
Quali implicazioni politiche ha tale marginalizzazione?
Come sottolineo nella mia “Introduzione” ciò che è marginale negli studi lo è anche nella realtà sociale e politica, anzi la marginalità nella ricerca non è che il riflesso di una marginalità che riguarda la società. Si pensi allo studio delle donne artiste, cominciato dai contributi fondamentali di Linda Nochlin negli anni Settanta. Le artiste ci sono sempre state, ma sono state studiate solo a partire da quell’epoca in rapporto alle rivendicazioni del movimento femminista. Così nei paesi che hanno avuto colonie in America, l’esistenza di una società multietnica, a cui si è aggiunta recentemente la pressione migratoria, con i conseguenti dibattiti sull’inclusione, ha giocato un ruolo chiave nel portare alla ribalta questo tema. Spesso, infatti, nel campo degli studi, le scoperte o le riscoperte di temi dimenticati o ignorati sono legate a motivazioni radicate nell’attualità, che arrivano a orientare lo sguardo dello storico. Il problema attuale spinge lo studioso a “vedere” nell’arte aspetti che prima non si consideravano come degni di interesse e che dunque non esistevano tout court. Riguardo alla situazione italiana, il ritardo relativamente alla rappresentazione dei neri nell’arte moderna europea è emblematico di una mancata presa di coscienza del ruolo che nell’economia degli stati italiani dell’età moderna ha avuto la tratta degli schiavi. Una mancata presa di coscienza che si collega anche alla convinzione di una minore importanza, se non di una minore brutalità del colonialismo italiano otto-novecentesco e di stampo fascista rispetto ai più grandi imperi coloniali. È necessario dunque superare queste posizioni che nella storia dell’arte in Italia hanno forse limitato il campo di visione, unitamente ad un approccio di ricerca talora poco attento agli sviluppi metodologici e critici europei.
Che ruolo è chiamato a svolgere lo storico nelle riscritture occidentali della storia dell’arte?
È fondamentale fare un esame critico. Il compito dello storico, e quindi anche dello storico dell’arte, è quello di gettare una luce laddove c’è oscurità e obblio, che spesso non sono causali ma il frutto, talora incosciente, di pregiudizi e di categorie culturali che impediscono di vedere certi aspetti anche evidenti delle opere. Il vedere, infatti, è un atto culturale attraverso cui si filtra la realtà e questo filtrare è un selezionare, che comporta il rischio della dimenticanza, dell’esclusione e, nel caso del nostro argomento, di quello che la studiosa Nana Adusei Poku ha definito “the black abyss”, quell’abisso in cui sono precipitati interi pezzi di storia e cultura degli africani. Lo sguardo occidentale ha avuto spesso difficoltà a mettersi dalla parte dei marginali e degli oppressi e a guardare alle rappresentazioni artistiche dal loro punto di vista. Nella mia introduzione parlo di “manipolazione” del discorso storico-artistico quando il “vedere” esclude momenti e contesti, anche importanti, della storia.
Il volume raccoglie alcuni casi emblematici di temi e questioni metodologiche legate a questo argomento: quali, a Suo avviso, i più significativi?
Di fatto, ogni saggio, in modo diverso, dà un contributo importante al dibattito metodologico su questo tema. Ho già citato i saggi di Patisso, Sicca e Thompson. Penso che il caso più sorprendente sia quello di Théodore Géricault, a cui è consacrato il lungo saggio di Bruno Chenique. L’autore dimostra come l’intera produzione pittorica dell’artista, e non solo la sua opera più celebre, la Zattera della Medusa (1819), non possa essere compresa se non tiene in conto del suo credo politico progressista e abolizionista, che fa tutt’uno con la sua empatia verso i più umili, i più negletti della società, e dunque anche i neri. Paradossalmente però, in decenni e decenni di studi sul pittore, questo aspetto così cruciale è stato considerato pochissimo: taciuto, sminuito, ignorato sia per ragioni politiche che per motivi legati a un approccio storico-artistico formalista. È questo un caso emblematico in cui lo storico dell’arte, attraverso le sue ricerche, svolge un vero e proprio lavoro di demistificazione. D’altro canto, il saggio di Geoffrey Quilley sottolinea come le stampe legate alla tratta degli schiavi, estremamente brutali, costituiscano per l’interprete un problema metodologico poiché spesso sono ambigue e questo è uno dei motivi per cui sono poco esposte nei musei. A proposito di ambiguità, il ritratto di nera di Guilhemine Benoist (1800), di cui mi occupo nel mio contributo, è intrigante. L’opera è stata criticata da letture ideologiche che le hanno rimproverato di non essere abbastanza femminista o abbastanza vicina alla causa dei neri. Ecco che sorge un problema quando attraverso le opere d’arte del passato ci si confronta con temi “caldi” perché in qualche modo legati a una lotta attuale per i diritti (per le donne, per i neri): mi riferisco al rischio di dare interpretazioni antistoriche, che non tengano conto del contesto in cui l’opera è sorta e che è profondamente diverso dal nostro. Ho quindi cercato di restituire all’opera la sua complessità, accettandone l’ambiguità: leggendola alla luce del sistema dei Salon e mettendone in evidenza l’audacia che scavalca anche le stesse convinzioni politiche schiaviste della famiglia della pittrice e che forse lei stessa in parte condivideva. È probabilmente questo il “miracolo” dell’arte: aprire nuove strade, nuovi modi di vedere il mondo e di accostarsi ai “marginali”, scavalcando pregiudizi e a-priori radicati nelle società del tempo.
Chiara Savettieri è professoressa associata di Storia della critica d’arte all’Università di Pisa