
I populisti di ogni latitudine e propensione, è stato detto, sono contro le élites, espressione di qualcosa di “altro” rispetto al popolo. Essi, però, tendono all’autoritarismo perché in fondo non tollerano la diversità delle opinioni: quindi, essendo il populismo una forma esclusivista di politica dell’identità, viene visto come un pericolo per la democrazia.
Ci sono vari populismi, quanto meno a seconda del popolo cui fanno riferimento; popolo come demos – l’insieme dei cittadini che abitano la polis (il “popolo sovrano”), da cui viene anche la nozione di democrazia (potere del popolo) in opposizione a quella di oligarchia (comando dei pochi, le élites); popolo come ethnos (il “popolo nazione”); popolo come plebe, l’ampio e maggioritario gruppo sociale per lo più negativamente privilegiato (la plebs, il “popolo-classe”), parte del populus ma identificato con il tutto. A seconda di queste caratteristiche, quindi, si capisce come vi siano populismi “di sinistra” (egalitari) e populismi “di destra” (nazionalistici), anche se è tipico di tutti i populismi alimentare la confusione tra queste caratterizzazioni per accentare la presa demagogica del messaggio trasversale.
Come si esprime il populismo nel nostro Paese?
Se tratti “populisti” (o semplicemente demagogici) sono stati presenti per lungo tempo in alcune forze politiche e leader, è solo nell’ultimo decennio che tali tratti hanno esplicitamente caratterizzato il messaggio attorno al quale il consenso di alcune forze e movimenti si è espresso: tra tutti, il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord, particolarmente nella sua ultima “versione” salviniana. Se il M5S è nato e ha guadagnato consensi su parole d’ordine e tematiche egalitarie e “anti-sistema”, trovando consenso nei giovani adulti delle centri urbani e peri-urbani, la Lega Nord, che pure aveva sin dalle origini accentuato il suo carattere anti-centralistico (ma non per questo “populistico”) e localistico, nella sua evoluzione recente ha cavalcato le tematiche anti-immigrazione e anti-globalizzazione in chiave nazionalistica e “sovranista”, caratterizzandosi vieppiù in senso populista per estendere il suo consenso oltre i confini delle regioni del Nord Italia. Il populismo si è così espresso nel nostro Paese nelle due varianti descritte sopra, con caratteri specifici, per cogliere una domanda da parte dei ceti medi e popolari non raccolta dall’offerta politica dei partiti popolari tradizionali.
Quali sono le cause del costante aumento di consensi di movimenti e partiti populisti?
In generale, molti studi hanno mostrato che l’aumento di consensi è speculare alla perdita di consenso dei partiti “mainstream” (sia liberali o di centro che socialisti o di sinistra) che non hanno saputo offrire una risposta alle inquietudini crescenti dei ceti medi e bassi che non si sono sentiti protetti dalle crisi, dagli effetti della globalizzazione e da fenomeni come l’immigrazione o la de-industrializzazione. Questo è stato vero in parte un po’ ovunque, anche se con molte differenze: ben diverse, infatti, sono le ragioni che stanno dietro al successo di Trump o della Brexit, piuttosto che all’ascesa di Orban o dei vari populismi che come fuochi di paglia sono apparsi per poi sparire in vari Paesi europei. Una caratteristica constante, comunque, è la generale perdita di senso, di identità culturale politica che, a fronte delle crisi e delle trasformazioni in atto, ha visto i partiti tradizionali incapaci di dare risposte alle disuguaglianze crescenti e persistenti.
Quale ruolo hanno le disuguaglianze nella crescita del fenomeno populista?
A mio parere – ed è ciò che cerco di mostrare nel mio libro – esse hanno avuto un ruolo centrale, non sufficientemente esplorato da altri studi e anche dalle forze politiche mainstream. Nessuno, a sinistra, pare essersi reso conto che non aver fatto nulla per attenuare le disuguaglianze di reddito e di opportunità – per anni, per decenni – non ha fatto altro che far crescere la sfiducia verso i partiti della sinistra, in Italia come in Europa, e alimentato il consenso verso forse che si ripromettevano, quanto meno, di “scalzare” le forze a governo in nome del popolo e di istanze egualitarie. Ma se le disuguaglianze nella distribuzione del reddito disponibile e di mercato sono lì da decenni ormai, crescenti, persistenti, non è un caso che i partiti e i movimenti populisti hanno iniziato a guadagnare consensi e a prendere davvero piede solo dopo la crisi del 2008 e dopo che per alcuni anni i partiti di sinistra, spesso al governo, non avevano saputo rispondere se non accettando le politiche rigoriste dell’Unione Europea senza tutelare i ceti popolari e le classi medie e senza invertire il trend negativo di aumento delle disuguaglianze tra le classi. In altri termini, se fino al 2008 la sinistra poteva ancora contare su un certo consenso popolare nonostante le disuguaglianze, il suo avere accettato la “ricetta” neo-liberista per uscire dalla crisi ha dato definitivamente la stura ai movimenti populisti. Disuguaglianze persistenti, bassa mobilità sociale e aumenti delle disparità sociali sono stati così in grado di alimentare il consenso populista che, peraltro, ha trovato nell’appello all’egualitarismo, a parole d’ordine come “reddito universale”, all’anti-globalismo e anti-immigrazione i suoi punti di forza, come se questi potessero davvero andare a recidere alla radice, il disagio distributivo e le sperequazioni nelle opportunità. Le radici del populismo stanno nelle disuguaglianze: immigrazione e globalizzazione sono solo manifestazioni che ne accentuano i tratti e i governi sovra-nazionali che le assecondano sono così percepiti come i difensori di uno stato di cose che avvantaggia i più ricchi e penalizza i ceti medi e bassi.
Da dove nascono le disuguaglianze che affliggono l’Italia?
Come hanno già mostrato Atkinson, Piketty e altri, le disuguaglianze in Italia e in tutti i paesi a economia di mercato – i paesi occidentali economicamente avanzati, ma anche molti paesi emergenti – sono in aumento da ormai un trentennio. La tendenza è uniforme ed è il risultato di due trend che sono andati cumulandosi nel corso del tempo. Il primo riguarda il rapporto tra reddito da lavoro e reddito da capitale. Con il dopoguerra e il “boom” economico degli anni Cinquanta e Sessanta – aumento del reddito nazionale, aumento di stipendi e salari, quasi-piena occupazione – era anche aumentata la quota del reddito da lavoro sul reddito nazionale (le retribuzioni erano cresciute più dei profitti e dei redditi da capitale). Sul finire degli anni Sessanta e poi nel corso dei Settanta, la pressione sindacale e le lotte dei lavoratori – per migliori condizioni di lavoro, orario e salario – hanno poi portato ad una certa pressione sui costi che le imprese hanno gradualmente trasferito sui prezzi, alimentando una spirale inflazionistica che sarebbe poi scoppiata con la crisi petrolifera del 1973-74. La “ristrutturazione” che ne seguì – con un aumento della disoccupazione e il susseguente aumento della spesa sociale, aumento della spesa pubblica e indebitamento – contribuì a dare fiato alla “controffensiva” liberista – meno Stato e più mercato – che trovò in Reagan e Thatcher i suoi paladini. Con gli anni Ottanta, il rapporto tra capitale e lavoro tornò a mutare in favore del primo e il reddito da lavoro iniziò lentamente a declinare, in termini relativi. L’avvio della globalizzazione alla fine degli anni Ottanta diede definitivamente il via a questa tendenza – de-localizzazioni e de-industrializzazione, riconversioni – lasciando al palo i redditi da lavoro mentre quelli da capitale iniziarono ad aumentare costantemente. La seconda tendenza riguarda le politiche fiscali e redistributive. Mentre fino agli anni Settanta queste erano state fortemente orientate alla redistribuzione – con tassazione progressiva e sussidi – dagli anni Ottanta in poi la funzione riequilibratrice è via via venuta meno sia “a valle” – sul reddito disponibile – che “a monte”, sul reddito di mercato. Le due tendenze si sono composte in un generale aumento delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, con un incremento sempre maggiore delle quote di reddito afferenti alle classi più ricche. L’idea neo-liberista che la crescita economica e l’aumento del reddito complessivo avrebbe “favorito” tutti nello stesso modo si è rivelata fallace, però, e non poteva essere altrimenti (un aumento del 5% per tutti si traduce in un incremento ben maggiore per chi riceve di più) contribuendo così ad aumentare il gap tra redditi bassi e alti. Il contemporaneo smantellamento della spesa sociale ha poi fatto sì che anche quei possibili veicoli della mobilità sociale che in passato avevano supplito alle disuguaglianze di reddito – l’istruzione, la mobilità intergenerazionale e di reddito – venissero meno. L’ascensore sociale si è rotto e lo Stato e le sue politiche non hanno fatto che contribuire ad arrugginirlo.
Quali caratteristiche presenta il consenso populista?
Il consenso populista, per “definizione”, è demagogico e di breve periodo, non dà prospettive, fa leva sul disagio sociale e si alimenta di sentimenti anti-sociali come l’invidia, l’odio, l’intolleranza. Esso fa presa sui sentimenti frustrati dei ceti medi declassati – i giovani adulti esclusi, i ceti urbani periferici – e sul disagio sociale dei ceti popolari, che si sentono traditi nelle loro aspirazioni e opportunità. Il consenso populista si alimenta di un generale sentimento egalitario che si percepisce come defraudato delle possibilità che venivano prospettate anche solo una generazione fa. È il risultato del fallimento universalista delle politiche neo-liberiste che hanno finito per favorire solo i ceti più abbienti che, peraltro, non hanno fatto che arroccarsi nella loro cittadella erigendo barriere all’entrata nell’istruzione, nelle professioni, lasciando che l’ideologia della “libera competizione” prevalesse laddove questa finisce per penalizzare solo i più esposti – i lavoratori meno qualificati, i settori più deboli sul mercato internazionale – e lasciando così che un sentimento di sfiducia e di ostilità finisse per prevalere nei confronti della globalizzazione – dei beni, del lavoro e del capitale – quando era invece la mancanza di una vera mobilità – e le persistenti disuguaglianze – ad essere responsabile. Il figlio di un operaio non laureato, oggi, ha una chance molto minore dei suoi genitori di poter diventare un laureato, di ambire ad una professione con un reddito maggiore dei suoi di quanto non avessero i suoi trent’anni fa. E la colpa di tutto ciò non è della globalizzazione.
Pier Giorgio Ardeni è professore di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna. Ha lavorato con organismi internazionali in Europa orientale, Asia e Africa ed è stato, nel quadriennio 2016-2019, presidente della Fondazione di ricerca Istituto Carlo Cattaneo. Tra i suoi scritti più recenti: Cento ragazzi e un capitano. La brigata Giustizia e Libertà “Montagna” e la Resistenza sui monti dell’alto Reno tra storia e memoria (2014), Across the Ocean to the Land of Mines (2015) e Crisi, trasformazioni e i punti di svolta della storia (2019).