
La polis è la struttura di interazione sociale, politica, economica cardine del mondo greco. Dalle colonizzazioni di età arcaica, allo sviluppo di formazioni interstatali o federative, sino alla lunga stagione di globalizzazione ellenica apertasi con le formidabili conquiste orientali di Alessandro, possiamo dire che non esista esperienza statuale che – sin dalle origini o almeno in una fase successiva del suo sviluppo – abbia fatto a meno del modello poleico come ganglio della propria esistenza. È attraverso tale modello, al contempo insediativo e politico, che il mondo greco sviluppò e replicò la sua impronta più peculiare. Al di là della cosiddetta crisi della polis profilatasi a partire dalla metà del IV sec. a.C. e al di là delle profonde trasformazioni intervenute durante tutto il corso del periodo post-classico, la cultura della città-stato sopravvisse di fatto molto a lungo, mantenendo una sua evidente riconoscibilità. Su di un piano concreto e storico, tuttavia, l’assioma polis, se così vogliamo chiamarlo, identificava realtà molto varie dal punto di vista demografico, territoriale, istituzionale; le capacità militari o di sussistenza economica, la possibilità di esprimere una politica ‘estera’ indipendente o finanche di esercitare un’effettiva autonomia interna non furono ovviamente presenti allo stesso grado in tutte le centinaia di poleis del mondo greco. Per dare un’idea della problematicità di questi aspetti, può essere significativo menzionare il caso paradossale di Atene. La città antica che chiunque richiamerebbe in prima battuta come esempio di polis per eccellenza rappresentò nella realtà un caso aberrante di ‘super-polis’, del tutto discosta dalla maggioranza dei contesti normalmente presenti nel mondo greco; e, questo, già a partire dalla sua dimensione territoriale e demografica, che la rendevano altrettanto lontana anche dall’ideale aristotelico di una polis eusynoptos, ossia “abbracciabile con un unico sguardo” (Pol. 1327b 22-24). Secondo Aristotele, se l’eccessiva piccolezza avrebbe infatti impedito a una città la sussistenza, per converso un’eccessiva grandezza ne avrebbe minato il migliore funzionamento politico basato sulla partecipazione e, quindi, la stessa autentica natura di polis: un esempio portato nella Politica è quello di Babilonia, la cui estensione faceva sì che essa, benché cinta da un’unica cerchia di mura, avesse la conformazione «di un ethnos piuttosto che di una polis» (Pol. 1276a 27-30).
Quando volevano riferirsi alla totalità delle forme statuali che li caratterizzavano, i Greci impiegavano il binomio poleis kai ethne. A differenza di polis, termine ethnos presentava però una spiccata polisemia: esso poteva essere parimenti usato per definire un gregge di armenti o una gilda di commercianti, così come la stirpe degli Elleni o quelle degli Ioni, Dori, Eoli o, ancora, piccoli gruppi tribali insediati in villaggi oppure popolazioni rette da monarchie, come i Macedoni, od organizzate in federazioni, come i Beoti. La parola ethnos, infatti, identificava essenzialmente un gruppo omogeneo di individui affini e questa idea di base permane anche in riferimento a comunità statuali. Che si trattasse di più lasche forme di unione tribale o di avanzati stati federali, gli ethne avevano nella comunanza di origini, culti, miti fondativi e territori ancestrali – in altre parole nel senso di appartenenza a un’unica ‘nazione’ – il loro fondamentale fattore di coesione. L’ampio filone di studi antichistici sulla ethnicity ha largamente evidenziato il carattere artificiale di tali fattori identitari, ma proprio il fatto che essi venissero costruiti e adattati a posteriori come motivo aggregante di un’unione politica ci rende ragione della loro effettiva importanza.
Il pensiero greco ci appare fortemente polis-centrico e il rapporto tra polis ed ethnos – dato anche il carattere multiforme di quest’ultimo – tutt’altro che facile da definire in maniera univoca.
Da una parte, infatti, gli ethne appaiono relegati alla periferia della civiltà greca: il mondo delle poleis guardava alle regioni al di là di Delfi come a un universo altro e scarsamente civilizzato. Non bisogna peraltro dimenticare che la parola ethnos era impiegata anche come specifico riferimento alle popolazioni barbariche, valenza che appare sconfinare anche nella stessa valutazione degli ethne greci. Molto noto, in questo senso, è il paragone instaurato da Tucidide (I 5-6) tra alcune popolazioni coeve, come i Locresi, gli Etoli e gli Acarnani, e la Grecia dell’epoca “di Minosse”: questi ethne che vivevano «alla maniera antica» – abitando in villaggi sparsi e senza mura, girando armati e praticando la pirateria – davano testimonianza nel presente di abitudini che erano state comuni a tutto il mondo greco dell’Età del Bronzo. Che tale valutazione non avesse alcuna accezione positiva ce lo conferma peraltro un altro passo delle Storie (III 94, 5), in cui Tucidide riporta come gli Etoli del suo tempo parlassero «un dialetto del tutto sconosciuto» e si cibassero «di carne cruda». Sotto questo punto di vista, l’ethnos appare come una sorta di negazione del mondo poleico e del suo sistema di valori: come una struttura indistinta e incapace di esprimere una costituzione (Aristot. Pol. 1326b 5).
La contrapposizione tra polis ed ethnos si giocò tuttavia anche su altri piani. All’interno del binomio poleis kai ethne di cui ho detto sopra, gli ethne si presentano come una forma statuale alternativa a quella della città-stato. Sotto questo altro punto di vista, la loro differenza rispetto alla polis non appare più qualitativa, ma piuttosto ‘quantitativa’. Sempre Aristotele (Pol. 1261a 24-30) sottolinea come la maggiore ampiezza demografica costituisse per gli ethne un motivo di vantaggio, differenziandoli in ciò dalla polis. Con “ethnos”, tuttavia, il filosofo non intendeva qui arretrate comunità insediate in villaggi sparsi, per le quali questi tipo di comparazione con la polis non avrebbe avuto senso, bensì ethne che fossero organizzati «come gli Arcadi»: in altre parole, come uno stato federale composto da un’unione di città. Su di un piano storico, bisogna ricordare come proprio la notevole estensione e le grandi capacità di mobilitazione militare fecero di stati federali come quello degli Etoli e degli Achei le uniche formazioni in grado di competere con le monarchie ellenistiche e successivamente con Roma, dopo che la città-stato aveva oramai smesso da molto di esprimere modelli egemonici.
Come forma di stato alternativa alla polis, l’emergere di formazioni federali come quella dei Calcidesi o dei Beoti nello scacchiere greco nel corso del IV sec. a.C. alimentò un conflitto ideologico con il mondo poleico attorno al concetto di autonomìa. Tale conflitto è espresso chiaramente in un passo di Senofonte (Hell. V 2, 12-19): «usare le proprie leggi patrie ed essere detentori di un proprio diritto di cittadinanza» contro «usare leggi comuni e condividere un diritto di cittadinanza federale». Da una parte vi era il rispetto dell’autonomìa delle poleis, sancito come principio universale dalla Pace del Re (386 a.C.), dall’altra parte, la forza propulsiva delle unioni federali e i vantaggi in termini di Machtpolitik che queste avrebbero presentato alle poleis in cambio di una parziale perdita di autonomia.
In conclusione, non possiamo parlare di un’unica e peculiare contrapposizione tra polis ed ethnos, ma di diversi piani di confronto, le quali andarono via via rimodulandosi in base alle trasformazioni storiche e alle evoluzioni istituzionali che interessarono queste due forme di organizzazione. Bisogna infine ricordare come tale contrapposizione si fosse affiancata nella realtà a profonde interazioni e ad ampie zone grigie e di reciproca influenza, che rendono impossibile in diversi ambiti di osservazione – e in particolare per ciò che attiene all’analisi storica delle strutture istituzionali – instaurare una netta separazione tra queste due forme di statuali, che andarono via via sempre più rispecchiandosi l’una nell’altra.
Come si articolava la dialettica dei rapporti tra componenti locali e livelli centrali del potere politico nel funzionamento degli stati greci?
Molti studiosi preferiscono non usare la parola “stato” in riferimento al mondo greco. Il timore è che tale uso possa risultare anacronistico e fuorviante, finendo con l’appiattire sulle comunità politiche antiche caratteristiche e prerogative proprie dello Stato sovrano moderno. Personalmente, trovo si tratti di una cautela eccessiva; la terminologia della storia non è una scienza esatta, bensì l’utensile artigianale che lo storico forgia per spiegare realtà irrimediabilmente altre dalla nostra, assumendosi il rischio che qualcosa rimanga “lost in translation”. Una polis dotata di un proprio assetto costituzionale, un corpus di leggi, una politeia, che definiva lo status dei cittadini distinguendoli dai non-cittadini, era nel suo contesto una forma di stato. Allo stesso modo, nell’evoluzione degli ethne verso forme di organizzazione più avanzate, l’esistenza di un governo centrale (koinon) sovraordinato a un’unione comunità politiche minori dotate di un proprio grado di autonomia fa sì che per noi sia del tutto funzionale impiegare la definizione di “stato federale” per descrivere tali realtà antiche.
Ciò detto, è purtuttavia vero che in questi omologhi greci non sono certo riscontrabili le principali caratteristiche che connotano lo Stato moderno: in particolare, la concentrazione dei poteri e il loro esercizio impersonale e capillare attraverso una burocrazia amministrativa e una “polizia”. Come potevano mantenersi coesi e funzionanti “stati senza-Stato” come questi? La stasis, ossia la guerra intestina, era in effetti perennemente in agguato: le comunità politiche del mondo greco dovettero misurarsi costantemente con questo fenomeno, tanto che il loro stesso sviluppo, la loro progressiva istituzionalizzazione, possono essere per larga parte letti come un continuo controbilanciamento delle forze particolaristiche che confliggevano in maniera aperta o latente al loro interno. Lo stato antico non conosce infatti il potere spersonalizzato dello Stato moderno. L’oikos, il gruppo familiare, non era confinato su di un piano “privato”, nettamente separato da quello “pubblico”; al contrario, esso era la componente fondamentale dello stato ed era pertanto dotato una riconoscibile valenza politica, determinando l’identità e lo status dei cittadini. Ad esempio, si pensi a come ledere i diritti di un’ereditiera desse adito, nella legge ateniese, a un processo pubblico (graphe epiklerou kakoseos) – ossia a un’azione giudiziaria di cui poteva farsi promotore qualunque cittadino anche non danneggiato – e non a un processo privato (dike), come logicamente potremmo aspettarci.
Queste brevi considerazioni non solo possono farci intuire quale genere di dialettiche interne potessero percorrere le comunità statuali del mondo greco, ma ci aiutano anche a comprendere il fondamentale ruolo in questo senso rivestito proprio dalle strutture locali del potere politico. All’interno di stati senza-Stato e in un perpetuo «instabile equilibrio tra ordine e anarchia» (H.J. Gehrke), tali strutture offrivano infatti la possibilità di un raccordo tra individuo/oikos e comunità dei cittadini, fungendo da forza aggregante e da principio organizzativo.
Sotto la generica etichetta di “realtà locali” possiamo contemplare invero una pluralità di strutture tra loro molto differenti: da raggruppamenti di parentela sociale come le fratrie o le tribù (phylai) cittadine ai sotto-clan degli ethne, dai distretti territoriali a nuclei insediativi come i demi, sino alle poleis membri di stati federali. Nonostante tale varietà di forme, tutte queste strutture possono essere osservate sotto un’unica prospettiva, che è quella qui sopra tracciata e che attiene al funzionamento politico, fiscale, militare delle formazioni statuali del mondo greco. È molto importante sottolineare che una riflessione sull’organizzazione degli stati greci focalizzata sull’analisi delle loro “realtà locali” – come quella condotta appunto in questo libro – ci permette di osservare in queste strutture istituzionali meccanismi ricorrenti e funzioni comuni, che travalicano non solo le differenze tra i singoli contesti poleici o federali, ma anche la stessa ideale contrapposizione tra polis ed ethnos.
In che modo la documentazione epigrafica offre preziosi sguardi di dettaglio sulla prassi politica delle comunità antiche?
L’attività politica e amministrativa che si svolgeva in seno alle comunità statuali o ai loro raggruppamenti locali lasciava traccia di sé nella documentazione epigrafica, sotto forma di decreti, leggi, trattati interstatali, liste di magistrati, rendiconti finanziari, dediche pubbliche ecc. Per la loro natura, questi documenti ci offrono informazioni necessariamente frammentarie. L’uso delle iscrizioni come fonti per la storia istituzionale e politica, infatti, si scontra non solo con l’eventuale lacunosità dei testi e l’aleatorietà dei ritrovamenti, ma anche con la presenza di differenti habitus epigrafici: mentre in alcuni contesti, come ad esempio Atene, un altissimo numero di documenti veniva normalmente inciso su stele ed esposto nello spazio civico, in altri l’epigrafia pubblica risulta notevolmente più circoscritta o, per alcune aree del mondo greco (come appunto nella Grecia occidentale), assai diradata per via del prevalente uso del meno durevole bronzo, invece che della pietra, come supporto scrittorio per l’incisione di documenti pubblici. Nonostante questi limiti, i dati di dettaglio che è possibile ricavare dall’epigrafia circa le istituzioni non hanno quasi mai paralleli nelle fonti storiche e letterarie. Ciò che emerge dalle iscrizioni non è infatti né una narrazione frutto di una visione storiografica né una sistematizzazione teorica, ma una testimonianza che è esito pressoché diretto e non mediato di specifiche attività politiche. È per tale motivo che in relazione alla concreta prassi politica delle comunità antiche la fonte epigrafica è in grado di offrire informazioni peculiari e insostituibili. Benché lo sguardo di dettaglio dell’epigrafia ci restituisca visioni parziali e circoscritte, e ci presenti perlopiù dati ‘grezzi’ e bisognevoli di ulteriori sforzi interpretativi, esso è tanto più significativo e prezioso quanto più si mostra in grado non solo di integrarsi con le testimonianze storiografiche, ma, ancor di più, di suggerire l’esistenza di realtà istituzionali molto più varie, ‘creative’ e contraddittorie di quanto le sistematizzazioni moderne o le narrazioni antiche non lascino intendere.
Quali dinamiche e temi ricorrevano nel rapporto tra livelli locali e centrali del potere politico nella Grecia Occidentale?
Proprio la peculiare natura delle comunità politiche antiche di cui ho detto sopra fa sì che il tema del rapporto tra livelli locali e centrali del potere costituisca un argomento nevralgico per la comprensione dei meccanismi di funzionamento degli “stati” greci. Uno sguardo anzitutto rivolto alle funzioni delle strutture locali dell’organizzazione pubblica e un’analisi che, privilegiando la fonte epigrafica come campo di osservazione, evidenzi specialmente gli aspetti della prassi politica nella sua evoluzione storica ci permettono di rilevare strutture comuni e dinamiche ricorrenti, suggerendoci così di ripensare lo stesso rapporto tra polis ed ethnos in termini di confronto dinamico e non di netta separazione.
Per una riflessione così concepita, la Grecia occidentale si presenta come un osservatorio particolarmente adatto: in questo territorio al di là di Delfi, infatti, convissero o si avvicendarono comunità politiche di genere diverso, appartenenti sia al mondo delle poleis che a quello degli ethne. I casi di studio presentati in questo libro sono stati scelti con l’idea fornire all’osservazione un insieme di strutture istituzionali e di prassi politiche sufficientemente variegato e significativo: si va dalle poleis fondate in età arcaica da Corinto e Corcira – dotate di specifiche partizioni locali (phylai, phratriai) ereditate dalle rispettive madrepatrie – a nuove forme di comunità urbanizzate (che io denoto con la definizione di “poleis tribali”) come i Dimallitai e Balaieitai dell’area sud-illirica; da un ethnos, come quello degli Acarnani, sviluppatosi in un koinon federale a partire da un tessuto locale poleico di antica formazione, ad uno come quello degli Etoli che, fondato in origine su strutture eminentemente tribali, si espanse prepotentemente al di fuori dei propri territori aviti, inglobando molte comunità poleiche e dando vita ad avanzate forme di integrazione federale, che ne fecero una delle maggiori potenze del continente greco in età ellenistica.
Pur nella sua perifericità, la Grecia occidentale si presenta alla riflessione sugli stati greci come un’area non solo molto diversificata, ma anche tutt’altro che statica dal punto di vista delle evoluzioni politico-istituzionali che videro coinvolti i rapporti tra realtà locali e poteri centrali in seno alle sue varie comunità. L’idea di un’indagine sulle realtà locali che contempli poleis ed ethne sotto un’unica prospettiva di osservazione, alla ricerca di meccanismi evolutivi e prassi politiche ricorrenti e comuni, risulta pertanto particolarmente efficace proprio nel caso di questa area del mondo greco, dal momento che qui le interazioni e le reciproche influenze tra mondo poleico e mondo tribale/federale furono molteplici e storicamente concrete; si pensi, ad esempio, alle città-stato di fondazione arcaica divenute in seguito membri di koina federali o agli ampi fenomeni di polarizzazione urbana (con conseguente adozione di istituzioni acquisite dal modello poleico) che videro coinvolte aree originariamente basate su insediamenti sparsi e strutture tribali, come avvenne in Etolia.
Dal complesso dei casi di studio esaminati sono emersi alcuni temi ricorrenti e trasversali. Particolarmente significativo è stato rilevare come i dati emergenti dalla documentazione di quest’area contribuiscano ad attenuare l’idea che il rapporto tra poteri centrali e componenti locali negli stati greci fosse strutturato secondo forme istituzionalmente razionali e omogenee. Casi di sovrapposizione incoerente tra antichi e nuovi sistemi di raggruppamento, anomalie ‘giuridiche’ nella divisione di competenze tra livelli locali e centrali del potere o un’applicazione non omogenea di strutture di organizzazione locale differenziata per territori, lungi dall’essere semplici ‘irregolarità’, rendono piuttosto ragione delle grandi capacità evolutive e adattative dello stato greco. Ad esserne attenuata è anche la tendenza a considerare le forme di organizzazione locale come primariamente concepite e strutturate per regolare i meccanismi di partecipazione alle funzioni politiche dello stato. I contesti analizzati in questo libro mettono invece in evidenza come il rapporto tra livelli locali e centrali del potere potesse rispondere a istanze diverse, ma altrettanto fondamentali, dalla mera partecipazione politica: il controllo del territorio, la capacità di mobilitazione militare, la preservazione di equilibri economici o di reti di interscambio commerciale si mostrano infatti in più occasioni come i principali motivi per la messa a punto o la rimodulazione di specifiche strutture e forme di organizzazione locale.
Chiara Lasagni, dottore di ricerca presso l’Università di Trieste, è stata titolare di incarichi di ricerca presso le Università di Torino, Trieste e Verona. Nel corso delle sue ricerche, ha riservato particolare attenzione all’analisi della documentazione epigrafica come fonte per la storia politico-istituzionale del mondo greco. Si è interessata di vari aspetti inerenti al federalismo greco e al mondo degli ethne, ma ha dedicato anche diversi studi alle istituzioni e all’epigrafia pubblica di Atene. È autrice della monografia Il concetto di realtà locale nel mondo greco (Roma 2011).