
Cosa rivela l’analisi delle parole dello Statuto albertino?
Fra le parole dello Statuto, la più significativa sembra essere proprio l’uso del termine Statuto per definire quella Carta, a richiamare le antiche libertà medievali e disegnare una linea di confine rispetto alle libertà post-illuministiche e ai loro prodotti normativi, le “dichiarazioni” e le “costituzioni”. Può suggerire molto anche il confronto con parti o addirittura interi articoli riprodotti dai testi che di questa Carta furono gli ispiratori, ossia la Costituzione belga del 1831, la Carta della monarchia di Luglio (1830) e la Charte Octroyée (1814); lo studio comparativo di questi documenti, condotto con attenzione, risulta rivelatore di una ispirazione dello Statuto all’antecedente belga, che tuttavia si ferma quando questo appare eccessivamente innovativo.
Paradossalmente, tuttavia, ciò che emerge con maggiore evidenza sono le parole non scritte, la discrasia tra il testo e la vita concreta dell’ordinamento: ad esempio, è impossibile non notare la mancata citazione di istituti come il Consiglio dei ministri, il Presidente del Consiglio, la fiducia, l’interim, e la contraddizione tra la proclamata centralità del monarca e una precoce prassi costituzionale improntata alla logica del parlamentarismo.
Quali parole utilizza la Costituzione repubblicana?
Quelle della Costituzione – notava Tullio De Mauro – sono davvero “parole di tutti e per tutti”, come testimonia il fatto che il 92% delle parole ricorrenti appartengono al vocabolario di base, composto da 7.000 vocaboli di uso frequente. Una caratteristica, questa, tipica delle costituzioni moderne, che contengono norme rivolte non agli apparati, ma a tutti coloro che vivono più o meno stabilmente sul territorio nazionale, per guidarne i comportamenti e per esprimere e palesare i principi su cui si regge la convivenza civile e politica della nazione. In particolare, va interpretato oggi in maniera non restrittiva l’uso del termine “cittadini”, che ricorre in molti articoli della Costituzione non solo a proposito dei diritti politici: una interpretazione del termine che individui soltanto coloro che godono del diritto di cittadinanza farebbe torto al primo uso di questa parola, nata nella storia del costituzionalismo in funzione eminentemente eguagliatrice.
Negli articoli della Costituzione sono stati usati con parsimonia e con una scelta di volta in volta mirata altri termini come “Repubblica”, “nazione” (un insieme caratterizzato da lingua, cultura e tradizioni comuni), “Paese”, “Patria”, “Italia” e “italiani”, “collettività”, ed anche parole come “sociale”, un aggettivo usato frequentemente per esprimere l’idea dello “Stato sociale”, capace di promuovere la giustizia sociale. In definitiva, si può affermare che il linguaggio della Costituzione rispecchia pienamente la nuova fase della storia del costituzionalismo, improntata alle idee-forza dell’universalismo dei diritti, dell’eguaglianza tra tutti gli uomini e della convivenza e collaborazione internazionale.
Quali caratteristiche presentava la lingua delle leggi nell’esperienza liberale e fascista?
Nell’età liberale si possono individuare due fasi diverse; nella prima, quella del periodo costituente, la lingua usata dal legislatore era caratterizzata da chiarezza, concisione e da un uso piano della lingua italiana dell’epoca, diretta nelle prescrizioni e scritta con vocabolario non specialistico; nella seconda fase, avviata già alla fine dell’Ottocento ma tipica soprattutto del periodo giolittiano, la lingua delle numerose leggi speciali indirizzate verso i bisogni di comunità o particolari categorie di cittadini assunse un peculiare timbro di concretezza, ricco di tecnicismi. La lingua del fascismo, con la sua inventiva fertilissima, non riuscì a permeare gran parte della legislazione del ventennio, che in buona parte rimase fedele al modello tradizionale, anche perché nata nell’ambito degli uffici legislativi dei ministeri, e in particolare quello della Giustizia, o rivista – nel caso dei decreti-legge e dei numerosi Testi unici – dal Consiglio di Stato; della lingua del fascismo si sente invece l’influsso nelle norme dedicate alle politiche repressive e di condizionamento del consenso o in quelle sulla propaganda.
Come è cambiata la lingua delle leggi in età repubblicana?
L’evoluzione della lingua delle leggi in età repubblicana corrisponde alla progressiva dilatazione dell’orizzonte normativo, sia in senso geografico (per il peso crescente della Unione europea e delle organizzazioni internazionali) sia in rapporto alla crescita di valori e interessi da tutelare (come lo sviluppo industriale e infrastrutturale, dell’ambiente …). Di qui l’importazione di termini stranieri, quasi tutti inglesi, e la moltiplicazione di linguaggi specialistici e gergali.
Quali forme assumevano ritualità e linguaggio del Parlamento fascista?
Con l’avvicendarsi delle legislature, lo stile utilizzato dai parlamentari, non più divisi in opposte fazioni, divenne sempre più omogeneo, e spesso ispirato ai toni militareschi tipici dell’oratoria mussoliniana, fortemente innovativa nel vocabolario. La sostanziale monotonia delle sedute era però interrotta dal rituale del “saluto al duce” al suo ingresso nell’aula o all’uscita, con canti e ovazioni che risuonavano a lungo; il confronto parlamentare era ormai ridotto a una manifestazione celebrativa. La vera innovazione introdotta nella prassi parlamentare, tuttavia, si rinviene nelle modalità di approvazione delle leggi, soprattutto le più importanti, che ora avveniva per acclamazione, come naturale modalità di espressione del consenso, acritico e entusiasta, tributato alle politiche del regime; una prassi che comunque non si sostituì, se non in rarissimi casi, alla votazione segreta finale prevista dai regolamenti, nonostante le reiterate richieste di molti parlamentari.
Come si misura la qualità della legislazione?
A partire dagli ultimi anni del Novecento sono state molte le iniziative prese in sede governativa e parlamentare per misurare e migliorare la qualità della legislazione, in presenza di crescenti fenomeni degenerativi quali l’inflazione legislativa o l’inquinamento legislativo, che rende le norme oscure, lacunose, contraddittorie, inapplicabili. In Parlamento è stata introdotta nel 1997 l’istruttoria legislativa in Commissione, mentre da parte governativa nei primi anni del 2000 sono stati introdotti, per le ipotesi di nuovi interventi normativi, strumenti quali l’analisi tecnico-normativa e l’analisi dell’impatto della regolamentazione (AIR), per gli atti già emanati la Verifica dell’impatto della regolamentazione (VIR), per valutare il raggiungimento delle finalità e la stima dei costi e degli effetti prodotti da atti normativi sulle attività dei cittadini e delle imprese e sull’organizzazione e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni. Si aggiungono gli interventi del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale, nell’esercizio delle rispettive competenze.
I maggiori problemi derivano tuttavia dal fatto che negli anni più recenti la fonte ordinaria di produzione normativa è divenuta il decreto-legge, che proprio per il suo carattere di urgenza sfugge ai controlli preventivi; il controllo della qualità, in questo caso, deve spostarsi sul procedimento di conversione in legge, che spesso diviene strumento di ampliamento dei contenuti originari del decreto-legge. Allo stesso modo, richiedono un’attenzione particolare gli atti di recepimento della normativa europea, nei quali sono presenti termini innovativi rispetto al linguaggio giuridico e amministrativo in uso in Italia e la stessa trasposizione del testo può creare problemi.
Quali elementi caratterizzano il linguaggio dell’amministrazione pubblica?
Il linguaggio della burocrazia non ha un suo lessico specifico, ma si è sempre distinto dal linguaggio comune perché ha sempre rifiutato gli usi informali, prediligendo tecnicismi lessicali, registri formalizzati e formule rituali. È anche caratterizzato dalla presenza di arcaismi e da una sintassi complessa, ricca di subordinate, tipica di un linguaggio giuridico degradato, utilizza termini creati ad hoc. In sostanza, un linguaggio distante dalla lingua parlata, talvolta incomprensibile, tanto da essere definito negli anni Settanta del ’900 “burocratese”, e qualche anno prima da Italo Calvino “antilingua”. Del resto, al momento dell’unificazione la scelta di un linguaggio settoriale appariva inevitabile, dal momento che l’italiano, parlato soltanto da circa un decimo della popolazione, aveva conservato un’impronta fortemente letteraria. Lungo tutta l’età liberale e fascista la burocrazia continuò a combattere una vera e propria guerra contro i neologismi e i forestierismi, attestata dalla pubblicazione nell’Ottocento di numerosi vocabolari della lingua amministrativa, opera di uomini interni all’amministrazione, che hanno in comune la rivendicazione della purezza della lingua. Solo molto tardivamente, nel 1993, con la pubblicazione del Codice di stile da parte del ministro della Funzione pubblica Sabino Cassese venne finalmente posto all’attenzione il problema della necessità della semplificazione del linguaggio burocratico.
In che modo la comunicazione istituzionale si rapporta alle nuove tecnologie?
La sensibilità delle istituzioni pubbliche verso i temi della comunicazione si è manifestata già prima della diffusione delle nuove tecnologie. In particolare la Camera dei deputati e il Senato avevano una abitudine consolidata di elaborare indici e repertori che consentissero di reperire le informazioni negli atti parlamentari. Tuttavia, dal momento in cui, nel 1996-97, Camera e Senato hanno inaugurato i loro siti web, la prospettiva è cambiata completamente, perché per la prima volta le istituzioni parlamentari – come del resto tutte le altre istituzioni pubbliche – attraverso i loro siti hanno iniziato a comunicare direttamente con i cittadini, senza la mediazione degli organi di stampa. I siti si sono arricchiti progressivamente di contenuti: testi ufficiali, banche dati, immagini, contenuti dinamici, presentazione delle attività; entrambe le Camere hanno dedicato ampio spazio alle loro web-tv, attraverso le quali è possibile seguire in diretta le sedute e altri eventi o ricercare nei relativi archivi. Di più, la presenza delle istituzioni on line permette di aumentare la partecipazione democratica dei cittadini, anche attraverso l’introduzione di nuovi strumenti di democrazia diretta, come ad esempio qualche esperienza di consultazione pubblica volta ad acquisire documentazione e pareri da parte dei cittadini. Altra svolta importante è consistita nell’approdo delle istituzioni (Governo, Camere, Corte costituzionale) sui social network, Twitter, Facebook, Instagram, per stabilire un rapporto più diretto con i cittadini e comunicare notizie in tempi rapidi sulla loro attività.
Giovanna Tosatti è stata docente di Storia delle istituzioni presso l’Università della Tuscia e precedentemente, fino al 2005, funzionaria presso l’Archivio centrale dello Stato. Per il Mulino ha pubblicato nel 2009 il volume Storia del Ministero dell’Interno. Dall’Unità alla regionalizzazione e per Aracne nel 2012 La modernizzazione dell’amministrazione italiana 1980-2000. Di recente ha curato con Guido Melis il volume Il potere opaco. I Gabinetti ministeriali nella storia d’Italia (Il Mulino 2019).