
Quale nuova concezione di regalità viene introdotta da Alessandro Magno?
Alessandro Magno raccolse e sviluppò fermenti innovativi che erano stati già propri del padre, Filippo II, soprattutto in termini di attenzione al culto della personalità. Allontanandosi dalla tradizione macedone, in cui il re era poco più che un primus inter pares tra i suoi compagni, Alessandro nel corso della sua spedizione in Asia accentuò i tratti personalistici (compreso il culto del sovrano), sviluppando un esperimento politico destinato peraltro in gran parte al fallimento con la sua morte nel giugno 323. Infatti il tentativo di fusione tra regalità macedone e regalità persiana, con l’introduzione di elementi orientali, quali i simboli del potere (il diadema), alcune componenti dell’abbigliamento e rituali di corte (proscinesi) fu osteggiato o comunque recepito solo parzialmente dai suoi immediati successori (i diadochi). Nessuno di costoro, nonostanti tentativi velleitari e comunque destinati a clamorosi insuccessi, riuscì poi a raccoglierne l’eredità politico-militare e a mantenere un impero unitario, anche se molti di loro svilupparono una concezione di regalità in cui il re era lo Stato e la legge incarnata.
Paradossalmente, il grande sogno di creare un impero in cui potessero per lo meno convivere le più diverse etnie si ritorse contro il suo ideatore, almeno nel giudizio delle fonti antiche. Livio, ostile ai Greci che esaltavano la virtù e le imprese di Alessandro a scapito dei grandi protagonisti della Roma medio-repubblicana, acidamente stravolse l’immagine di un Macedone che si considerava e veniva considerato invincibile, dipingendo un sovrano completamente imbolsito e corrotto dai vizi, alla guida di un’armata Brancaleone contro gli imbelli e viziosi persiani. La tradizione iranica, del tutto a torto e strumentalmente, rappresentò dal canto suo Alessandro come l’empio che non solo incendiò Persepoli, ma che volle anche distruggere i testi sacri dell’Avestā, conservati in quella città-simbolo degli Achemenidi o nelle sue vicinanze. Per non parlare della tradizione giudaica, rappresentata dal I libro dei Maccabei, che considerò Alessandro il principio di tutti i mali per la sua superbia, fino ad arrivare a Nizami (o Nezami) Ganjavi (poeta persiano del XII-XIII secolo) che lo rappresentò con orecchie lunghe, anzi lunghissime (e da cui prende il titolo il libro), particolare fisico di cui solo il suo barbiere era a conoscenza.
Come si esprime la reazione polemica o ironica che il potere suscitò nella pubblicistica – coeva e non – e tra i sudditi?
Se oggi Trump può dileggiare con un tweet i suoi avversari, con un corto circuito mediatico immediato, pur con le dovute differenze qualcosa di simile avveniva anche nelle corti ellenistiche. Soprattutto durante il simposio i sovrani si lasciavano andare con i loro cortigiani e i letterati di corte a ironie pesanti nei confronti dei loro rivali e delle loro consorti. Questo è ben testimoniato ad esempio per dinasti del primo Ellenismo, a cui sono dedicate molte pagine nel libro, come Demetrio Poliorcete (forse il re più ammirato, ma anche denigrato nella tradizione antica, dopo Alessandro Magno) e Lisimaco, signore di molti territori tra la Tracia e l’Asia Minore. E del resto un ruolo decisivo era giocato dagli stessi letterati, che spesso offrivano i loro servigi al migliore offerente (secondo una prassi comune nella dialettica tra potere e cultura nel corso dei secoli: basti pensare all’Italia del Quattrocento e ai letterati che si muovevano disinvoltamente da una corte all’altra), oppure erano pronti a vendicarsi dei torti (o presunti tali) subiti dal tiranno o dal sovrano di turno. Spicca su tutti il caso di Filosseno di Citera, pungente critico delle ambizioni letterarie di Dionisio I, che scrisse un ditirambo, in cui presentava il tiranno come un novello Polifemo innamorato di Galatea: dunque, con rovesciamento di valori, Dionisio visto come il ciclope, l’emblema per eccellenza della barbarie.
Ad un altro livello, la tradizione popolare, riflessa poi nelle fonti letterarie, coniava appellativi ironici per sovrani o parodiava quelli ufficiali, sottolineando tratti caratteristici, fisici o anche morali e caratteriali. Questo era anche un modo per manifestare in modo tagliente il dissenso. Particolarmente versati in questo esercizio erano gli Alessandrini sotto il regno dei Tolemei: la loro lingua lunga e tagliente era ben nota nell’antichità.
Il Suo libro raccoglie alcuni casi di studio particolarmente significativi: ce ne illustri qualcuno.
I casi compresi nel libro, con qualche excursus nelle epoche precedenti, vanno da Dionisio I a Cleopatra VII, la regina tolemaica con la quale per convenzione si chiude l’Ellenismo. Tra questi abbondano i personaggi desiderosi di crearsi un’immagine pubblica che potesse avere un’ampia eco presso l’ecumene ellenistica, ma con esiti del tutto negativi. Qualcosa di simile avviene ancora oggi: basti pensare alle fotografie ufficiali di un personaggio come Kim Jong-un, centellinate e distribuite presso i media, che tuttavia hanno spesso un involontario, ma irresistibile effetto comico agli occhi degli occidentali.
Ad es., ad Antioco IV di Siria (175-164) sono dedicati due capitoli del libro. Grande benefattore nel mondo greco e ammiratore di Atene, adottò gli altisonanti epiteti ufficiali Theòs Epiphanès Nikephòros (Dio Manifesto Portatore di vittoria). Con impareggiabile ironia, Epiphanès venne storpiato dai suoi detrattori (tra i quali spicca lo storico Polibio) in Epimanès, un gioco di parole che si può tradurre con Eminente/Demente. E in effetti, come stigmatizza lo stesso Polibio, Antioco ebbe comportamenti e adottò misure autocelebrative che suscitarono l’imbarazzo o lo sconcerto, dentro e fuori il suo regno; ad es. regalare, con decisioni e scelte imperscrutabili, ad alcuni dadi fatti di corno di gazzella, a qualcun altro una manciata di datteri, ad altri, infine, pezzi d’oro. Oppure dispensare doni del tutto inattesi a gente incontrata per caso, mai vista prima. Quando organizzò nel 166 una grande processione vicino ad Antiochia di Siria, durante un banchetto egli, tutto coperto di veli, fu portato in sala dai mimi e deposto a terra, come fosse anche lui un mimo. Al segnale della musica Antioco, balzando in piedi, si mise a ballare e a recitare, insieme ai buffoni. Facile intuire l’imbarazzo dei commensali, che si dileguarono. Davvero un comportamento ‘disdicevole’ per un sovrano, incurante dell’aplomb regale e del rigido protocollo.
Tra gli altri personaggio eccentrici o considerati tali, su cui si appunta l’ironia delle fonti, meritano un ricordo Attalo III, l’ultimo re di Pergamo, e Tolemeo XII, padre di Cleopatra VII. Il primo, profondamente legato alla madre Stratonice, tanto da essere considerato, con scherno, autentico sovrano ‘mammone’, viene ritenuto da una tradizione medievale addirittura inventore del gioco degli scacchi. Esperto sui generis di botanica, era pronto a coltivare piante velenose con i cui succhi eliminava o avrebbe eliminato i suoi nemici. Quanto a Tolemeo, era un sovrano dedito al culto di Dioniso, che veniva celebrato con musiche intonate dall’aulòs (una sorta di oboe). Il re era così fanaticamente devoto a questa divinità da dissipare ampie ricchezze e indulgere a feste sfrenate non prive di travestitismi. Per questo venne soprannominato dai sudditi in segno di spregio Auletès (il suonatore di aulòs, appunto), appellativo con cui è noto ancor oggi.
Federicomaria Muccioli (1965-2020) è stato professore ordinario di Storia greca nell’Università di Bologna