“Le regole dell’informazione. L’era della post-verità” di Gianluca Gardini

Prof. Gianluca Gardini, Lei è autore del libro Le regole dell’informazione. L’era della post- verità edito da Giappichelli: come si configura la libertà di informazione nel quadro costituzionale italiano?
Le regole dell'informazione. L'era della post-verità, Gianluca GardiniVa anzitutto sottolineato che la nostra Costituzione si cura esclusivamente del profilo attivo della libertà di espressione, trascurando o comunque affidando all’opera degli interpreti l’affermazione di uno speculare diritto passivo di essere informati (o riflessivo di informarsi). Questo profilo del diritto di informazione, tuttavia, merita una protezione altrettanto forte: in proposito basti pensare che la libera formazione dell’opinione pubblica, da cui dipende direttamente il corretto funzionamento dell’intero sistema democratico, impone il riconoscimento da parte dell’ordinamento – sia sul piano concettuale sia su quello del diritto positivo – della pretesa a ricevere informazioni, a conoscere quante più idee, opinioni e informazioni sia possibile, in modo da favorire il sorgere nei cittadini di una coscienza critica e di un’opinione consapevole. Come è stato incisivamente affermato, «l’essere informati rappresenta una premessa indispensabile del buon funzionamento di un regime liberal-democratico». Al punto che senza un diritto di ricevere informazioni «non potrebbe neppure fondarsi ed esistere una democrazia del tipo in cui si colloca l’Italia, perché il voto non sarebbe libero, il controllo sugli organi di Governo diverrebbe impraticabile, la vita politica stessa risulterebbe svuotata dei suoi contenuti essenziali» [L. Paladin, Problemi e vicende della libertà di informazione nell’ordinamento giuridico italiano, in Id. (a cura di), La libertà di informazione, Torino, 1979]. Né si può dimenticare che l’esistenza di un diritto all’informazione rappresenta un’importante garanzia per il funzionamento delle istituzioni democratiche, visto che il dovere informativo dei pubblici poteri è espressione diretta della sovranità popolare. Tutti i poteri pubblici, infatti, dovrebbero essere tenuti ad esercitare un potere visibile e palese, controllabile da parte dei cittadini: secondo una notissima espressione, ormai entrata a far parte del sapere comune, il governo della democrazia si caratterizza infatti come «potere pubblico in pubblico» [N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1984].

II diritto a informarsi e ad essere informati, inoltre, serve ad attenuare l’asimmetria informativa che separa l’amministrazione dal cittadino, consentendo una funzione di controllo e vigilanza sull’esercizio del potere: come insegnano gli studi di Joseph Stiglitz sulle implicazioni economiche delle asimmetrie informative, l’accesso diseguale alle informazioni dà modo ai funzionari pubblici di «perseguire politiche che sono ideate più nel loro interesse che nell’interesse dei cittadini. L’incremento nell’informazione e nelle regole che ne disciplinano la diffusione può ridurre la portata di questi abusi» [J. Stiglitz, Transparency in Government, in World Bank Institute, The Right To Tell: The Role of the Mass Media in Economic Development, Washington, D.C., 2002, 28]. In quest’ottica, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale dell’ONU del 1948 (e dunque coeva alla Costituzione italiana) garantisce la libertà di informazione in riferimento a ogni profilo in cui essa si manifesta, stabilendo che «ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere». In modo ancor più netto la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali stabilisce che «Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera» (corsivo mio).

Nel nostro ordinamento, il vuoto costituzionale in tema di libertà passiva (e riflessiva) di informazione finisce per scaricare l’intera problematica sugli interpreti, alla cui opera ricostruttiva è affidata in ultima istanza la possibilità di un riconoscimento di questo diritto fondamentale. Per quanto concerne la libertà di ricevere informazioni da altri diffuse, l’opinione prevalente ritiene che essa goda direttamente delle garanzie di cui all’art. 21, comma 1, Cost., dal momento che, se non potesse predicarsi la libertà di ricevere, verrebbe logicamente ridotta anche la libertà di diffondere informazioni tra gli interessati. Per quanto concerne la libertà di attivarsi per ricercare e acquisire notizie e informazioni, ancorché non spontaneamente diffuse (cd. libertà riflessiva), alcuni evidenziano la “strumentalità necessaria” che questa libertà riveste rispetto all’esercizio della libertà attiva di informare, da cui deriverebbe un’automatica estensione alla prima delle guarentigie previste per la seconda: ci troveremmo in presenza, in altri termini, di una figura unitaria, un’unica libertà (attiva e riflessiva), cui presiede un’identica garanzia costituzionale [A. Lojodice, Contributo allo studio sulla libertà di informazione, Jovene, Napoli, 1969]. I sostenitori di questa tesi fanno notare, in via esemplificativa, che l’attività giornalistica di diffusione non potrebbe svolgersi se non attraverso una previa (e strumentale) attività di indagine e ricerca delle notizie da pubblicare: cosicché non avrebbe senso tutelare intensamente la prima libertà, lasciando invece scoperta la seconda, che ne costituisce il presupposto logico.

Quali sono i limiti alle libertà di manifestazione del pensiero?
Anche in questo caso, il problema deriva dalla lacunosità dell’art. 21 Cost. e dall’assenza di previsioni esplicite in merito: se si eccettua il limite fissato dall’ultimo comma in riferimento al buon costume, nessuna indicazione espressa proviene dal testo costituzionale circa i limiti alla libertà di espressione. Pertanto, ricade interamente sugli interpreti il compito di determinare, attraverso una lettura sistematica delle norme costituzionali, l’estensione di questa libertà e la sua compatibilità con altre posizioni tutelate dall’ordinamento.

Se è chiaro che il diritto di libertà di manifestazione può essere limitato solo qualora entri in conflitto con un altro interesse parimenti garantito in Costituzione – e, anche in questo caso, occorre operare un giudizio di prevalenza o di soccombenza del valore in concreto dei due interessi costituzionali contrapposti [Barile, 1975] –, è altrettanto chiaro che il problema dei limiti, in questo modo, è soltanto impostato e non risolto [Paladin, 1979].

In assenza di parametri certi, non resta che cercare un criterio razionalizzante che distingua limiti espliciti e limiti impliciti e, all’interno di questi ultimi, limiti di natura individuale, da un lato, e limiti di natura collettiva o pubblicistica, dall’altro. L’unico limite alla libertà di manifestazione del pensiero fissato in forma esplicita dal testo costituzionale è quello relativo al buon costume, in ragione della sua «particolare rilevanza» (Corte cost., sent. n. 120/1968). Il fatto che questo limite sia fissato in forma esplicita, si badi, non semplifica l’opera interpretativa: il termine “buon costume” è oggetto di un intenso dibattito in dottrina e in giurisprudenza, a causa dell’indeterminatezza del concetto. Come altri termini di cui l’ordinamento fa uso (buon padre di famiglia, buona o mala fede, lealtà, correttezza, dignità sociale ecc.), il buon costume tende a configurarsi come “concetto giuridico indeterminato” e indeterminabile, ossia una nozione giuridica – secondo la teorizzazione offerta dalla dottrina germanica – la cui portata semantica e precettiva è interamente (e consapevolmente) rimessa alle indicazioni degli interpreti.

Per quanto riguarda invece i limiti impliciti di natura individuale vengono in rilievo, anzitutto, quelli legati ai cd. diritti della personalità, ossia tutti i limiti riconducibili ad altri diritti individuali che possono legittimare altrettante restrizioni alla libertà di espressione del pensiero [Barbera, Cocozza, Corso, 1997]. In questo senso, i limiti individuali rappresentano una categoria aperta, non delimitabile a priori, che coincide con i diritti della personalità cui la nostra Carta costituzionale, in una prospettiva diacronica ed evolutiva, consente di offrire protezione. Si pensi, per fare alcuni esempi, ai cd. nuovi diritti della personalità, come il diritto alla libertà sessuale, all’obiezione di coscienza, all’oblio, all’identità personale. Ovvero a diritti più tradizionali, come l’onore, il decoro e la reputazione delle persone interessate da forme di manifestazione del pensiero o da attività di informazione, tutti valori ricavabili attraverso una lettura sistematica del testo costituzionale (in particolare, agli artt. 2, 3, 13, 19 Cost.), ma che non ricevono espressa tutela nella nostra Carta costituzionale.

Ai limiti di natura individuale si contrappongono i limiti di natura pubblicistica, rivolti alla tutela di finalità collettive; si pensi all’ordine pubblico, alle esigenze di giustizia, alla salvaguardia dell’onore delle istituzioni, ai segreti (di stato, professionali etc.)
Anche per i limiti impliciti di natura pubblicistica non può che ripetersi quanto osservato in riferimento ai limiti impliciti di natura individuale: in assenza di parametri sicuri forniti dal costituente, il giudizio di prevalenza/soccombenza rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero dipenderà essenzialmente dalla sensibilità dell’interprete, ora maggiormente attenta alle esigenze di libertà, ora a quelle di convivenza sociale.

Come si configurano nel nostro ordinamento il diritto di cronaca, critica e satira?
Il diritto di cronaca si caratterizza sostanzialmente come il diritto di raccontare notizie e pensieri prevalentemente altrui. In dottrina viene evidenziato il rapporto di “strumentalità necessaria” che intercorre tra la libertà (riflessiva) di ricercare informazioni e la libertà attiva di informare, al punto che alcuni autori ritengono che si tratti in realtà di una figura unitaria, un’unica libertà (attiva e riflessiva), cui presiede un’identica garanzia costituzionale [Lojodice, 1969]. Allo stesso tempo, si sottolinea come alle limitazioni alla libertà di ricevere informazioni (libertà passiva) corrispondano invariabilmente uguali limitazioni alla libertà (attiva) di diffondere informazioni nella società. Ebbene, i tre versanti della libertà di informazione si saldano perfettamente tra loro nel caso del diritto di cronaca, che si pone al centro del fascio di interessi spettanti al giornalista che ricerca e diffonde informazioni, da un lato, e al cittadino che legge o ascolta le notizie diffuse dai mezzi di comunicazione, dall’altro.

È bene chiarire che, in forza di quanto affermato dalla Corte costituzionale nel sostenere la legittimità costituzionale dell’ordine dei giornalisti, la titolarità del diritto di cronaca non può essere limitata esclusivamente a favore del giornalista, ma dev’essere estesa a tutti coloro che, anche occasionalmente, esprimono il proprio pensiero attraverso la stampa o altri mezzi di informazione.

Una importante sentenza della Corte di Cassazione (cd. sentenza decalogo, 18 ottobre 1984, n. 5259), nel sostenere la possibilità di adire direttamente il giudice civile per il risarcimento dei danni conseguenti all’illegittimo esercizio del diritto di cronaca (senza dover necessariamente presentare querela in sede penale contro l’autore della condotta diffamatoria), indica in modo puntuale i diversi requisiti che rendono legittimo l’esercizio del diritto di cronaca, da cui discende la codificazione giurisprudenziale di una sorta di “decalogo dei giornalisti”. In particolare, secondo la sentenza del 1984, il diritto di cronaca è legittimamente esercitato quando concorrono le diverse condizioni della utilità sociale dell’informazione, della verità della notizia (oggettiva o anche soltanto putativa, purché, in questo caso, frutto di serio e diligente lavoro di ricerca), nonché della forma civile della esposizione dei fatti e della loro valutazione (cd. continenza). La carenza anche di uno solo di questi requisiti fa rivivere il diritto inviolabile all’onore del singolo individuo in tutta la sua pienezza, rendendo illecita la manifestazione del pensiero: non è più configurabile l’esimente dell’esercizio legittimo del diritto di cronaca e, pertanto, il fatto integrerà gli estremi del reato di diffamazione.

Il diritto di critica, secondo l’orientamento da tempo seguito dalla Corte di Cassazione, si differenzia da quello di cronaca essenzialmente perché il primo, contrariamente al secondo, non consiste nella narrazione di meri fatti, bensì nell’espressione di un giudizio o, più genericamente, di un’opinione che, come tale, «non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un’interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti» (Cass. pen., 3 luglio 1993, n. 6493). Il requisito della verità assume pertanto una configurazione peculiare quando viene applicato al diritto di critica. Sul punto, le opinioni degli interpreti sono decisamente variegate: alcune voci sostengono che la critica non possa ritenersi soggetta al medesimo limite, caratterizzato dallo stesso rigore, che viene imposto alla cronaca. Ciò che comunque sembra essere rilevante nell’esercizio della critica, ai fini della esimente per legittimo esercizio del corrispondente diritto, è il riscontro serio e professionale delle fonti informative, a verifica della corrispondenza tra quanto affermato e quanto effettivamente accaduto.

Infine, tra le varie forme di espressione del pensiero si colloca anche la satira, la cui caratteristica distintiva consiste nel raccontare la realtà attraverso la burla, l’esagerazione e l’estremizzazione dei fatti, suscitando l’ilarità nei destinatari del messaggio. In questo senso, il confronto con i caratteri che legittimano l’esercizio del diritto di cronaca evidenzia, in primo luogo, un minor rilievo da attribuire alla verità dei fatti: la satira «è legittima anche se offre una rappresentazione surreale della realtà dei fatti, purché rilevante in relazione alla notorietà della persona, con il limite dell’attribuzione di fatti non veri» (Cass. n. 13563/1998). Analogo discorso vale anche per il limite della continenza, di per sé inapplicabile a una manifestazione che, come la satira, fa comunemente uso del paradosso, dello sberleffo, dell’immagine iperbolica, dell’esagerazione verbale per suscitare l’ilarità dello spettatore.

Come vengono disciplinate nel nostro Paese la stampa e la professione giornalistica?
La stampa riceve un’attenzione speciale da parte della nostra Costituzione. Le ragioni di questa più ampia tutela vanno probabilmente rintracciate «nella secolare rivendicazione dell’immunità di tale mezzo da censure e da autorizzazioni preventive» [Pace, 1992], che affonda le proprie radici nella filosofia liberale e democratica.

La Costituzione repubblicana dedica un’attenzione del tutto particolare alla stampa, rispetto a quella prestata agli altri media e alle altre forme di comunicazione sociale. Le ragioni della scelta del costituente sono evidenti, dal punto di vista socio-politico: questa visione fondamentalmente “retrospettiva” è volta a evitare che, nel mutato quadro costituzionale, si riproducano forme di controllo autoritario dei pubblici poteri sulla libertà di stampa, analoghe a quelle avute durante il ventennio fascista.

Parlare di stampa significa porsi di fronte a un’attività complessa, articolata in momenti autonomi, che sono retti da regole indipendenti: basti pensare, per avere la misura di questa complessità, che con il termine “stampa” si indica tanto l’attività professionale (giornalismo), quanto l’attività imprenditoriale (impresa editoriale), che il bene economico posto in vendita (quotidiano o periodico) e il prodotto intellettuale messo in circolazione (articolo all’interno del quotidiano o periodico). Si tratta di una nozione composita, a cui sono ascrivibili attività e fenomeni diversi, non sempre accomunati da una disciplina unitaria.

Diversamente da quanto avvenuto per la radiotelevisione, la stampa ha seguito sin dall’origine il modello dell’impresa privata: ciò si è verificato in Italia, ma, più in generale, in tutti gli ordinamenti di stampo liberale, «per ragioni d’ordine storico-politico» [Pace, 1992]. Questo modello si è riproposto anche a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, non avendo mai incontrato seguito la tesi del “servizio pubblico essenziale” che, all’opposto, indusse il legislatore alla formazione di un monopolio pubblicistico nei settori della radiotelevisione e delle telecomunicazioni.

Il settore editoriale, dal punto di vista normativo, si caratterizza per l’alto grado di frammentarietà [Bianchi, 2000]. Mentre il quadro dei “delitti” a mezzo stampa è tutto sommato circoscrivibile, specie dopo le leggi nn. 205/1999 e 85/2006 che hanno provveduto a sfoltire alcune anacronistiche ipotesi di reato ancora presenti nel panorama legislativo italiano – e, si noti, pur in mancanza di un’unica legge sulla stampa che il dettato costituzionale sembrerebbe imporre –, la disciplina in materia di editoria è caratterizzata da notevole complessità, a causa di una serie di stratificazioni successive. Questo settore, a differenza di quanto avvenuto in molti altri paesi europei, non ha ricevuto una regolamentazione organica fino agli anni Ottanta: la presenza di grandi gruppi economici nella proprietà delle maggiori imprese editoriali e di pubblicità, unita alla perdurante assenza di una legislazione antimonopolistica, rendono difficile fornire un assetto giuridico compiuto a questo settore [De Siervo, 1990]. Sarà la legge n. 416/1981, per la prima volta, a tentare di risolvere i problemi di fondo della stampa, e non solo quelli contingenti [Valastro, 2003a], definendo la struttura fondamentale della materia.

L’attività delle imprese editoriali è regolata attraverso normative speciali, che ne marcano la distanza rispetto alle altre attività economiche: ciò, in ragione del particolare ruolo che l’attività informativa riveste all’interno di una società moderna per la realizzazione compiuta dei valori democratici. In questo senso, tuttavia, non è sufficiente una disciplina delle diverse attività imprenditoriali e professionali, ma occorre che si sviluppino interventi ad ampio raggio, attraverso forme di sostegno economico all’editoria e alle imprese connesse, specifiche regolazioni del processo produttivo, della distribuzione e della vendita di quotidiani e periodici, speciali regole anticoncentrazione settoriali e intersettoriali e obblighi di trasparenza sui finanziamenti.

Quali peculiarità giuridiche presenta l’intervista?
Cercando di sintetizzare le diverse posizioni espresse in merito, un primo orientamento particolarmente restrittivo afferma che il giornalista, nel riportare le dichiarazioni dell’intervistato, risulterebbe obbligato non solo a rispettare fedelmente il loro esatto contenuto, ma anche a verificare tanto la loro rispondenza al vero, quanto la loro continenza formale, ossia la forma civile dell’esposizione (tra le altre, Cass. pen., 11 aprile 2000, n. 7498).

Un secondo orientamento giurisprudenziale, di tenore opposto a quello ora riportato, ritiene invece che nell’intervista sarebbe configurabile l’esimente putativa del diritto nei confronti del giornalista tutte le volte in cui la notizia è costituita non solo e non tanto dal contenuto delle dichiarazioni rese (di pubblico interesse) dall’intervistato, quanto dalle caratteristiche del soggetto che rilascia l’intervista, idonee a creare particolare affidamento sulla veridicità delle sue affermazioni.

Da ultimo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che il (contestuale) rispetto dei requisiti della verità, dell’interesse sociale della notizia e della continenza non possa essere richiesto in forma generalizzata, essendovi casi in cui l’interesse sociale della notizia si rivela di un’importanza tale da comportare la prevalenza sugli altri due (SS.UU., 16 ottobre 2001, n. 37140). In base a questa precisazione, nel pubblicare un’intervista diffamatoria andrà certamente considerato l’interesse del pubblico a conoscere le opinioni espresse da un personaggio noto e quindi socialmente qualificato, indipendentemente dalla verità oggettiva dei fatti da questo narrati e dalla correttezza delle espressioni usate. In questo senso, «il giornalista che pubblica un’intervista prescindendo dal controllo della veridicità del suo contenuto, deve perciò essere sicuro della posizione di alto rilievo dell’intervistato e dell’interesse della collettività a essere informata del suo pensiero sull’argomento che forma oggetto dell’intervista medesima».

Nel nostro Paese sopravvive il meccanismo della revisione preventiva delle opere cinematografiche: si può parlare ancora di censura?
Nonostante il disposto dell’art. 21 Cost. vieti ogni forma di autorizzazione e censura alla libertà di espressione del pensiero, e l’unico limite posto esplicitamente dalla Costituzione sia quello del buon costume, la legge di riordino del settore (legge n. 161/1962) ha confermato il meccanismo della revisione per le opere cinematografiche, basato su un sistema di visione e approvazione preventiva dei contenuti della pellicola da proiettare. Tale meccanismo sopravvive tutt’oggi, nonostante le svariate critiche di cui è stato fatto oggetto, e ad esso vanno a sommarsi i cd. poteri di polizia dello spettacolo durante l’esecuzione delle rappresentazioni, in base a quella che viene definita come la “logica del cumulo” delle misure preventive [Caretti, 2001]. I poteri di polizia dello spettacolo perseguono la finalità di verificare la condotta dei cittadini, l’osservanza dei limiti previsti dalla legge per l’esercizio dei loro diritti [Juso, 1967].

La disciplina attuale in tema di revisione prevede che la proiezione in pubblico dei film e l’esportazione all’estero di film nazionali siano soggette a un preventivo nulla osta del Ministero (legge n. 161/1962, modificata dalla legge n. 203/1995, nonché dal d.lgs. n. 3/1998). In seguito alla ricordata soppressione del Ministero del turismo e dello spettacolo, la competenza è attribuita al Ministero per i beni e le attività culturali.

Non di vera e propria censura può parlarsi, quanto di una vigilanza preventiva sulla realizzazione di opere cinematografiche consentita in funzione della tutela del buon costume e di altri interessi costituzionalmente protetti. Una parte della dottrina segnala nel sistema in esame il rischio di violazione del principio della libertà di manifestazione del pensiero. In questo caso, le critiche si concentrano soprattutto sulla possibilità data alla Commissione di sospendere il rilascio del parere, invitando il richiedente a sopprimere o a modificare singole scene o sequenze o battute (art. 8, ultimo comma, d.P.R. n. 2029/1963): nonostante apprezzi l’intento di valutare il principio del contraddittorio nel corso del procedimento amministrativo, la dottrina in esame ravvisa in questa disposizione una scarsa conoscenza del fenomeno cinematografico da parte del legislatore repubblicano, il quale consentirebbe la disgregazione di un film in singole scene, sequenze o peggio fotogrammi, quando l’opera dovrebbe essere riguardata invece nel suo complesso [Viriglio, 2000]. I produttori o i distributori di film, in questo modo, sono forzati ad accettare le richieste di modifiche avanzate dalla Commissione al solo fine di evitare il maggior danno economico che a essi deriverebbe da un eventuale divieto assoluto di proiezione del film. Senza dimenticare le critiche di coloro che, in base a un’interpretazione letterale del testo costituzionale, osservano che la libertà di arte e di scienza, tutelata dall’art. 33 Cost., non contiene alcun riferimento al limite del buon costume, richiamato all’ultimo comma dell’art. 21 Cost. in relazione alla libertà di manifestazione del pensiero, e rilevano in questo aspetto la volontà esplicita del costituente di differenziare queste due libertà.

Quali problemi pone al nostro ordinamento la disciplina giuridica di Internet?
L’avvento e la diffusione di Internet hanno svelato la fragilità dell’intero sistema normativo su cui l’ordinamento tradizionalmente poggiava, un sistema nato per regolare fenomeni “fisici”, che prevedono, ad esempio, l’incontro personale degli agenti o l’appropriazione concreta dei beni. Internet ha spezzato il legame con la materia, sicché i negozi possono essere stipulati e gli illeciti commessi ai capi opposti del pianeta, gli oggetti acquistati e i documenti trafugati con il solo utilizzo del computer. Le nuove frontiere dell’informatica hanno reso necessaria, dunque, una generale revisione delle regole di diritto civile, commerciale e penale, che hanno dovuto adeguarsi alle mutate abitudini di vita dei soggetti chiamati a rispettarle. Il mio manuale non ha certo inteso analizzare questo riordino nella sua complessità: essendo intitolato alle regole dell’informazione, il volume si sofferma sulle problematiche giuridiche che Internet ha posto e pone in qualità di strumento di manifestazione del pensiero e di comunicazione, in qualità di veicolo, appunto, di informazioni. In tale ottica, è esaminata la questione dell’estensibilità alla stampa telematica delle norme – e in particolare delle guarentigie costituzionali – dettate per la stampa cartacea; si discorre dello statuto di blog, forum e social network; è preso in considerazione il problema delle responsabilità civili e penali degli Internet Service Provider, soprattutto nei casi di diffamazione perpetrata online; si affronta il tema del furto di identità in ambito digitale; si ragiona sulle fake news e, ancora, sulla difficoltosa tutela del diritto d’autore in riferimento alle opere digitali. Il manuale illustra le soluzioni che la giurisprudenza ha sinora offerto ad ognuna delle criticità emerse, con la consapevolezza che si tratta pur sempre di risposte perfettibili e suscettibili di evolvere, in corrispondenza dell’evolvere incessante della tecnologia.

È a Suo avviso possibile configurare un diritto costituzionale di accedere alla Rete?
Personalmente ritengo sia auspicabile configurare un diritto costituzionale di accesso alla Rete, poiché Internet rappresenta una straordinaria occasione di scambio, di confronto, di moltiplicazione del sapere e di svolgimento della personalità. La Raccomandazione del Parlamento europeo del 26 marzo 2009, destinata al Consiglio europeo, riassume perfettamente le potenzialità di Internet, identificandolo come «uno strumento indispensabile per promuovere iniziative democratiche, un nuovo foro per il dibattito politico (ad esempio, per campagne elettroniche e il voto elettronico), uno strumento fondamentale a livello mondiale per esercitare la libertà di espressione (ad esempio il blog) e per sviluppare attività commerciali, nonché uno strumento per promuovere l’acquisizione di competenze informatiche e la diffusione della conoscenza (e-learning)». Ancora, il Parlamento dell’Unione europea sottolinea che Internet ha «apportato un numero crescente di vantaggi per persone di ogni età, per esempio quello di poter comunicare con altri individui in ogni parte del mondo, estendendo in tal modo la possibilità di acquisire familiarità con altre culture e aumentare la comprensione di popoli e culture diversi», e ha «ampliato la gamma delle fonti di notizie a disposizione dei singoli, che possono ora attingere a un flusso di informazioni proveniente da diverse parti del mondo». La navigazione sul web pone anche – è noto a tutti – inconvenienti e insidie, ma questo non ne diminuisce la carica positiva, in termini di accrescimento delle sorgenti di informazioni, di esaltazione della libertà di espressione e di promozione dei valori democratici.

Affermata l’opportunità, sul piano teorico, di configurare un diritto costituzionale di accesso alla Rete, va sottolineato che definirne la possibilità, in concreto, è cosa ben diversa: l’inserimento in Costituzione di un simile diritto implicherebbe il correlativo dovere, in capo allo Stato, di garantire a tutti una connessione stabile e a prezzi contenuti, nonché la disponibilità fisica di un apparecchio dal quale collegarsi. Benché con la fibra ottica siano stati compiuti decisi passi in avanti, il traguardo della copertura integrale del territorio italiano è ancora distante e, soprattutto, i prezzi degli abbonamenti vengono ad oggi fissati sul libero mercato. Le iniziative volte all’inclusione dell’accesso a Internet nel novero dei diritti costituzionalmente garantiti, prima fra tutte quella del Professor Stefano Rodotà, devono essere valutate, insomma, alla luce del bilancio dello Stato ed inquadrate nel contesto di politica economica nazionale, poiché, senza un intervento pubblico, l’affermazione del diritto rimarrebbe parola vuota sulla Carta.

Come si conciliano l’a-territorialità di Internet e il diritto nazionale applicabile?
Il fatto che Internet sia ovunque e in nessun luogo rende assai difficoltoso, in effetti, individuare il diritto nazionale applicabile alle fattispecie che nella realtà si materializzano. Un ruolo di primo piano, per tentare di districare i grovigli della matassa, è giocato sul piano internazionale, dagli accordi e dalle convenzioni fra gli Stati, attraverso i quali si può predeterminare la disciplina delle futuribili controversie concrete. Nella stessa logica, anche l’Unione europea ha emanato e continua ad emanare norme finalizzate a regolare uniformemente, tra i Paesi membri, profili connessi all’utilizzo di Internet (diritto d’autore, commercio elettronico, ecc.). Senza la predisposizione di norme convenzionali o la stipula di accordi, la probabilità che si inneschino conflitti di giurisdizione tra uno Stato e l’altro è elevata.

In Italia, ad esempio, con riferimento alle controversie inerenti la commissione di un reato, vige il cd. principio dell’ubiquità, per cui si applica il diritto dello Stato nel quale l’azione o l’omissione è avvenuta in tutto o in parte ovvero nel quale si è verificato l’evento che è conseguenza dell’azione od omissione illecita. Tale criterio si utilizza anche per i reati commessi tramite Internet, con le modulazioni apportate dalla giurisprudenza, ma non è evidentemente risolutivo, in particolare laddove l’azione o l’omissione sia avvenuta, appunto, in parte sul territorio italiano e in parte sul territorio di altri Stati.

Quale profilo giuridico si può configurare per le fake news?
Il trattamento delle fake news, ovvero delle notizie false divulgate in Rete e condivise passivamente dagli utenti, costituisce una delle questioni problematiche con cui i giuristi sono tenuti a confrontarsi. In tal caso, occorre operare un bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e il diritto di essere informati secondo verità: la prima risulterebbe inevitabilmente incisa laddove si decidesse di salvaguardare ad ogni costo il secondo, ad esempio con la previsione di sanzioni a carico di chi pubblichi e diffonda notizie false o tendenziose. L’opzione “punitiva” è quella accolta, peraltro, dal disegno di legge S.2688, presentato in Senato il 7 febbraio scorso, che si prefigge di «prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica». Se la proposta si traducesse in legge, i gestori delle piattaforme informatiche sarebbero «tenuti ad effettuare un costante monitoraggio dei contenuti diffusi attraverso le stesse, con particolare riguardo ai contenuti verso i quali gli utenti manifestano un’attenzione diffusa e improvvisa, per valutarne l’attendibilità e la veridicità» (art. 7 ddl), con il prevedibile risultato che molte delle voci che ora animano la Rete verrebbero ridotte al silenzio, per ridurre al minimo il rischio di sanzioni.

Non sono convinto che questa sia la soluzione migliore per contrastare il fenomeno – certamente deprecabile – delle fake news: vanno semmai potenziate, a mio avviso, le capacità di analisi e di discernimento dei singoli, con un investimento serio sull’alfabetizzazione digitale dei cittadini, per la quale il ddl S.2688, invece, contempla progetti rivolti agli studenti solo «nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» (art. 6). La promozione dell’esercizio critico degli internauti, al momento, è perseguita da organizzazioni extra-istituzionali, come l’Osservatorio permanente Giovani-Editori, le cui iniziative, in ogni caso, vanno salutate con il massimo favore.

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