – come, in generale, ogni testo – costruisce il proprio mondo narrativo. Potremmo però dire, semplificando un po’ la questione, che le saghe “realistiche” costruiscono un mondo narrativo conforme all’idea di realtà dei loro autori e del loro pubblico: dunque un mondo in cui a elementi realistici tratti dall’esperienza quotidiana e dalla memoria storica si affiancano temi e motivi di un soprannaturale creduto o, almeno, non negato.
Quali sono le principali caratteristiche stilistiche delle saghe?
I diversi generi di saghe presentano tra loro differenze stilistiche profonde. Solitamente, quando si parla di stile delle saghe si fa principalmente riferimento allo stile delle saghe realistiche: le “Saghe degli Islandesi” in primo luogo, ma anche le “Saghe dei re”, quelle “dell’età contemporanea” e, almeno in certa misura, a quelle “dei vescovi”. L’attenzione a questi generi è giustificata da una strategia narrativa effettivamente sorprendente e che appare unica nella narrativa medievale. Questa strategia narrativa viene generalmente indicata con l’etichetta “stile oggettivo” e consiste principalmente nella narrazione “dall’esterno”: il narratore di una saga descrive quello che un testimone avrebbe potuto vedere o sentire, senza riferire quanto avviene nell’intimo dei personaggi. In realtà il narratore è costretto a volte a venir meno a questo principio, ma l’abilità degli autori di queste saghe consiste anche nel mascherare abilmente queste violazioni all’interno del testo.
In che modo alcune di queste saghe sono entrate a far parte del canone letterario occidentale?
Come dicevamo, a partire dal XVIII secolo le saghe sono diventate accessibili ai lettori colti di tutto il mondo. È interessante che, da allora, siano stati diversi tipi di saghe a incontrare il gusto di scrittori e critici a seconda delle scuole letterarie di volta in volta dominanti. Così, in epoca romantica, erano soprattutto le “Saghe del tempo antico” ad appassionare un pubblico alla ricerca di narrazioni arcaiche, di elementi mitici e di esperienze “sublimi”: guerrieri che si risvegliavano nel tumulo mortuario, spade avide di sangue, visioni di valchirie. Con la fine del XIX secolo, conformemente all’egemonia del realismo e del naturalismo, l’interesse si è spostato verso le “Saghe degli Islandesi” e testi come la Njáls saga (“Saga di Njáll”) e la Egils saga Skallagrímssonar (“Saga di Egill Skallagrímsson”) sono stati riconosciuti come capolavori della letteratura universale. Mi sembra peraltro significativo che, parlando dello stile delle “Saghe degli Islandesi”, sia diventato quasi un topos, in questo periodo, paragonarle allo stile di Hemingway.
Fulvio Ferrari insegna Filologia germanica all’Università degli Studi di Trento. Si occupa di saghe nordiche, di letteratura svedese e nederlandese medievale e della ricezione in epoca moderna di testi letterari germanici. Ha tradotto in italiano la Saga di Oddr l’Arciere (1994) e la Saga di Egill il Monco (1995).