“Le ragioni della scrittura. Piccoli scritti di paleografia” di Stefano Zamponi, a cura di Teresa De Robertis e Nicoletta Giovè Marchioli

Prof. Stefano Zamponi, Lei è autore del libro Le ragioni della scrittura. Piccoli scritti di paleografia, curato da Teresa De Robertis e Nicoletta Giovè Marchioli ed edito da Viella: quali problemi pone la definizione e diffusione della nuova scrittura libraria che ha dominato l’Occidente fra XIII e XVI secolo, la littera textualis?
Le ragioni della scrittura. Piccoli scritti di paleografia, Stefano Zamponi, Teresa De Robertis, Nicoletta Giovè MarchioliAffrontando il problema della littera textualis, la scrittura libraria che manuali e studi specialistici ancora definiscono spesso ‘scrittura gotica’, ho avuto la tentazione di usare una definizione ad effetto, la “scrittura della ragione”, perché questa scrittura si caratterizza certamente come l’organizzazione grafica più razionale che l’Occidente europeo abbia mai elaborato in due millenni.

Il primo e più singolare problema che il costituirsi di questa scrittura pone è connesso alla sua lenta elaborazione nel corso del XII secolo in sedi ecclesiastiche (monasteri, vescovadi, capitoli delle cattedrali). Normalmente una nuova scrittura si caratterizza rispetto a quella che la precede per la forma diversa di un certo numero di lettere, e su questo aspetto morfologico sempre puntano i manuali; ma nel nostro caso questo ricambio non avviene (la littera textualis semmai valorizza e usa sistematicamente alcune forme già attestate nella scrittura di tarda tradizione carolina da cui ha origine). Invariata la serie alfabetica, la nuova scrittura si realizza essenzialmente mediante un insieme di accorgimenti che permettono un forte concatenamento delle lettere all’interno della parola grafica (attraverso sovrapposizione di tratti o lettere che toccano sistematicamente la lettera successiva), garantendo definitivamente che uno spazio bianco sia lasciato, con regolarità, solo fra una parola e la successiva, un fatto che per noi oggi è scontato, ma che rivoluzionò il rapporto fra il lettore e il testo, permettendo il definitivo imporsi di una lettura silenziosa, esclusivamente visiva.

Un secondo elemento di razionalità della littera textualis è il fatto che essa si realizza attraverso una scomposizione degli elementi costitutivi delle singole lettere, ridotti a pochi tratti essenziali che variano per direzione e ampiezza; il copista non deve imparare a tracciare la forma delle lettere, ma la può costruire con la successione di pochi tocchi di penna (se posso richiamare un’analogia dell’oggi, avviene come con i mattoncini del Lego, con cui si può costruire tutto).

Il risultato finale è una scrittura compatta, con aste ascendenti e discendenti molto corte, con parole grafiche ben discriminate, una sorta di nastro bilineare che permette di costruire pagine fittissime, ricche di un’impressionante quantità di testo; nasce così il libro che diventa l’espressione grafica della razionalità scolastica, diffusa dalle università, in particolare nei manoscritti di teologia, filosofia, diritto.

Un problema che questa scrittura pone, proprio a causa della assimilazione complessiva delle lettere, è il conflitto fra l’occhio e la mano: l’occhio vorrebbe sempre lettere chiaramente diverse le une dalle altre, poco compresse, con aste ascendenti e discendenti prolungate e quindi immediatamente riconoscibili; la mano vorrebbe procedere in modo semiautomatico realizzando, se fosse possibile, sempre un unico tratto ripetuto all’infinito. Questo conflitto, acuto nelle litterae textuales transalpine, ove i, m, n, u, possono essere eseguite con un tratto sempre identico, ripetuto a seconda della lettera da costruire, si attenua nella scrittura testuale italiana, ove l’attacco e stacco dei tratti di i, m, n, u è opportunamente variato e permette, a chi sia dentro al sistema grafico, una riconoscibilità sicura e immediata.

La littera textualis è l’unica scrittura del libro nel corso del XIII secolo e si identifica in particolare con il codice universitario, con i libri liturgici, con la Bibbia e i suoi commenti, con i libri dei predicatori e della devozione. Ancora nella prima metà del XIV secolo è avvertita come la scrittura del libro per eccellenza, ed è usata largamente per la diffusione della letteratura italiana delle origini. Non è un caso che il codice idiografo (e parzialmente autografo) del Canzoniere di Petrarca e il Decameron autografo di Boccaccio siano scritti con una littera textualis semplificata.

Sebbene scrittura del libro per eccellenza, fra XIV e XV secolo la sua diffusione registra un continuo, inarrestabile calo. Questo è dovuto essenzialmente alla diffusione nella produzione del libro in un primo momento di scritture di origine corsiva, che mantenendo la discriminazione fra le parole grafiche acquistano maggiore leggibilità rispetto alla testuale grazie ad aste ampie, ridotta compressione delle lettere, legature assenti o sporadiche. A queste dagli inizi del XV secolo si aggiunge la scrittura umanistica, nelle due realizzazioni della littera antiqua e della corsiva all’antica, che avranno grande diffusione soprattutto dalla seconda metà del secolo. L’ambito di uso della littera textualis diventa sempre più ridotto; accanto ai testi liturgici, a partire dai grandi libri per il canto corale, incontriamo soprattutto opere di devozione e pietà, spesso realizzate in ambiti culturali ai margini sia della cultura universitaria sia del rinnovamento umanistico. Il suo uso sopravvive, con un certo vigore, nella stampa, in forme semplificate, sia per testi in volgare, sia soprattutto per i grandi volumi del diritto civile e canonico, con una continuità che l’avvento del XVI secolo non interrompe.

Quali sono i caratteri e le varietà della scrittura e del libro ‘all’antica’ che l’Umanesimo italiano ha consegnato alla cultura europea?
Se osserviamo la fine di un processo che dall’inizio del XV secolo si conclude in un centinaio d’anni, nelle scritture umanistiche a stampa che la cultura italiana propone e diffonde in Europa (la littera antiqua tonda, oggi la scrittura dei nostri libri, la cancelleresca italica, la scrittura del nostro corsivo, le capitali, la forma delle nostre maiuscole) rischiamo (e la storiografia paleografica è incorsa in questo difetto) di vedere tutta la storia della scrittura umanistica secondo i modelli grafici fossilizzati nella stampa.

Quello che mi preme sottolineare è che a certe forme di lettera, a un certo tipo di libro, si giunge attraverso una storia di tentativi, in cui la discontinuità nelle sue diverse realizzazioni è estremamente importante per comprendere e valorizzare i motivi che stanno dietro agli ambienti che in modi diversi immaginano e realizzano una scrittura e un libro all’antica. A Firenze, nei primissimi anni del Quattrocento, l’imitazione della scrittura del XII secolo, la minuscola di tarda tradizione carolina, ha origine per motivi essenzialmente filologici, imitando la scrittura di codici antichi ortograficamente corretti. Questo primo esperimento si deve confrontare con un problema non da poco: come fare le maiuscole (i primi libri umanistici hanno lo spazio lasciato bianco per titoli e per ogni passo che richiedeva una scrittura diversa dalla littera antiqua). Problema che fu risolto imitando le capitali dei manoscritti romanici piuttosto che i marmi dell’antichità romana. Nel contempo si elabora il libro all’antica fiorentino, con le lettere miniate su fondo a bianchi girari, anch’esse imitate della decorazione dei manoscritti del XII secolo. Il primo strappo nella concezione dell’antico si ha già nel secondo decennio del secolo, con un’esperienza veneta che adotta una penna più sottile, tipica della corsiva trecentesca e della minuscola greca, che usa alcune forme di lettera della tradizione gotica e talora della scrittura greca, che conserva apparati decorativi anche tradizionali. L’apertura all’Oriente, al mondo greco, a un diverso modo di intendere l’antico, più comprensivo, caratterizzerà poi la cultura grafica veneta fino alla seconda metà del secolo, insieme a una mescolanza grafica di lettere maiuscole in un contesto di scrittura minuscola. Con Ciriaco d’Ancona e l’imitazione di scritture alla greca e di scritture precedenti al XII secolo questa apertura ha il compimento, ma Ciriaco è importante anche e soprattutto per i suoi taccuini di viaggio, per i disegni di monumenti ricchi di iscrizioni, che ribadiscono come l’unica, vera scrittura degli antichi sia la capitale.

Questa lezione è alla base della svolta antiquaria che ha origine a Padova in un ambiente dominato da artisti, antiquarii, miniatori, copisti piuttosto che da filologi e letterati. Rinasce la capitale secondo le forme e le proporzioni del I secolo (un modello potrebbe essere l’iscrizione della colonna Traiana), la littera antiqua diventa più rigida, monumentale, con prevalenza di tratti verticali, la corsiva all’antica diventa altra da sé, non più scrittura corsiva ma una scrittura sottoposta al dominio assoluto della forma, eseguita lentamente, tratto dopo tratto, come l’antiqua, per sfociare nella disciplinatissima cancelleresca italica che proprio per le sue qualità formali avrà una canonizzazione nel corsivo a stampa inventato da Aldo Manuzio. Insomma le scritture che si canonizzano nella stampa sono frutto di un’elaborazione veneta che si stacca dalla matrice fiorentina. E negli stessi anni in Veneto anche il codice umanistico diventa altro da quello che era a Firenze, la scrittura è inquadrata entro motivi di architettura classica, in un immaginario antiquario vivacissimo che inventa pagine iniziali in cui l’antica Roma con i suoi fasti rivive e che a sua volta consegna alla stampa frontespizi con frontoni, templi, monumenti.

In un saggio inedito, tra quelli riuniti nel libro, Lei si sofferma su aspetti generali e di metodo della ricerca paleografica e del lavoro del paleografo: cosa qualifica in modo peculiare la ricerca in paleografia e quali oggetti, metodi e paradigmi interpretativi Le paiono ormai usurati?
Il primo aspetto che a mio parere, in questo momento storico, deve qualificare la ricerca paleografica è la necessità di un rapporto diretto con gli oggetti di studio (da qualche anno i più giovani, pensando di usare un’espressione efficace, ribadiscono di avere fatto un esame autoptico, senza rendersi conto del ridicolo, come se un esame approfondito di un oggetto potesse essere fatto a distanza, solo su riproduzioni). Gli oggetti di studio, ovviamente, possono essere della più varia natura: papiri letterari o documentari, libri manoscritti, pergamene, epigrafi, registri amministrativi, tavolette cerate o plumbee, insomma qualsiasi oggetto che sia supporto alla scrittura.

Veniamo da una cesura di due anni, pesantissima, con biblioteche e archivi inaccessibili o accessibili in dosi omeopatiche, e questo ha favorito la smaterializzazione della ricerca, ha indotto, spesso costretto giovani e meno giovani a progettare ricerche solo con i materiali che si trovano digitalizzati nei siti di biblioteche, archivi, musei, quando uno storico della scrittura nasce, cresce e si rafforza solo dal confronto diretto con gli oggetti. Ricordo una geniale provocazione di Jean Mallon, che teorizzò la prevalenza dei caratteri esterni di tutti i monumenti grafici, cioè la prevalenza della loro materialità, ai fini di una corretta interpretazione della natura e funzione di un testo e delle sue forme grafiche (questa proposta nasceva da una nuova interpretazione di un testo inciso su una tegola di terracotta del III secolo, che gli inconsapevoli editori di fine Ottocento avevano ritenuto una lettera missiva, palesemente poco funzionale allo scopo, poiché misura 42 × 55 cm e pesa 14 chili). Insomma ciò che trasmette scrittura può e deve essere apprezzato solo in originale e solo l’originale permette una piena interpretazione del testo trasmesso.

Per quanto riguarda gli aspetti che mi paiono superati, anche francamente usurati, farei riferimenti a modelli di indagine che si concentrano solo sulla forma delle lettere e al loro mutare nel tempo. La scrittura non è solo una combinatoria di lettere alfabetiche che assumono forme diverse, è in primo luogo un sistema di rapporti fra le lettere che variano in diacronia e in relazione alla tecnica esecutiva (lettere tracciate tratto dopo tratto o lettere eseguite corsivamente), insomma occorre considerare la scrittura come un sistema funzionale, la cui dinamica rende storicamente intellegibili il senso e la direzione dei mutamenti, così come chiarisce i diversi modi di fruizione del testo scritto, il mutevole rapporto fra l’uomo e la sua scrittura. Da questo discende la convinzione di un necessario superamento delle classificazioni fondate soltanto sull’esame di forme di lettera, dell’ordinata sequenza di scritture che nascono, fioriscono e muoiono, secondo un’abusata metafora biologica. A mio parere oggi questo è il pericolo più grande, accettare quadri statici entro cui fare confluire ogni realizzazione grafica, pericolo fortemente aggravato dalla possibilità di predisporre strumenti informatici per il riconoscimento automatico delle scritture, strumenti che permettano di collocare ogni scrittura entro una casella, anche a costo di inevitabili forzature. Dematerializzazione della ricerca e utilizzo di una classificazione rigida per gestire masse potenzialmente immense di riproduzioni di scritture potrebbero portare (oltre che a una noia mortale) a un panorama in cui la paleografia, disciplina tipicamente storico-filologica, in rapporto paritario con tutte le altre discipline che si interessano di antichità, medioevo e prima età moderna, si risolve in uno strumento gestionale del tutto astorico, che ordina in qualche modo in sequenza le scritture sulla base di affinità puramente esteriori.

Stefano Zamponi (Pistoia 1949) ha insegnato Paleografia latina presso le Università di Trieste, Padova e Firenze. Presidente del “Comité International de Paléographie Latine” dal 2005 al 2015, dal 2010 è presidente dell’Ente nazionale Giovanni Boccaccio.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link