
Questo profondo cambiamento, che ho definito “mutazione”, all’interno della disciplina genera la difficoltà di riconoscere una rotta da percorrere, all’esterno concorre a minare il riconoscimento di competenza, autorevolezza, legittimità dell’urbanistica in quanto pratica anche amministrativa.
Quali novità sono state introdotte nella modalità di composizione dello spazio e la forma dei piani?
La composizione dello spazio (nel vecchio mondo) parte ora dall’esistente, dalla trasformazione con vari gradi di profondità di quel che già esiste. Non si tratta più di dare forma ex-novo, di “colonizzare” lo spazio agricolo o naturale componendo i materiali urbani secondo forme create dal nulla. Questa condizione compositiva, sulla quale si sono costruite l’architettura e l’urbanistica moderne con la messa a punto di modelli, è diventata residuale, benché dominante in altre parti del mondo. Da quei modelli possiamo ancora attingere, ma parzialmente, attraverso un processo che mette al centro l’interpretazione dell’esistente, l’individuazione di logiche, regole più o meno esplicite, spesso fuse e confuse, da rilavorare: composizione come messa insieme di parti anche eterogenee che non possono essere piegate a un modello unico, a un’armonia astratta (in questo senso “città arcipelago”). La cultura del riciclo e dell’ibridazione è fondamentale nella composizione dello spazio contemporaneo.
Ovviamente la forma canonica dei piani si deforma, in particolare la raffigurazione della città futura non riesce a essere un’immagine composta e omnicomprensiva. Si può tentare di dare forma ad alcune parti, di selezionare alcuni interventi con buona probabilità di attuazione e che abbiano effetti sinergici, sui quali scommettere per un riordino (nel libro per spiegare questo uso il termine “figure”). La forma dei piani cambia anche perché deve confrontarsi con l’incertezza, quindi non può confidare su dimensionamenti e proiezioni che hanno bisogno di serie di dati coerenti; neppure può confidare sugli standard, ovvero su rapporti stabili tra dotazioni di servizi e attrezzature e popolazione, in quanto presuppongono andamenti e struttura demografica relativamente omogenei. Il piano deve fare congetture su quel che potrebbe capitare, anche mettendo in campo scenari diversi. Poi, ancora, deve lavorare sulla tipologia delle norme, includendo indirizzi, linee guida, raccomandazioni e consigli, tutte regole variamente “flessibili” in quanto prevedono interpretazioni e declinazioni nel tempo da parte di soggetti diversi.
In che modo sono mutati i postulati relativi all’interpretazione della città e alla prospettiva temporale di piani, programmi e progetti?
La crescita abnorme della città, quella che si suole indicare come diffusione o dispersione, ha rotto in maniera definitiva il chiaro limite tra città e campagna, la distinzione netta tra l’urbano e il rurale, ha eroso l’idea della compattezza e i principi (indimostrati) che la città e la campagna siano due opposti, che la città debba avere una forma compiuta (in realtà già l’idea di città giardino aveva incrinato questi postulati). Ora, semplicemente, non è più possibile coltivare quell’idea, muoversi secondo quei principi. La città si è sfrangiata, non cresce ma si trasforma all’interno e ha bisogno di spazio: per affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici riorganizzando il ciclo dell’acqua e ampliando le aree vegetate, per realizzare un sistema di produzione energetica da fonti rinnovabili, per bonificare e trattare i rifiuti, per includere un’agricoltura di prossimità. Non solo la porosità è data, ma è necessaria e in parte va recuperata.
Per quanto riguarda il tempo, un altro postulato è caduto: che il piano debba occuparsi del tempo lungo, del futuro. Nel libro ne tratto prendendo in considerazione l’antinomia tra strategia e tattica che percorre la riflessione disciplinare. Il presente, il contingente, il quotidiano, che il piano solitamente non considerava o sottaceva, oggi si impone e rischia di accantonare il futuro. Il tempo breve sembra vincente, ma il tempo medio-lungo non può essere esorcizzato ed è sul tempo medio-lungo che possono affrontarsi i problemi ambientali e sociali. Il piano, che su questa dimensione si è costruito, deve riuscire a intercettare il presente, a stabilire dei ponti tra quello che si può/deve fare oggi per rispondere a domande e necessità del presente, e la prospettiva. Tattica e strategia non sono nell’ordine gerarchico di tipo militare, ma forse non sono neppure in antitesi. Comunque considerarle entrambe diventa ineludibile. E il piano deve includere programmi e progetti, con le loro differenti temporalità, accettando di deformarsi.
Come si è sviluppata la prossimità ideologica alla sinistra dell’urbanistica?
La prossimità si è costruita alle origini dell’urbanistica moderna. L’idea più accreditata e più radicata nell’immaginario disciplinare è che l’urbanistica trovi la sua ragione nell’utopia e comunque nella critica e nella volontà riformatrice che, a partire dalla città, si riverbera sulla società e l’economia. Una idea che ha trovato una traduzione nel welfare materiale, in un progetto di riforma economica e sociale che ha caratterizzato il Novecento europeo e che ha visto come interpreti i partiti della sinistra. Il Neoliberismo e con esso l’onda lunga di una diversa visione del mondo ha investito anche l’urbanistica. Ma non è solo questo motivo di scollamento. La difficoltà dei partiti della sinistra di fare propria la questione ambientale (per sua natura trasversale) e di ridiscutere in positivo il sistema del welfare, una loro trasformazione interna che, perso il cemento ideologico, non ha saputo costruire un diverso cemento programmatico (condizione indispensabile per aggregare la domanda sociale), un rapporto oscillante e irrisolto con le competenze, sono tutti fattori che hanno rotto un sodalizio di fatto, che è durato alcuni decenni e ha trovato un terreno importante nell’amministrazione dell’urbanistica.
Quale futuro per l’urbanistica?
Nonostante sia la domanda che ha dato ragione al libro, non riesco a dare una risposta univoca. Da un lato, come ho cercato di argomentare, ritengo ci sia una necessità sostantiva dell’urbanistica perché le città sono investite da un’altra rivoluzione ed è l’urbanistica a occuparsi di forma e organizzazione urbana. Quindi un futuro di grande responsabilità e suggestione. Dall’altro, le difficoltà nelle quali si trova, non solo per la necessaria mutazione del proprio statuto, ma anche per condizioni generali di cui risente fortemente data la sua componente politica, alimentano una profonda preoccupazione. Osservando quel che avviene in Europa, sembra confermarsi una situazione molto varia, per cui a città e territori che grazie anche all’urbanistica stanno costruendo il loro futuro, si contrappongono città e territori che non se ne servono affatto e la ritengono inutile se non dannosa.
In definitiva, il futuro dell’urbanistica è una scommessa che si gioca su più piani, e che comunque vede nella formazione/educazione, nell’approfondimento conoscitivo dei fenomeni, nell’ascolto di chi abita e nell’osservazione di come si abita alcune fondamentali carte da giocare.