
Molto brevemente, la crisi politica, che è causata dall’iperconflittualità tra i due partiti maggiori – il Partito Popolare (Pp), conservatore, ed il Partito socialista (Psoe), progressista – impedisce alle due formazioni di collaborare alla soluzione dei problemi del paese e indebolisce la fiducia degli elettori nei partiti tradizionali. La crisi territoriale affonda invece le radici nella vicenda della revisione dello statuto di autonomia della Catalogna, che dopo un complesso iter di approvazione era stato impugnato dal Pp di fronte al Tribunale costituzionale. La sentenza del Tribunale, che nel 2010 definisce non costituzionali alcuni aspetti del documento, genera un profondo sdegno in Catalogna, cui fa seguito un processo di radicalizzazione delle posizioni sia a livello di élite che di massa. La crisi istituzionale, infine, si innesca quando le tensioni catalane diventano tali da causare la rottura delle regole che presiedono all’organizzazione territoriale dello stato e che erano state decise con un ampio consenso tra le forze politiche dopo il ritorno alla democrazia.
Nel libro spiego come la crisi economica, quella politica e quella territoriale producano effetti che si rafforzano a vicenda. La recessione economica, gestita con le manovre di austerità approvate da Bruxelles, ha infatti contribuito ad aggravare la crisi politica, aumentando lo scontento dei cittadini verso i partiti di governo. La recessione, d’altra parte, ha inasprito anche la crisi territoriale, perché la Catalogna, incapace di rifinanziarsi sui mercati, nel 2012 è stata costretta a chiedere aiuto al tesoro spagnolo. Anziché mitigare il conflitto con Madrid, il salvataggio è stato vissuto dai catalani come la prova di un ‘saccheggio finanziario’ a cui occorreva mettere fine.
D’altra parte, l’iperconflittualità tra Pp e Psoe ha impedito di offrire una risposta condivisa alla domanda di maggiore autonomia della Catalogna e, pertanto, anziché disinnescarla, ha contribuito ad aggravare la crisi territoriale. Quest’ultima, poi, ha retroagito sulla crisi politica perché alcuni partiti catalani, che in passato avevano sostenuto i governi di minoranza del Pp e del Psoe, una volta imboccata la prospettiva indipendentista, non sono più stati disponibili né accettabili come partner governativi. Sono così mutati i modelli di competizione partitica. L’intensificarsi di queste tre crisi ha poi generato quella istituzionale del 2015-2017.
Cosa ha significato per la politica spagnola la crisi del bipolarismo PSOE-PP e l’emergere di due nuove formazioni come Podemos e Ciudadanos?
Per la Spagna la crisi del bipolarismo Psoe-Pp equivale al cambiamento che c’è stato in Italia all’inizio degli anni novanta, con il disfacimento dei partiti storici e l’affermazione di nuovi attori politici. Si tratta, cioè, di una svolta rilevante che ha trasformato il bipolarismo stabile del passato nel multipolarismo instabile e polarizzato del presente.
Basti pensare che nelle elezioni del 2008 i due partiti principali riunivano ancora l’84% dei voti espressi ed il 92% dei seggi del congresso, la camera che ha il potere di concedere e revocare la fiducia all’esecutivo. Nelle elezioni del giugno 2016 queste percentuali sono crollate, rispettivamente, al 55% e al 63%, lasciando spazi di rappresentanza a partiti come Unidos Podemos (Up), a sinistra, e Ciudadanos (C’s), sul centro-destra dello spettro politico. Ciò ha modificato radicalmente i modelli competitivi perché al confronto tra Pp e Psoe se ne sono aggiunti altri due: quello all’interno della sinistra, tra Psoe e Up, e quello per il predominio nel centro-destra, tra Pp e C’s.
Se Podemos e Ciudadanos sono riusciti ad affermarsi come ‘imprenditori del malessere politico’ offrendo un messaggio di cambiamento imperniato sulla fine del bipartitismo, d’altra parte, è perché entrambi gli esecutivi che hanno gestito la recessione, quello socialista di Zapatero tra il 2008 ed il 2011 e quello popolare guidato da Rajoy tra il 2011 ed il 2015, hanno seguito ricette di consolidamento fiscale identiche. In un paese in cui le alternanze al governo hanno sempre portato con sé grandi cambiamenti, l’avvicendamento tra Psoe e Pp del 2011 si è fatto notare per l’assenza di novità, tanto che il suo unico risultato sembra essere quello indicato da Krastev per i Balcani, ovvero l’affermazione di una «democrazia senza scelta», in cui i cittadini possono cambiare più facilmente i governi che non le loro politiche.
Alla delusione per la gestione economica vanno poi aggiunti i conflitti interni che assorbono le energie del Psoe e la fitta sequenza di casi di corruzione che investono soprattutto il Pp. Non deve stupire, quindi, l’emergere di un vuoto di rappresentanza che spinge i cittadini a rifugiarsi nell’astensione (da un quarto ad un terzo degli aventi diritto tra il 2008 ed il 2016) e a votare per i nuovi partiti.
Come ha affrontato la Spagna la recessione economica?
In Spagna la recessione ‘gela’ una lunga fase di espansione (+3,9% il tasso medio di crescita annuale del Pil per il decennio 1998-2007) cominciata nella seconda metà degli anni novanta e proseguita ininterrottamente grazie agli effetti positivi dell’entrata nell’eurozona e al boom del settore edilizio. In questa situazione, la recessione produce una massiccia distruzione di posti di lavoro, inferiore solo a quella che avviene in Grecia, e genera una profonda crisi sociale, contrassegnata dall’aumento delle diseguaglianze e del rischio di povertà. Guardando i dati, cioè, si vede che la crisi economica di Madrid, nel complesso, è stata più lunga e profonda di quella registrata negli altri paesi dell’area euro (Grecia esclusa).
Dopo una breve fase di politiche espansive, che si chiude nella primavera del 2010, quando la crisi del debito sovrano diventa la prima emergenza europea, i governi del Psoe (fino al 2011) e del Pp (in seguito) rispondono alla recessione sostanzialmente nello stesso modo. Vale a dire con il varo di manovre finalizzate a rispettare i vincoli di stabilità promessi all’Ue. Si tratta di manovre pesanti, quasi completamente fondate su tagli alla spesa anziché su aumenti della tassazione, e che pertanto penalizzano l’ampia platea dei beneficiari delle prestazioni pubbliche.
Tra le decisioni politiche più rilevanti ricordo l’introduzione del principio di stabilità di bilancio in Costituzione, nel 2011, l’unica riforma su cui Pp e Psoe riescono ad accordarsi nei mesi in cui la crisi del debito sovrano rischia di affondare l’euro, e il bailout del settore bancario, nel 2012. Gli opposti esiti del crollo del settore immobiliare per gli istituti di credito – salvati con gli aiuti europei – e per le famiglie – sfrattate quando non riescono a pagare il mutuo – hanno generato forti movimenti di protesta come quello guidato da Ada Colau, poi eletta sindaco di Barcellona.
Da cosa nasce l’attuale cortocircuito politico-istituzionale?
Il termine indica l’intrecciarsi della crisi istituzionale catalana con la crisi della politica nazionale. La crisi territoriale catalana si trasforma in crisi istituzionale dopo le elezioni autonomiche del settembre 2015, quando il govern di Puidgemont intraprende il percorso culminato nella dichiarazione unilaterale di indipendenza del 27 ottobre 2017, che porterà alla successiva attivazione dell’articolo 155 della Costituzione da parte dell’esecutivo Rajoy. La crisi politica nazionale ha invece una ricaduta ‘istituzionale’ dopo le elezioni del dicembre 2015, quando per la prima volta dal 1977 non si riesce a formare un governo e il paese deve tornare alle urne nel giugno 2016. Sarà poi solo alla fine dell’ottobre 2016 che viene insediato un governo di minoranza del Pp, mettendo fine a dieci mesi nei quali il paese viene guidato da un esecutivo per gli affari correnti.
Parlo di cortocircuito perché l’ambito nazionale e quello catalano si intersecano, generando una situazione di stallo in cui il processo indipendentista avanza e cresce la polarizzazione sia a livello di élite che di massa. L’assenza di un governo partitico, infatti, inasprisce la crisi catalana, mentre quest’ultima ha importanti ricadute su quella politica, modificando le modalità competitive e ostacolando la formazione del governo.
A Suo avviso, quale esito avrà la crisi catalana? E quale futuro è immaginabile per la Spagna?
È molto difficile rispondere a queste domande. Rispetto a qualche mese fa, quando ho chiuso il libro, il governo del Pp è stato sostituito da uno del Psoe guidato da Pedro Sánchez grazie ad una mozione di censura costruttiva. Questa è già una novità da evidenziare perché in passato questo tipo di mozioni non avevano mai avuto successo. Sánchez si dichiara disposto a dialogare con gli indipendentisti catalani, che tra l’altro hanno votato contro Rajoy e a favore della sua investitura. Anche questa è una novità nel panorama degli ultimi anni. Se il dialogo ci sarà e arriverà da qualche parte resta da vedere. Ma il punto da sottolineare è un altro, più generale. La fine del bipolarismo e l’affermazione del multipolarismo fino a questo momento hanno generato una situazione di stabile incertezza. I rapporti di identificazione tra cittadini e partiti non si sono ancora fissati, così come mancano solide alleanze tra i partiti. Questi ultimi, pertanto, navigano a vista nella volatilità generale, guidati dai sondaggi e dalle prospettive per le elezioni più prossime. Per il 2019, oltre alle elezioni europee, in Spagna è in calendario una importante tornata di elezioni regionali e municipali. I risultati di quelle consultazioni e le alleanze che si formeranno a livello locale daranno indicazioni sul futuro del sistema partitico.