
Quali posizioni ha espresso, nei diversi campi delle scienze sociali e della filosofia, il pensiero critico di matrice marxista?
Queste posizioni sono state molte e non è possibile capire il Novecento (forse ancor più dell’Ottocento) a prescindere da una conoscenza approfondita del marxismo, delle sue radici e delle sue evoluzioni, all’interno del pensiero europeo e occidentale, dove il dibattito non si è mai risolto nell’ortodossia o nelle varie “religioni di stato” tipiche del mondo sovietico e orientale. Tuttavia questo esercizio è sempre più difficile in un’epoca come quella attuale orientata verso la superficiale etichettatura di ogni posizione politica e sociale e dove i termini marxismo e marxista sono semplicisticamente ridotti alle lotte per l’affermazione dei diritti dei lavoratori e all’ideologia espressa da questi ultimi. Si può dire che le due maggiori correnti del pensiero sociologico continentale, quella weberiana e quella marxista, da sempre sono state entrambe pervase dallo storicismo e da un dibattito epistemologico incessante e profondo per tutto il corso del secolo, specie nel mondo tedesco, per poi sostanzialmente arrendersi di fronte alle culture accademiche importate oltreoceano, quali quelle neopositivistiche e struttural-funzionalistiche tipiche della sociologia americana. Dispiace così constatare il progressivo esaurirsi dei contributi al dibattito epistemologico, sociologico e anche storiografico sostenuti nel corso dell’intero secolo dal pensiero marxista occidentale e oggi non più compresi nel loro contesto storico e soprattutto nel loro “ricercato” linguaggio. Pensieri, parole, narrazioni che legavano la posizione storicistica e quella sociale, esprimendo soprattutto quel ruolo determinante che avevano (e hanno) i movimenti sociali nel determinare la valenza, la sostenibilità, la precarietà stessa delle scienze sociali. Siamo tutti testimoni oggigiorno di come la scienza economica abbia l’ultima parola nel dibattito sociale e politico, e di come la sociologia sia ormai relegata a scienza-cura palliativa dell’universo economico e sociale espresso dal capitalismo, forma di società sempre discussa ma alla fin fine indiscutibile del nostro Occidente. Il marxismo ha fornito per molti anni la sua versione alternativa di società e di scienza sociale e il fatto stesso di non essere diventata “ideologia di stato” nel sistema occidentale, ha permesso una critica radicale, a volte feroce, della società contemporanea, ma a tratti anche originale e innovativa, e questo, almeno, dovrebbe essere riconosciuto.
Quali tesi sviluppò Marcuse riguardo la razionalità tecnologica quale fenomeno esistenziale, politico, sociale e infine totalitario?
Il concetto di “razionalità tecnologica” sviluppato da Herbert Marcuse deve molto alla sociologia weberiana, oltre che all’approccio critico di stampo marxista ed a elementi assorbiti dalla filosofia esistenzialista e dalla psicanalisi. Non è mai un concetto fermo, ma sempre ambiguo e contrastante, com’è (e deve essere) nell’universo dialettico in cui si muove Marcuse. Questo potrebbe condurre qualcuno ad affermare che in tal modo è possibile affermare tutto e il contrario di tutto, come è tipico della degenerazione del pensiero e del linguaggio utilizzati nei sistemi totalitari novecenteschi che si rifanno alle filosofie hegeliane e marxiste. Ma il bello è invece il capovolgimento di prospettiva che permette a Marcuse, in modo quanto mai distaccato e a volte anche disilluso, di indagare le forme sociali, culturali ed economiche tipiche delle democrazie occidentali, ivi compreso il pensiero espresso nelle scienze sociali (in parte anche in quelle naturali), secondo una prospettiva critica, dialettica, potendo in questo modo dimostrare come i conformismi di tipo tecnologico o scientifico siano armi sorprendentemente potenti utilizzate, sempre in modo inconsapevole ma comunque ideologico, per confermare lo status quo e impedire di fatto ogni cambiamento di tipo sociale e culturale. Tra l’altro, il concetto di “razionalità tecnologica” è una costante del pensiero marcusiano, che il filosofo utilizza sia per indagare l’ideologia nazionalsocialista, sia il pensiero marxista sovietico, sia, infine, il mondo capitalistico occidentale. Come per tutti gli autori della Scuola di Francoforte esiste un’impronta che accomuna tutti questi sistemi e il cui denominatore comune è dato dal concetto di società massificata, in cui l’individuo (e con esso il pensiero indipendente) perde progressivamente di importanza di fronte alle espressioni delle forze economiche e sociali e degli apparati a lui superiori che tendono a sovrastarlo proprio in forza della loro “superiorità” tecnologica, risolvendosi in un orizzonte consensualmente conformista ma pur sempre totalitario.
Quali movimenti politici, culturali e filosofici hanno recepito e interpretato il pensiero marcusiano?
Herbert Marcuse ha sempre guardato con interesse e in parte con simpatia alla contestazione studentesca degli anni ’60 e ’70 e all’affermarsi della Nuova Sinistra, e potremmo giustamente ritenere che questi fenomeni hanno poi favorito l’emergere di movimenti oggi diffusi che in parte ne hanno ereditato le istanze. Tuttavia è corretto ritenere che Marcuse guardasse in parte anche con distacco e senso critico a questi fenomeni, ritenendoli per lo più effimeri e comunque strutturalmente non in grado di determinare un cambiamento qualitativo del sistema sociale. Sotto questi aspetti la posizione di Marcuse si rifaceva in parte ad una certa ortodossia marxista: solo i gruppi e le classi sociali appartenenti alle organizzazioni industriali del lavoro sarebbero stati in grado di attuare un simile cambiamento, evento peraltro che a quel tempo già Marcuse escludeva a priori, dati i fenomeni di progressivo “imborghesimento” della classe lavoratrice che si stavano affermando in Occidente. C’è tuttavia un movimento in particolare, ed è quello ecologista, che può dirsi abbia in parte raccolto l’esperienza della Nuova sinistra europea e americana, rilanciando potentemente il pensiero marcusiano con riguardo soprattutto alle tematiche della tecnologia e del determinismo scientifico. Al termine del libro si fa cenno all’emergere, specie nel corso degli anni ’70, della scienza ecologica e alla sua affermazione, se adottiamo una lettura politica, quale scienza sovversiva e in parte sostitutiva dei paradigmi allora vigenti all’interno delle scienze sociali, in particolare dell’economia. Ne deriva un dibattito epistemologico che ha avuto luogo in quegli anni e nel corso dei decenni successivi e che è poi sfociato nelle contestazioni ambientaliste e antiglobalizzazione degli anni ’90 e dei primissimi anni del nuovo secolo, per essere tuttavia marginalizzato e assorbito all’interno di una logica consumistica negli anni successivi e nell’epoca che stiamo vivendo.
Roberto Marini, nato il 28 ottobre 1970 a Trento, dove vive e lavora. Laureato in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Trento, ha conseguito un master in conservazione e valorizzazione del patrimonio industriale presso l’Ateneo di Padova. Da anni svolge la professione di archivista storico, occupandosi di fondi documentari di epoca contemporanea, con particolare interesse verso gli archivi economici e d’impresa. Si occupa di storia sociale, archivi e cultura materiale, archeologia industriale.