
Venendo alla domanda, mi sembra di poter dire che lo Stato, o ciò che la storiografia ha definito con questo nome, visto che ancora nell’epoca dei Lumi si è continuato ad intendere con questo concetto una condizione (particolarmente esemplificativa nella locuzione «status rei publicae»), è l’esito di una pluralità di vicende che interessano l’Occidente europeo ed hanno a che fare con le trasformazioni economiche, demografiche, sociali e politiche che si manifestano dopo il Mille. In particolare tra queste ultime va sottolineata l’importanza del conflitto tra la Chiesa e l’Impero che trova nella «rivoluzione» di Gregorio VII un punto di svolta fondamentale (anche se non mancheranno rimesse in discussione e ritorni all’indietro), il ruolo dei legami feudali come strumento di coordinamento del potere politico e sociale e più in generale i due fenomeni strutturali del consolidamento dei poteri signorili e dell’articolazione territoriale delle forme di potere. Senza scordare le trasformazioni culturali e scientifiche: si pensi alla rinascita degli studi giuridici e alla fondazione delle università che tanta importanza hanno avuto per la legittimazione teorica e la pratica della «sovranità» o alla messa in campo di quei saperi legati alla conoscenza del territorio dello Stato e al governo delle popolazioni, dalla cartografia alla statistica.
Come si è espresso il pluralismo costitutivo del processo di formazione dello Stato e quali traiettorie di sviluppo ha seguito?
Uno dei rischi sempre presenti nelle trattazioni sulla formazione e il consolidamento dello stato moderno consiste nella proiezione all’indietro della forma-Stato dell’età contemporanea, espressione del «monopolio della violenza fisica legittima» (Weber) e centrata sulla legge, che ha portato anche alla mitizzazione di questa forma di organizzazione del potere. Come cerco di dimostrare, la vicenda dello Stato moderno, pur essendo caratterizzata da una tendenza evidente verso la concentrazione del potere (economico, militare, sociale, politico), è strutturalmente caratterizzata da un pluralismo costitutivo di fondo, non solo nei secoli iniziali della sua formazione. Questo pluralismo ha a che fare con le formazioni corporative che hanno innervato la società occidentale sin dal medioevo e che non hanno smesso di caratterizzarla anche nelle fasi di maggiore sviluppo di quello che con molta semplificazione si suole indicare ancora oggi con il termine di «assolutismo». Formazioni corporative all’interno delle quali vanno ricondotti anche i ceti, protagonisti della storiografia tedesca per tutta una fase a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, ma ad essa non esclusivamente riducibili.
Questo pluralismo di fondo, che ha evitato, prima dei totalitarismi novecenteschi, la degenerazione verso forme di potere dispotico, deve molto al conflitto tra Chiesa e Impero, tra religione e politica nella storia occidentale. Da tale conflitto tra i due poteri con pretese universalistiche emerge, attraverso la desacralizzazione del giuramento, come ha dimostrato Paolo Prodi, il particolarismo statuale e quel pluralismo istituzionale che ha caratterizzato il dinamismo costituzionale occidentale. Grazie alla separazione tra foro civile e foro della coscienza, nonostante il risorgente confessionalismo, si è prodotta quella modernità di cui è figlia la civiltà occidentale. Quest’ultima si afferma in modo peculiare durante le guerre civili di religione in Francia allorché si fa strada quella soluzione propagandata dai politiques sulla cui base verrà costruendosi lo stato laico fondato sulla politica e animato dalla tolleranza e dalla libertà religiosa.
Ma il pluralismo non è legato solo alle istituzioni e ai poteri sociali a matrice corporativa. Esso è legato anche ai territori, anch’essi entità corporative che connotano con i propri privilegi e libertà, o autonomie, la formazione e lo sviluppo dello Stato moderno. Il fatto che territori dotati di più o meno larghe autonomie continuino a condizionare strutturalmente la vita degli Stati europei, anche di quelli dove più rapida e solida è l’affermazione della centralizzazione politica, fa capire ancora oggi la rilevanza dei fenomeni di territorializzazione del potere.
Quali strutture hanno portato alla formazione dello Stato nell’Occidente europeo?
Anzitutto va ribadito che lo Stato non era una soluzione obbligata allo sviluppo del potere politico. Esso è stata la soluzione vincente e più efficace di uno scontro di potere che in determinati momenti della storia europea e in alcune aree in particolare ha presentato alternative potenzialmente altrettanto realizzabili e efficaci: mi riferisco in particolare alla struttura imperiale che nonostante l’endemica crisi, e i conseguenti progetti di riforma che ne costelleranno la storia, crisi accentuatasi con la frattura religiosa cinquecentesca, ha rappresentato una forma organizzativa che è durata un millennio dalla rinascita carolingia alla dissoluzione sotto i colpi dell’altro Impero in cerca di nuova e moderna legittimazione, quello napoleonico; ma anche all’alternativa rappresentata dai comuni, dalle coniurationes cittadine, dalle unioni e leghe cittadine, dalle confederazioni, la cui importanza è stata ampiamente sottovalutata (al pari della statualità minore) nella ricostruzione delle strutture politiche dell’Occidente europeo.
Nonostante alcune letture abbiano optato per un’interpretazione troppo dicotomica dello sviluppo delle città, considerate come i luoghi dell’accumulazione capitalistica, e dello Stato, visto come il centro della forza e della coercizione militare, queste due strutture sono state storicamente strettamente intrecciate. Alla fine ha avuto la meglio l’organizzazione statuale perché la sua «misura», vale a dire la taglia degli stati, in rapporto ai settori di sviluppo della convivenza umana (controllo militare e sicurezza pubblica, sviluppo economico, conoscenza del territorio e sfruttamento delle risorse, commercio e comunicazioni, è stata quella in grado di rispondere meglio alle sfide della modernità.
Tra le strutture che hanno potentemente contribuito all’affermazione di entità politiche a dominanza statale, non va scordato il feudalesimo che, contrariamente ad una immagine consolidata secondo cui esso rappresenta il frazionamento politico se non l’anarchia, ha consentito non solo per il medioevo, lo sviluppo e il radicamento di forme di coordinamento del potere politico attraverso l’utilizzo di strumenti sofisticati di potere (fedeltà, beneficio, immunità) che hanno segnato profondamente la storia europea anche nel corso dell’età moderna (ovviamente con le trasformazioni resesi necessarie dall’andamento storico) e fin dentro l’età contemporanea in alcuni contesti più arretrati.
Quali differenze istituzionali, sociali e territoriali hanno connotato la vicenda dello Stato moderno in Occidente?
Ciò che propongo nel volume è di guardare alla vicenda dello Stato moderno attraverso una «prospettiva europea». Prospettiva certamente non facile da definire (visto che con essa si può intendere un profilo sintetico della storia politica e istituzionale dell’Occidente oppure la storia di una singola traiettoria statuale alla luce di una prospettiva europea, e considerato che è arduo definire dove comincia e soprattutto dove finisce l’Europa nelle epoche oggetto dello studio) e ancor meno da praticare. Essa però deve problematizzare una vicenda storica, costitutivamente segnata da caratteri comuni così come da una profonda e insopprimibile serie di differenze, alla quale attingere per porsi alcune domande di fondo sulle sorti della politica e delle sue strutture istituzionali nel nostro presente storico. Unità e varietà sono i termini che meglio connotano la formazione e lo sviluppo della statualità nel contesto occidentale.
Le differenze attengono anzitutto alle consuetudini, più o meno formalizzate, relative alla successione dinastica; al ruolo delle istituzioni rappresentative del regno che portano allo sviluppo di forme tricuriali o bicamerali della rappresentanza (modelli per eccellenza gli Stati generali della monarchia francese, a dire il vero riuniti poche se non pochissime volte nel corso dell’età tardo-medievale e moderna, e il parlamento inglese al quale si deve il modello del King in Parliament o della sovranità «condivisa», da cui lo sviluppo della monarchia costituzionale e poi parlamentare); alla costruzione di efficienti apparati amministrativi (visto che lo Stato moderno è un fatto eminentemente amministrativo); al peculiare rapporto tra centro e periferia del sistema, rapporto non unidirezionale ma biunivoco, nel senso che è fondato sullo scambio politico e non è riferibile solo al dato giuridico.
I caratteri comuni della vicenda statuale occidentale hanno a che fare invece su una costante di fondo, vale a dire con la necessità di coniugare le esigenze della sovranità con quelle della partecipazione e del consenso, quelle dell’autorità con quelle della libertà. Si tratta di esigenze insopprimibili ma che trovano composizione e forme differenti. Così come anche i territori trovano forme di integrazione differente all’interno del complesso statale, ma il regionalismo storico è un dato strutturale della forma-Stato della modernità. Tenendo conto che la presa sul territorio da parte dello Stato non è mai completa né tantomeno omogenea. Il controllo dello Stato sul territorio ha dovuto fare i conti con la grande varietà di quest’ultimo che non dipende solo dalla sua collocazione/posizione geopolitica ma anche dalla sua consistenza demografica e dalla composizione sociale della sua popolazione, dalla ricchezza delle sue risorse che spinge il potere politico a riconoscere a determinati territori, più spesso collocati ai confini degli stati, particolari forme di autonomia e di libertà (al plurale, visto che l’antica accezione prima dello sviluppo della moderna libertà coincide con la nozione di privilegio).
In conclusione si può affermare che entrambi i poli della concentrazione del potere e della partecipazione al potere hanno portato alla nascita e allo sviluppo dello Stato moderno; ridurre quest’ultimo al solo profilo della sovranità significa precludersi la comprensione unitaria delle molteplici traiettorie di sviluppo dello Stato nel contesto occidentale e alla fine proiettare all’indietro un’immagine destoricizzata dello Stato contemporaneo. La storia delle istituzioni politiche dovrebbe avere esattamente lo scopo di evidenziare, attraverso la problematizzazione dei momenti genetici, che le istituzioni sono il frutto di molteplici processi di costruzione e di sviluppo. Come ha giustamente scritto Pierre Bourdieu, «l’istituzione istituita fa dimenticare di essere il risultato di una lunga serie di atti di istituzione e si presenta del tutto naturale»: esattamente ciò che deve scongiurare un approccio storico, approccio di cui le scienze sociali tengono sempre meno conto.
Luigi Blanco è professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche all’Università di Trento. Tra i suoi interessi di ricerca, oltre alla vicenda dello Stato moderno: la formazione dei corpi tecnici in Europa e il rapporto territorio-amministrazione nell’Italia unita. Tra i suoi lavori: Stato e funzionari nella Francia del Settecento: gli «ingénieurs des ponts-et-chaussées», il Mulino, Bologna 1991; (a cura di) Dottrine e istituzioni in Occidente, il Mulino, Bologna 2011; (a cura di, con F. Bonini, F. Galluccio, S. Mori), Orizzonti di cittadinanza. Per una storia delle circoscrizioni amministrative nell’Italia unita, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2016.