
Ho incominciato a prestare un’attenzione più specifica al rapporto tra autore ed editore nel mondo che possiamo chiamare “moderno” o “contemporaneo” (comunque successivo alla Rivoluzione francese) una quindicina d’anni fa, in maniera piuttosto casuale e in relazione a Foscolo, autore che fino ad allora conoscevo poco. L’occasione presenta tratti aneddotici che vale forse la pena di riferire. Una volta, curiosando tra i libri di una mia cara zia da poco defunta, ho trovato una scelta di lettere di Foscolo, non ricordo in quale edizione. Ho aperto il libro e mi sono immediatamente imbattuto in questa frase: «qui non hanno pubbliche biblioteche». Si trattava della lettera a Quirina Mocenni del 3 marzo 1818, quindi del periodo inglese di Foscolo. Ero allora reduce da studi, approfonditi, nei limiti delle mie capacità, sulle origini della biblioteca pubblica moderna, in particolare della public library britannica, istituto nato circa un trentennio dopo. Non posso dire che la dichiarazione contenuta nella lettera mi abbia particolarmente sorpreso, ma mi ha stimolato a considerare più da vicino, avvalendomi soprattutto dell’Epistolario foscoliano, ormai quasi interamente in rete, le pratiche di lettura che hanno coinvolto il letterato italiano. Mi sono così ben presto imbattuto nella figura di Lord Holland, il nobile inglese animatore di un cenacolo dove convenivano intellettuali, prevalentemente di tendenza whig e dove fu ben presto introdotto lo stesso Foscolo. In una lettera del l’ottobre 1816 al letterato italiano il barone inglese, fornendogli il recapito dell’editore Murray, chiariva come nella situazione britannica vi fossero figure ormai ben distinte che si occupavano della produzione libraria: oltre naturalmente all’autore, l’editor, vale a dire il responsabile del testo dal punto di vista filologico (accezione del termine condivisa da Foscolo), il publisher da cui invece dipendeva la programmazione e la diffusione dell’opera, il printer, vale a dire chi stampava il libro e il bookseller che si occupava delle vendite degli esemplari. In particolare, la figura del publisher stava assumendo in una società dove la lettura era in forte espansione, un ruolo autonomo fondamentale nella produzione e nella circolazione libraria.
Sulla scorta di questa evidenza ho cercato di individuare quanto la situazione italiana della prima metà dell’Ottocento presentasse tratti comparabili, per quanto concerneva la figura dell’editore distinta e autonoma rispetto sia al curatore (l’editor anglosassone) che all’autore e al tipografo.
Ho condotto la ricerca concentrando l’attenzione sui tre maggiori letterati italiani di questo periodo e utilizzando dal punto di vista metodologico le distinzioni proposte dall’IFLA, la federazione internazionale delle associazioni dei bibliotecari, circa gli elementi essenziali (entità) da individuare ai fini della registrazione bibliografica. Tra queste entità possiamo distinguere l’opera, l’espressione, la manifestazione e l’esemplare. Possiamo pensare al libro come a un’opera, vale a dire una creazione letteraria, che viene espressa in una determinata forma linguistica e prende corpo attraverso una manifestazione consistente nella sua produzione editoriale in diversi esemplari. L’aspetto distintivo dell’editoria moderna consiste principalmente nella distinzione tra opera e libro, nel senso che il processo di produzione del libro è affidato, prima ancora della sua realizzazione tipografica a una figura responsabile di una programmazione libraria, anche attraverso collane e di un’adeguata promozione e commercializzazione entro circuiti di carattere economico che richiedono mezzi di investimento e capacità finanziaria. Tale figura, che acquisterà tratti imprenditoriali sempre più evidenti, si porrà inevitabilmente in una situazione di alterità sempre più marcata rispetto all’autore e alla sua opera.
Quanto era presente, ai nostri tre maggiori letterati della prima metà dell’800, la distinzione tra Autore ed Editore?
La distinzione della figura dell’editore dalle altre che entrano in gioco nella produzione libraria, già presente in Alfieri in riferimento al tipografo, più che rappresentare una conquista dei letterati italiani del primo Ottocento, costituisce piuttosto un dato di fatto con cui essi hanno dovuto inevitabilmente confrontarsi: Foscolo in maniera dialettica, fino all’esilio inglese e al rapporto con l’editoria britannica, al servizio della quale si è trovato a dover lavorare per vivere, Leopardi in modo più consapevole che l’ha portato più vicino a comprendere il ruolo dell’editore in senso moderno, Manzoni con un atteggiamento contraddittorio che l’ha spinto a difendere con efficacia il diritto d’autore, senza però considerare l’opportunità per l’autore stesso di trasferire questo diritto a una figura terza dotata di capacità imprenditoriale.
Quali vicende segnarono l’esperienza editoriale di Ugo Foscolo?
L’esperienza di Foscolo in campo editoriale presenta tratti contraddittori, talvolta paradossali. Egli infatti è partito da una concezione che possiamo forse chiamare di tipo settecentesco dell’editore come responsabile di un testo e della forma della sua pubblicazione, simile quindi a quella dell’editor britannico e al significato che viene attribuito al termine in campo filologico. A questo punto di vista Foscolo ha aggiunto due altre convinzioni ad esso collegate: la prima che l’editore dovesse necessariamente appartenere alla categoria dei letterati, l’altra, proposta e sostenuta più che altro come principio ideologico, da lui stesso però contraddetto nella pratica, che la letteratura dovesse restare slegata da ogni problema di resa finanziaria.
La visione, a cui Foscolo non ha mai rinunciato, dell’editore letterato l’ha inevitabilmente condotto alla scontro con chi, sul versante tipografico, era invece sensibile alla prospettiva di una nuova realtà editoriale non più rivolta esclusivamente alla riproduzione del testo ma alla programmazione autonoma delle opere da pubblicare e delle collane entro le quali raccogliere le pubblicazioni, premettendo ai libri stampati note a firma dell’editore nelle quali non mancavano neppure valutazioni critiche del testo prodotto. È questo, ad esempio, il caso di Nicolò Bettoni, primo editore de I Sepolcri, che venne attaccato aspramente da Foscolo non tanto per l’edizione del carme, che del resto era piaciuta all’autore, quanto per la sua politica editoriale, in riferimento particolarmente ad Alfieri.
Nell’ultima parte della sua vita, trascorsa in Inghilterra, Foscolo dovrà fare i conti con una realtà profondamente diversa da quella italiana, dove l’editore aveva ormai chiaramente assunto la veste dell’imprenditore e dove alla possibilità di guadagni anche consistenti che il rapporto editoriale permetteva all’autore, bisognava rispondere con impegni precisi, relativi sia all’uso della lingua (ciò che comportava per Foscolo il necessario ricorso a traduttori) che alla effettiva consegna dei testi programmati.
Neppure in questa nuova e problematica situazione Foscolo ha rinunciato a pensare a sé stesso anche come editore, anzi ha elaborato diversi progetti relativi a raccolte di classici italiani come pure a un periodico internazionale.
Si trattava comunque di sogni chiaramente irrealizzabili, cosicché, alla vigilia della morte egli ha finito per dichiarare amaramente di sentirsi nella stessa situazione di un salariato a servizio di un imprenditore, vale a dire nella posizione opposta a quella per lui stesso vagheggiata.
Che rapporti intrattenne con il mondo editoriale Giacomo Leopardi?
L’atteggiamento di Leopardi rispetto al mondo editoriale non è privo di aspetti sorprendenti. Il poeta di Recanati, comunemente considerato il più distante dalla realtà sociale che lo circondava, circa la quale aveva espresso in una ben nota lettera a Vieusseux, il proprio sentimento di “assenza”, è in realtà, fra i tre letterati considerati, quello che meglio ha compreso il mutamento che si stava allora attuando nel mondo editoriale.
Non è sfuggito intanto al giovanissimo Leopardi che il centro del mutamento nella penisola italiana era da considerarsi Milano, dove effettivamente, a partire dall’età napoleonica, ma poi anche durante la Restaurazione si andava sviluppando una produzione libraria a carattere imprenditoriale, vale a dire con investimenti finanziari da parte dei tipografi-editori, capace di superare le modalità artigianali ormai obsolete. Non a caso Leopardi stabilirà con l’editore milanese Anton Fortunato Stella un rapporto di collaborazione di tipo continuativo (anche se ebbe breve durata) a cui corrispondeva una rimunerazione fissa. Proprio lo “spirito d’impresa” è il requisito primo che Leopardi richiede a un editore per una collaborazione stabile. Cosa egli intenda esattamente con questa espressione non è facile stabilire: certamente non si riferisce all’impresa definita dal diritto commerciale; piuttosto a un generale spirito di iniziativa del quale avverte la carenza nella cultura italiana. Ciò tuttavia non significa che in questa visione non sia compreso l’auspicio di strutture ben consolidate per l’attività editoriale, così come si può desumere dall’elogio per il tipografo-editore veneto Giuseppe Antonelli.
Al riconoscimento della funzione editoriale fa riscontro in Leopardi una chiara coscienza del ruolo attivo che l’autore deve poter esercitare anche durante la fase di produzione del libro. L’autore in -quanto letterato è legittimato anzitutto a svolgere, se richiesto, un ruolo di consulenza per l’editore, relativo alle edizioni da produrre rifacendosi eventualmente, nel caso dei classici antichi, ad edizioni precedenti. È il caso, ad esempio del progetto di pubblicazione in italiano delle opere di Cicerone, per il quale Stella chiederà nel 1825, invitandolo a Milano, la collaborazione dell’ancor giovane Leopardi, la quale si concretizzerà poi in un rapporto editoriale stabile sia pure non di lunga durata. Inoltre, il poeta riserverà a se stesso come autore il diritto di optare per una determinata collocazione editoriale (è il caso della prima edizione delle Operette morali) e di intervenire sulla stessa struttura del libro, ad esempio con suggerimenti relativi ai caratteri e alla messa in pagina del testo.
La questione relativa alla tutela del diritto d’autore coinvolse direttamente Alessandro Manzoni: come si difese lo scrittore milanese dai numerosi tentativi di contraffazione?
Circa il rapporto di Manzoni con il diritto d’autore la posizione da me espressa si discosta da quella che va per la maggiore.
In generale, si ritiene che il letterato milanese abbia esercitato un ruolo di primo piano nella definizione del diritto d’autore in senso moderno.
Ciò è senz’altro vero in riferimento a due temi, dei quali è per altro difficile negare l’importanza: il primo di essi è la difesa di quello che diventerà nella legislazione contemporanea il “diritto morale” d’autore, vale a dire la protezione della paternità dell’opera sul piano della sua forma espressiva, che non può venire mutata senza il consenso dell’autore e neppure riprodotta in precedenti edizioni quando l’autore abbia rinunciato ad esse proponendo un’edizione nuova come la sola da lui accettata,
Il secondo aspetto colto con lucidità da Manzoni consiste nell’importanza del lavoro editoriale per la realizzazione del libro nella forma voluta dall’autore. Manzoni ha scelto per l’edizione definitiva della sua opera narrativa la forma del romanzo storico illustrato anche come mezzo di tutela di fronte a possibili contraffazioni, puntando sulle vignette, a suo avviso non riproducibili. Ma anche quando questa illusione è svanita, egli ha continuato a lavorare in prospettiva multimediale, legando strettamente la parte testuale a quella iconica e intervenendo frequentemente su entrambe con un’attività che non può che essere definita di tipo editoriale.
Proprio qui tuttavia, Manzoni offre il fianco alla critica. Assumendo su di sé entrambi i ruoli, quello autorale e quello editoriale, egli sostanzialmente rigetta il principio cardine dell’editoria moderna: quello dell’alterità tra autore ed editore.
Sul piano giuridico e giudiziario Manzoni ha argomentato assai efficacemente nel processo contro Le Monnier sulla base di due considerazioni: l’inesistenza, anche dopo la convenzione austro-sarda del 1840 che proibiva le contraffazioni librarie, di un diritto di proprietà dell’autore sull’opera; l’improponibilità, a fortiori, di una sorta di dominio pubblico sull’opera stessa dopo la sua pubblicazione.
Se non che, questa impostazione, per altro non conforme alla convenzione del 1840 che parlava esplicitamente di proprietà, né alla sentenza definitiva della Cassazione, conduceva ineluttabilmente lo stesso Manzoni a prevedere per la tutela delle opere letterarie non la formulazione di un diritto soggettivo, così come avverrà poi di fatto nella storia contemporanea del diritto d’autore, ma il ricorso allo strumento ormai superato del privilegio, termine da lui stesso esplicitamente usato che non corrisponde tuttavia agli sviluppi moderni dell’istituto.
Paolo Traniello è nato a Milano nel 1938. È laureato in Giurisprudenza all’università di Milano e in Scienze storiche all’Università di Torino. Dal 1971 al 1977 ha diretto la Biblioteca pubblica e casa della cultura Fondazione A. Marazza in Borgomanero (NO). Successivamente, dopo una breve esperienza alla Regione Lombardia, ha ricevuto l’incarico di insegnamento di Biblioteconomia all’Università della Calabria. In seguito ha insegnato come docente associato all’università dell’Aquila e come ordinario a Roma 3. Si è occupato soprattutto di storia della biblioteca pubblica, con varie pubblicazioni in materia per l’editrice Il Mulino. Sui temi oggetto del suo ultimo libro ha pubblicato vari articoli per la rivista “Nuova informazione bibliografica” del Mulino.