
A suggellarne, anche a livello di cultura diffusa, l’immagine di potenza contribuì poi in maniera determinante l’inserimento, tra 1941 e 1947, degli stemmi delle quattro città nell’emblema araldico della Regia marina: il paradigma aveva, così, ottenuto la sua definitiva consacrazione. Per uno strano scherzo del destino, tuttavia, proprio lo stemma della Marina militare (non a caso riportato nella coperta del libro), avrebbe rappresentato uno spartiacque. Sul versante storiografico, infatti, la nozione di repubbliche marinare aveva da allora conosciuto una perdita di interesse e un progressivo accantonamento, dovuti proprio a quella forzatura terminologica iniziale, che aveva accomunato sotto la medesima espressione – repubblica – quattro realtà tra loro disomogenee e difficilmente riconducibili, sotto l’aspetto costituzionale, a unità. Di contro, a livello di cultura diffusa il concetto di repubbliche marinare non aveva smesso di beneficiare di un consenso largo e di una riconoscibilità immediata, alimentati anche dal folclore e dalla forza delle tradizioni, almeno da quando, nel 1956, era stata organizzata la prima regata storica, o palio, delle antiche repubbliche marinare, che ancora oggi si disputa a rotazione fra le quattro città. In qualche modo il mito delle repubbliche marinare e la loro rappresentazione si erano presi la rivincita sui dubbi e le esitazioni della storia ufficiale e accademica.
Quando e come si sviluppò la potenza delle maggiori città marittime del Medioevo italiano?
Sebbene con diverse cronologie, possiamo collocare l’ascesa e l’affermazione marittima delle quattro città in uno stesso contesto storico-ambientale, quel Mediterraneo che a partire dall’VIII secolo si era andato sempre più trasformando in un mare arabo (e in parte bizantino). L’irruzione degli arabi, che in breve tempo avevano occupato le coste dell’Africa settentrionale, la penisola iberica e la Sicilia, aveva di fatto tramutato i mari più prossimi alle coste italiane in una frontiera di scontro e di contatto con il vasto mondo musulmano e con la pericolosa pirateria saracena ad esso collegata.
La prima città a sfruttare appieno la sua collocazione strategica ai bordi del mare arabo-bizantino e a cogliere tutte le potenzialità che una tale funzione di prima periferia e di più immediato mercato di connessione tra Occidente e Oriente le stavano spalancando fu Amalfi. Già nei decenni iniziali del IX secolo, dopo aver acquisito una indipendenza di fatto dall’impero orientale, la città aveva cominciato a muoversi con audacia e grande profitto nella intricata trama dei rapporti mediterranei, sfruttando appieno le opportunità insite nel suo ruolo di margine, volutamente poroso e accessibile. La conseguenza era stata l’accelerazione dei commerci e lo sviluppo repentino dei suoi traffici, ben presto indirizzati verso i mercati della Sicilia, del Maghreb e dell’Egitto, e di là sino alla lontana capitale bizantina. Prima ad emergere come potenza marinara, Amalfi fu anche la prima a eclissarsi, potendosi ritenere la sua epopea marittima già conclusa in pieno XII secolo.
Per molti versi simili furono le parabole ascendenti di Pisa e Genova, peraltro collocate entrambe nello stesso quadrante del Mediterraneo, quello nord-occidentale: così vicine da risultare ben presto di intralcio l’una per l’altra. Sebbene con una evidente sfasatura temporale a favore di Pisa, più precoce nell’affermare la propria supremazia, entrambe le città marinare conobbero una rapida crescita dopo lo sfaldamento dell’impero carolingio, quando, anche per effetto di un impero bizantino sempre più lontano e latitante, il Tirreno settentrionale era diventato oggetto delle mire espansionistiche dei musulmani. Per lungo tempo, il confronto/incontro con il mondo arabo-musulmano era stato soprattutto di natura bellica, culminato con l’impresa della conquista pisana delle Baleari (tra 1113 e 1115) e con la spedizione genovese di annessione di Almeria e Tortosa (tra 1146 e 1148). Ma la vera affermazione economico-commerciale si ebbe solo quando le due città riuscirono a passare da questa prima fase sostanzialmente bellicosa, a una maggiormente propensa a interagire su un piano economico con l’antagonista e a regolarizzare i reciproci rapporti. Per entrambe fu ben presto chiaro, infatti, come fosse più utile e vantaggioso confrontarsi con un partner commerciale piuttosto che continuare a scontrarsi a oltranza con un nemico.
Anche Venezia aveva saputo trarre i massimi profitti dalla sua funzione di periferia e cerniera tra Oriente e Occidente. Tuttavia, la sua affermazione marittima e commerciale si era consumata in un contesto che era rimasto a lungo bizantino. La città, infatti, aveva continuato per molto tempo a sentirsi parte dell’impero orientale e a mantenere ininterrotti i suoi legami con il mondo greco. Ovviamente, anche nel caso di Venezia la crescente debolezza dell’impero bizantino aveva presto favorito i processi autonomistici; tuttavia, la città aveva preferito mantenere, almeno formalmente, i legami di subordinazione all’impero, per le opportunità economico-commerciali che Bisanzio assicurava a una realtà dinamica e intraprendente come quella veneziana. Di fatto, bisognerà attendere il passaggio al nuovo millennio per parlare a tutti gli effetti di una piena indipendenza; non a caso coincidente con la grande impresa realizzata nell’anno 1000 dalla città in Dalmazia, quando la sua flotta aveva annientato la pirateria slava e imposto la propria supremazia sull’Adriatico, viatico per la futura affermazione nel Mediterraneo.
In che modo le repubbliche marinare parteciparono alla stagione delle crociate?
Il grado di partecipazione delle quattro città alla stagione delle crociate fu indubbiamente diverso; nel complesso, tuttavia, furono proprio le crociate a rappresentare per le emergenti città marinare italiane la spinta decisiva verso una dimensione di grande potenza marittima e commerciale e l’occasione per proiettarsi in forze e definitivamente verso il Levante mediterraneo.
Fu Genova a intuire per prima i benefici e le prospettive che la partecipazione alla prima crociata, bandita nel 1095 da papa Urbano II, le avrebbero spalancato: un mondo nuovo, disponibile, dalle grandi potenzialità, pronto a essere integrato nella sua orbita commerciale. Non a caso, alla fine di una lunga stagione, essa non solo aveva messo piede in condizioni di assoluto privilegio in tutte le città di Siria e Palestina allora annesse nel regno di Gerusalemme, ma aveva anche preso confidenza con mercati, regioni e distese marine che fino ad allora le erano stati estranei. Era stato l’inizio di una rapida penetrazione nel Mediterraneo orientale, che l’avrebbe presto portata a consolidare una presenza capillare nelle piazze orientali, ma anche a scontrarsi ripetutamente con Venezia, da tempo più familiarizzata con quegli stessi mari e commerci.
La partecipazione di Pisa era stata, invece, meno convinta, anche se si era conclusa, nel Natale del 1099, con un evento capace di dare grande prestigio internazionale alla città, ossia l’insediamento del suo arcivescovo, Daiberto, sul seggio patriarcale di Gerusalemme, appena conquistata. Per il resto, essa aveva raccolto dall’impresa solo frutti modesti, tanto che il suo orizzonte aveva continuato a essere, anche dopo la spedizione, per lo più il Mediterraneo occidentale.
Amalfi, invece, non aveva partecipato affatto alla prima crociata, né tantomeno a quelle successive; una assenza probabilmente fatale, che ne aveva ulteriormente tarpato le ali e accelerato un declino già allora oramai del tutto irreversibile.
Diverso il discorso per Venezia. La città lagunare, infatti, aveva manifestato inizialmente una certa riluttanza verso un’impresa, la prima crociata, che rischiava di comprometterne la posizione di preminenza commerciale da tempo acquisita nel Levante bizantino; solo di fronte ai vantaggi ottenuti dalle rivali e al timore di perdere un’occasione irripetibile essa aveva, infine, deciso di abbandonare ogni prudenza e di partecipare in forze alla spedizione. Tuttavia, fu la quarta crociata (1202-1204) a rappresentare per la città la grande occasione per imporre la propria supremazia, pressoché in esclusiva, sui mari e sui mercati d’Oriente. Si trattò di un’impresa del tutto anomala, in quanto non raggiunse mai la Terrasanta, ma si concluse con la conquista di un impero cristiano – per quanto ortodosso – come l’impero bizantino; sulle spoglie di quell’impero, Venezia seppe abilmente costituire il proprio Commonwealth marittimo, esteso a tutto il Mediterraneo orientale, con capisaldi nelle coste balcaniche e in diverse isole egee, in particolare Creta e Negroponte. La crociata inaugurò dunque per la città lagunare un’epoca di grande dinamismo e di prepotente espansione marittima, denominata anche età del gran guadagno. In particolare, si costituì da allora, nei territori già soggetti a Bisanzio, una Romània veneziana, sottoposta alla supremazia commerciale del comune marciano, con ciò assicurando ai mercanti lagunari dei vantaggi enormi sui concorrenti diretti.
Come si svilupparono le rivalità e gli scontri pisano-genovese e veneto-genovese?
A partire dal XIII secolo, quando Pisa, Genova e Venezia si erano ormai pienamente affermate come potenze marinare di assoluta grandezza, si sviluppò una rivalità interna alle tre città, di natura sia militare che economica, per il predominio marittimo e commerciale. Inizialmente i contrasti riguardarono soprattutto Pisa e Genova, in lotta tra loro per l’egemonia sul Tirreno: troppo vicine le due città per non essere di intralcio l’una alle mire espansionistiche dell’altra, ma soprattutto troppo coinvolte sugli stessi obiettivi sensibili per non rischiare ogni volta lo scontro frontale e la difesa in armi degli interessi conseguiti. Tutto era, nel loro caso, forzatamente (e pericolosamente) in comune: rotte, linee di traffico, mercati, aree di penetrazione commerciale. Alla fine, fu quasi inevitabile il ricorso alla forza. Lo scontro culminò, nell’estate del 1282, con una battaglia navale epica, la Meloria, che vide Pisa, già da qualche tempo in difficoltà, soccombente. Fu l’inizio del suo declino, divenuto palese qualche decennio più tardi con la perdita della Sardegna. Alla lunga, il Tirreno si era dimostrato un mare troppo stretto per contenere le ambizioni di egemonia di entrambe; a farne le spese fu, dunque, la città toscana, che dopo la Meloria era andata incontro a una inesorabile riduzione della sua dimensione marittima.
Nel caso della rivalità tra Genova e Venezia, a diventare pericolosamente stretto era stato, invece, l’intero Mediterraneo orientale. La conflittualità, che si sarebbe poi protratta per quasi due secoli, fu innescata dalla quarta crociata, che aveva concesso ai veneziani il monopolio in esclusiva dei commerci nel Levante bizantino, a tutto discapito di Genova, allora in prepotente ascesa. Ovviamente, la città ligure non poteva accettare una simile situazione, così penalizzante per la sua economia; fece, pertanto, di tutto per cercare di scardinare quel predominio assoluto e invertire di segno un rapporto che la vedeva in una posizione del tutto subalterna. Ci riuscì a distanza di pochi decenni, nel 1261, con il trattato di Ninfeo, capace in un attimo di stravolgere la carta geopolitica del Levante mediterraneo: Venezia fu spazzata via da terre e mercati che dominava da tempo immemorabile e al suo posto si impose incontrastata la città rivale. Fu l’inizio della prima di una lunga serie di guerre veneto-genovesi per l’egemonia mediterranea: ben quattro in tutto, di cui l’ultima, nota anche come guerra di Chioggia (conclusasi nel 1381), aveva portato la città lagunare quasi sull’orlo del baratro, da cui si era salvata solo grazie a immani sforzi economici e militari e a una coesione interna del tutto estranea all’antagonista. Tuttavia, due secoli di guerre non avevano espresso un vero vincitore, né tantomeno avevano prospettato rimedi plausibili per risolvere la questione della supremazia marittima tra le due rivali. Semmai, essi avevano evidenziato come l’unica soluzione possibile fosse quella di mantenere gli equilibri faticosamente raggiunti e di accettare la realtà di un Mediterraneo in stretta coabitazione.
Quali caratteri e strutture avevano gli insediamenti oltremare delle repubbliche marinare?
Uno dei capisaldi delle politiche economiche delle città marinare fu lo stanziamento fuori patria di una fitta rete di insediamenti mercantili, dipendenti dalla capitale, indispensabili per poter trafficare, anche in terra straniera, sotto la protezione di strutture legali ed economiche capaci di assicurare loro ampi margini di movimento e commercio. Ovunque tali città avessero messo piede, infatti, avevano contrattato con i signori locali la concessione di un quartiere, un fondaco o un terreno dove esercitare la mercatura in libertà e sicurezza, beneficiando delle necessarie garanzie giuridiche. Pur variabili nella morfologia e nelle dimensioni, tali spazi erano accomunati dall’ampia autonomia di cui godevano e dall’essere sottoposti alla giurisdizione di un funzionario inviato direttamente dalla madrepatria.
Di norma, ogni insediamento era provvisto, oltre che di magazzini, case e botteghe, di un bagno pubblico, un forno e un pozzo. Nei quartieri più grandi, spesso fortificati, essi disponevano pure di uno o più scali, una piazza, una loggia (dove veniva esercitata la giustizia e rogavano i notai) e una taverna. Infine, non mancavano mai una cappella o un oratorio, talora pure un cimitero, dove i mercanti potessero professare la loro fede e ricevere i sacramenti secondo i riti della chiesa romana.
Tale rete di stabilimenti è stata efficacemente definita, in riferimento ad Amalfi e Pisa, come un sistema: un complesso molto articolato e flessibile di insediamenti, nato da necessità di adattamento e collegamento con mari e mercati lontani e dalla urgenza di intrattenere legami elastici e aperti con ogni lembo del Mediterraneo dove esse avessero interessi e frequentazioni. In riferimento, invece, alla variegata galassia di possedimenti e dipendenze marittimi di Genova e Venezia la storiografia ha da tempo coniato una definizione di grande efficacia, quella di commonwealth, che sembra meglio identificare realtà contraddistinte da una scarsa continuità territoriale, da una estrema varietà giurisdizionale e da una diffusa incoerenza amministrativa. Dentro, infatti, c’era un po’ di tutto: dal quartiere dipendente direttamente dalla lontana madrepatria al fondaco soggetto alla potestà dei signori locali; dall’isola di stretto dominio di una famiglia genovese o veneziana al territorio controllato da associazioni private (le “maone” genovesi); dall’ampio possedimento territoriale (si pensi alle isole di Creta, Negroponte o Cipro soggette a Venezia) alla sovranità su piccoli distretti marittimi.
Qual è l’eredità di quella epopea?
A determinare la decadenza delle città marinare italiane furono cause endogene e cause esogene. Tra le prime, un ruolo primario ebbe la repentina e a tratti inarrestabile espansione turca nel Mediterraneo orientale, capace di trasformare quel mare in un lago quasi completamente ottomano. A farne le spese fu per prima Genova, potenza già in declino in pieno XV secolo, che si rivelò incapace di opporre una qualche resistenza all’ondata di piena turca: davanti alla prepotente avanzata nemica, l’intero sistema dei suoi domini orientali crollò quasi come un castello di carte. Maggiore resistenza oppose, invece, Venezia, che dopo le prime pesanti sconfitte cominciò a guardare con rispetto e timore a un nemico che si era presto dimostrato superiore e invincibile anche sul mare. Da allora era iniziato un lungo periodo di difficile condominio tra le due potenze, contrassegnato da una lenta ma inesorabile dissoluzione dei domini marittimi della città lagunare, sino alla perdita nel 1699 di Creta, ultimo avamposto rimastole nel Levante mediterraneo. Tra le cause esogene va, ovviamente, ricordata la stagione delle scoperte geografiche e l’apertura delle nuove rotte oceaniche, che avevano velocemente modificato gli assetti e gli itinerari del commercio internazionale, condannando il Mediterraneo a un ruolo periferico. L’espansione europea di fine Quattrocento, infatti, aveva progressivamente spostato altrove i centri dell’economia mondiale, ridimensionando inesorabilmente l’importanza di quel mare che aveva visto nascere e svilupparsi l’epopea delle città marinare italiane.
Alla fine di una lunga stagione di dominio ed egemonia marittima di Amalfi, Pisa, Genova e Venezia non erano rimasti che il mito e la memoria. La prima eredità lasciataci dalle quattro città marinare è, dunque, del tutto immateriale: un contributo di civiltà, all’interno di quella vasta koinè umana, economica e culturale che fu e continua a essere il Mediterraneo. Esso fu uno spazio contrassegnato da una fortissima mobilità e da processi continui di scambio, contaminazione e condivisione; al suo interno, le quattro città svolsero a lungo un ruolo imprescindibile di connessione e mediazione, fungendo da vettori di incontro, scontro, confronto e ibridazione. Ma le città marinare ci hanno tramandato anche una eredità materiale. Sono innumerevoli, infatti, le vestigia che quel passato ha disseminato non solo nel Mediterraneo, ma anche in diverse altre parti del continente europeo; basti pensare, per non fare che un esempio, alle tante evidenze architettoniche superstiti, dalle logge e palazzi veneziani diffusi lungo tutto l’Adriatico e l’Egeo, alla torre genovese di Galata a Istanbul o alla Saaihalle di Bruges, sede della stessa natio genovese.
Ermanno Orlando insegna Storia medievale presso l’Università per Stranieri di Siena. Tra i suoi libri: Altre Venezie (IVSLA 2008), Sposarsi nel medioevo (Viella 2010), Migrazioni mediterranee (Il Mulino 2014), Venezia e il mare nel medioevo (Il Mulino 2014), Venezia (CISAM 2016); Medioevo, fonti, editoria (FUP 2016), Spalato, 1420-1479 (IVSLA 2019).