
C’è stato tuttavia un tempo, nella storia nota dell’uomo – un lungo tempo, che (forse) tramonta appena da qualche secolo – in cui entrambi i vocaboli, “teologia” e “politica”, avevano un senso immediatamente perspicuo anche se non sempre chiaramente definibile. Ci corre qui l’obbligo di mettere le mani avanti con una precisazione: qui non si fa passatismo, né si intende deprezzare il corso degli eventi storici – soltanto sorrido dell’ingenuo positivismo con cui talvolta si dice (e più spesso si sottintende) che una lettura disincantata dei fatti umani, qualcuno direbbe “cinica”, indicherebbe uno stadio ulteriore della civiltà umana, uno sviluppo, insomma un progresso. Ben duemila anni prima di Machiavelli, però, – l’uomo che si suole ergere a pietra miliare della secolarizzazione del pensiero politico occidentale – Ecateo di Mileto, che di questo stesso pensiero è una delle radici più antiche, suggerì ai suoi concittadini di saccheggiare il tesoro sacro del santuario dei Branchidi, in Lidia, per armare una flotta che garantisse loro un’egemonia marittima considerevole. I Milesî poi non gli diedero retta, ma già quattro secoli prima qualcuno si era fatto dare dei pani sacri per sostentarsi in una missione profana, e per giunta a mezzo di un’autodichiarazione mendace: quell’uomo era il santo re Davide (1Sam 21,2-7), e lo stesso Cristo non ebbe scrupolo di citare lo scottante episodio veterotestamentario per puntellare davanti ai suoi avversari dialettici le libertà che egli si prendeva in materia di disposizioni sabbatiche (Mt 12,1-4).
Una politica fatta di soli rapporti di forza e di puro perseguimento del proprio utile è lucidissimamente attestata nella cruda pagina di Tucidide (V,84) che testimonia del dialogo intercorso nel 416 a.C. tra l’ambasciata ateniese e i notabili di Melo; eppure Diodoro Siculo, che visse lungo il I sec. a.C., avrebbe improntato la sua Biblioteca (opera di per sé storica, e dunque politica, non “teologica”) a un “servire la provvidenza divina”; cose non troppo dissimili potrebbero dirsi per Plutarco, vissuto a cavallo tra il I e il II sec. d.C. E per tornare a tempi meno remoti e sicuramente moderni, correva l’anno 1966 quando Der Spiegel intervistò quel Martin Heidegger che dei Greci era stato grande cultore e che appena trent’anni prima aveva gettato sulla propria vita l’ombra della svastica nazista. «Solo un Dio, ormai, può aiutarci a trovare una via di scampo» – fu la celeberrima frase del filosofo che diede il titolo all’intervista stessa. E pure qui non si parlava di teologia: la domanda verteva sullo “Stato tecnico assoluto” e sul contributo che la filosofia poteva dare (o no) nello spezzare «questo intreccio e concatenamento di necessità» in cui attualmente tutti viviamo. Si parlava di politica, cioè della gestione della città/civiltà degli uomini.
Se ora proviamo a domandarci quale sia il trait-d’union (evidentemente a noi poco percettibile) fra teologia e politica, possiamo sinteticamente rispondere che esso è la Giustizia. Con la maiuscola: quella Dike che i Greci veneravano come divinità e che – a dispetto dall’evidente assonanza con la vittoria delle armi, Nike – i Romani avrebbero oculatamente tenuto distinta dalle leggi. Le leges devono protendersi allo Ius, ma storicamente possono tragicamente travisarlo o tradirlo, e di ciò si deve tener debito conto: già l’Antigone di Sofocle ribatteva alla sorella Ismene e al re Creonte come esistano leggi non scritte, leggi degli dèi, che debbono sempre prevalere su quelle, scritte, degli uomini (e già scriverle era stato un bel passo avanti…). A qualunque costo! Coetaneo e concittadino del tragediografo classico, Socrate applicò questi medesimi principî nella sua attività politica, quando si rifiutò di far prevalere nel suo contributo cittadino le logiche di parte… ma in un certo senso le disattese quando la ruota girò e toccò a lui subire una vendetta politica fatale: a quel punto Socrate giudicò comunque più giusto (perché beneplacito al suo daimon) obbedire a leggi ingiuste che sfregiare le istituzioni da cui esse promanavano eludendole. Un tratto tipico dell’evo moderno – un tratto di rottura con l’orizzonte descritto – è invece che questa distinzione tra legalità e giustizia è andata progressivamente erodendosi, e che dunque per noi, o almeno per buona parte degli uomini del nostro tempo, una cosa è giusta se e perché è legale, tout court. Di tale giuspositivismo spinto sono stati fenomeni mostruosi i totalitarismi del XX secolo, ma non sembra che abbiamo custodito con cura quella tremenda lezione, a giudicare dal sorrisetto irriverente con cui i legislatori contemporanei calpestano il diritto naturale…
La digressione – che spero non sia riuscita noiosa – serve a illustrare che la ricerca esposta nel mio saggio riguarda sì un periodo (anche piuttosto delimitato) di quell’evo che genericamente la storiografia accetta di chiamare “tardo-antico”, ma interrogandolo su questioni che esso ha in comune con tutto il mondo pre-moderno a noi noto. Poiché potrebbe ora sembrare che io mi stia contraddicendo, rispetto a quando enfatizzavo la presenza di visioni storiografiche disincantate e spregiudicate già in antico, torno a precisare il punto (il che mi permette anche di rispondere più da presso alla domanda posta): non è vero che, in assoluto, il “tasso di secolarizzazione” di una società o del pensiero sia un criterio di datazione certo e necessario, che cioè data un’opera “disincantata” quanto alla Giustizia (e quindi, indirettamente, al Divino) essa sia necessariamente seriore rispetto a un’opera “più tradizionale” a riguardo; è invece vero che il secolarismo è un fenomeno peculiarmente moderno che sacrifica su alcuni altari profani (soprattutto su quello della Tecnica, riprendendo Heidegger) quelle vittime già immolate anticamente agli “dèi falsi e bugiardi” (Dante riprende l’espressione da Agostino, come è noto) e che la Rivelazione giudaico-cristiana aveva proibito di offrire in olocausto – gli esseri umani.
Quale triangolazione compongono al riguardo le opere di Agostino, Orosio e Salviano?
A fronte di una letteratura antica e tardo-antica relativamente florida, mi sono concentrato su tre opere di altrettanti autori maggiori, e le ho selezionate in base al più o meno esplicito riferimento a un evento che nel declino dell’Impero Romano fu avvertito come un autentico cataclisma: il sacco di Roma del 410, ossia quello operato dai Goti di Alarico. Fu un evento drammatico. Girolamo era a Betlemme e ne avrebbe pianto per anni (difficile dire quanto non assumendo pose elegiache e tragiche…): «Se Roma è caduta, che cosa potrà resistere?!». Noi occidentali del XXI secolo, che non abbiamo vissuto in casa nostra «né una grande guerra né una grande depressione» (Chuck Palahniuk), possiamo forse immaginarci lo choc mondiale che vi fu solo pensando all’11 settembre 2001 e alle Twin Towers di New York, anche se a marcare una enorme distanza tra i due analogati è proprio anzitutto il “tasso di secolarizzazione”, che oscilla vistosamente da un lato all’altro della bilancia. Mentre infatti i Talebani recitarono la parte dei castigatori inviati da Dio contro la Babilonia moderna e contro il World Trade Center, simbolo eminente del capitalismo globale, i Goti di Alarico non avevano alcuna rivendicazione religiosa (il condottiero fece tracimare in rappresaglia militare la vendetta politica che gli era altrimenti preclusa per i mancati sbocchi governativi che pure anni prima gli erano stati ventilati salvo poi dissolversi in fumo), e Roma era invece simbolo di un impero ormai più che millenario, fondato da eroi discesi da divinità e recentemente convertitosi a una “religio nova” che proprio in quella città riconosceva un proprio mistico vertice ecclesiastico.
Soprattutto (ed ecco dove l’analogia si rompe), Alarico ordinò espressamente di avere riguardo per le basiliche cristiane e per quanti si fossero rifugiati al loro interno: era un trattamento di inusitata umanità sia in confronto alla prassi vigente sia in rapporto con quel che sarebbe accaduto dopo; non fu un unicum nella storia ma neppure questa divenne la regola, malgrado l’istituzione seriore del diritto d’asilo e delle “tregue di Dio”. Fu insomma una grandissima novità che, appaiata al drammatico evento del sacco dell’Urbe, s’impose come elemento nella riflessione: il primo a coglierlo fu proprio Agostino, che dalla sua solo apparentemente remota Ippona (in realtà era il vescovo di maggior rilievo nell’area cartaginese, e Cartagine non aveva mai perduto il ruolo di amica-rivale di Roma, neppure ecclesiasticamente) aveva accolto romani fuggiaschi e in dialogo con tutti gli intellettuali dell’Impero si apprestava a intavolare la sua opera più «grande ed ardua» (parole sue), ovvero il De civitate Dei. Roma ha resistito inviolata mille anni – si diceva retoricamente, ma non era neppure del tutto vero – ed è caduta quando i suoi capi hanno smesso di onorare i suoi numi tutelari per volgersi a divinità esotiche e forestiere (addirittura un carpentiere galileo con il pallino della predicazione itinerante!).
Eccoci che di nuovo ci sentiamo lontani dalla sensibilità antica, stavolta da quella religiosa: noi postmoderni, che fatichiamo a recitare una breve preghiera perché a un nostro famigliare passi la febbre, quasi abbiamo un moto di ripulsa davanti all’idea che una divinità debba curare gli interessi politici di una nazione. Ma le nazioni non erano in antico quelle entità asettiche che dalla Rivoluzione Francese intendiamo noi: esse coincidevano invece con il popolo stesso, e dunque chiaramente le divinità dovevano curare i loro interessi etnici, oltre che quelli famigliari (e dei clan, delle tribù…) – altrimenti a che servono? L’evo moderno s’è ingegnato per immaginarsi un mondo che possa esistere senza Dio, e per questo ha relegato la divinità nel mero àmbito demiurgico (e al limite, se proprio si vuole, al personal training del wellness): prima di questi interventi ideologici, invece, ogni divinità trovava e dava la sua prima e fondamentale “prova dell’esistenza” nella tutela dei suoi adoratori. La livida domanda posta dai pagani ai cristiani, dunque, è più che giustificata: a che serve questo Dio se non ci protegge dai nemici?
Agostino non la eluse affatto, ma si permise di precisare (il De civitate Dei consta di ventidue libri!) che in realtà Roma era stata già violata altre volte, e che dunque il culto pagano non era risultato di chissà quale utilità; ancora egli precisò che Dio lasciava patire le persone solo apparentemente virtuose come pena delle loro colpe, e quelle veramente virtuose come mistica riproposizione del sacrificio salvifico di Cristo. Soprattutto – ed ecco la novità assoluta –, Agostino illustrò con cura che nella città di Dio nessuno è straniero, ovvero nessuno lo è più di quanto chiunque lo sia. Il soldato cristiano, spiega Agostino, milita a favore dei suoi stessi nemici, per mantenere o ripristinare la pace e per annunciare – anzitutto con una vita meravigliosamente irreprensibile – la possibilità universale di una vita bella e giusta, perché giustificata.
Quella di Agostino è una posizione acutissima e intelligentissima, difatti fu per tutto il medioevo la più citata e la meno compresa: essa fu letta e recepita soprattutto tramite le lenti che il giovane Orosio fornì attraverso le sue Historiæ adversus paganos, laddove già il titolo dice il succo della distanza tra i due autori. Il giovane prete ispanico era infatti “nazionalista” quanto Agostino (ognuno dei due era fierissimo della propria patria) ma, mentre questo aveva ben chiaro in mente che l’Impero aveva per sua natura fini assolutamente non coincidenti con quelli della Chiesa, quello s’illudeva invece che proprio il matrimonio tra i due fosse segnale del fatto che la Storia stava finalmente prendendo il verso giusto, e che una volta aggiustata la rotta l’Impero Universale, praticamente fuso (anche se teoricamente non confuso) con la Chiesa, avrebbe veleggiato sereno verso la fine dei tempi e il ritorno del Messia. Trama suggestiva per un fantasy, ma proprio le invasioni barbariche (per giunta da parte di cristiani!) ponevano una serie di granitiche obiezioni alla narrazione di Orosio. Essa però si affermò, nella pratica, e quando qualche intellettuale si ricordò che la lezione di Agostino era un’altra il calendario era già arrivato almeno al IX secolo: anche attraverso le più luminose pagine della Rinascenza Carolingia i vescovi si stavano ritrovando fin troppo serrati nell’abbraccio di quella liaison dangereuse; allo scoppiare della “lotta per le investiture” la Chiesa si sarebbe trovata a dover lottare contro l’Impero per la propria libertà. La visione di Orosio si era mostrata più fantasiosa che percorribile, e meno fruttuosa che appetibile.
Il terzo autore, Salviano di Marsiglia, sembra disinteressarsi dei massimi sistemi (e si farebbe male a crederlo) per rivolgersi di preferenza alla vita concreta delle persone: da lui abbiamo uno spaccato privilegiato sulla vita concreta degli “europei” del V secolo durante le invasioni barbariche. Scopriamo che si cercava di continuare a vivere al di sopra delle proprie possibilità, anche se i “tempi delle vacche grasse” erano passati da un pezzo: così, mentre le popolazioni straniere facevano le loro (non sempre innocue) incursioni, le municipalità cittadine si premuravano anzitutto di garantire alla popolazione un’immutata stabilità dello/nello stile di vita. Ciò a cominciare dai circenses e dagli spettacoli teatrali (dove non andava più in scena Sofocle, e se invece si trovavano le battute scurrili di Plauto il livello era ancora alto!), ma per proseguire nella vita domestica: ingiustizie sociali, immoralità sessuale dilagante (l’Aquitania viene detta “un bordello a cielo aperto”, e sembra che Cartagine fosse invece la Mykonos dell’epoca…), soprusi e violenze d’ogni genere… e tutto questo – attenzione – Salviano lo denuncia a proposito dei cristiani: i pagani sono quasi scomparsi dai radar, benché naturalmente ancora se ne trovassero; nell’arco di pochi decenni, come si vede, nessuno sembra più porre la domanda con cui Agostino veniva incalzato, e neppure sembrava più congruo rispondere in attacco contro i pagani come faceva Orosio. Dio è il Dio giusto e vero, oltre che l’unico – su questi temi splendono alcune tra le pagine teologicamente più acute di Salviano – e proprio ciò significa che egli stesso ha sostenuto in passato l’Impero Romano, laddove i suoi uomini coltivavano le virtù, e lo lascia castigare ora che i suoi cittadini non le coltivano anche se si sono fatti cristiani. Anzi – rincara la dose Salviano –, li dovrebbe castigare molto più severamente in quanto gli antichi non erano stati depositari della Rivelazione, eppure con il lume della sola recta ratio erano riusciti a vivere meglio di quanto dimostrino di fare i cristiani coevi.
Come si articolò la riflessione dei tre scriptores ecclesiastici sulle res novae che scuotevano l’impero?
Se sui contenuti si fa relativamente presto, quella sull’articolazione è una domanda difficilmente solubile: di per sé mi sarei potuto limitare a trattare Agostino e Orosio, perché solo le loro opere sono in una mutua dipendenza documentata e certificata dalle fonti antiche, e su queste ha senso parlare di articolazione addirittura in senso intrinseco. Agostino accolse il giovane Orosio, fuggiasco dall’Hispania, proprio mentre ultimava i primi libri del suo De civitate Dei, e ricevendone vivissimi ed entusiasti complimenti dal prete (sinceramente ammirato ma pure “politicamente interessato” a impressionare bene il già prestigiosissimo presule) mise le mani avanti precisando che la sua opera non intendeva essere una vera e propria opera storica; probabilmente accennando all’età che avanzava e al carico pastorale che non accennava affatto a scemare, Agostino avrebbe incoraggiato l’entusiasmo del giovane invitandolo a comporre lui una grande storia universale che rendesse ragione della grandezza del cristianesimo. Ben presto – forse già osservando i frutti di un’ambasceria in cui aveva impiegato il giovane – Agostino si rese conto di aver forse sovrastimato le qualità intellettive e spirituali di Orosio, e probabilmente per riguardo ai trascorsi cordiali e ai servigi resi il vescovo non parlò mai più del prete (il quale da parte sua dovette morire pochi anni dopo).
La prospettiva di Orosio aveva lo slancio ideale e l’ardore sentimentale del giovane, malauguratamente poco mitigati dall’esperienza di vita e dall’approfondimento intellettuale: questioni grandissime (come il senso della storia, il numero dei regni universali e cose simili…) vengono affrontate con piglio energico ma con impronta tanto ideologica che non di rado i fatti risultano vistosamente coartati in quegli schemi preconcetti. Lo stesso rapporto con i barbari tradisce lo scarto tra queste impari disposizioni di partenza: da una parte la tendenza armonizzatrice e l’ispirazione religiosa suggeriscono pagine di conciliazione culturale; dall’altra il vissuto non elaborato e l’ideologia imperiale prevalgono quando ai barbari egli “impone” (sempre col calamaio, si capisce) di integrarsi o di rassegnarsi allo sterminio.
Solo che lo sterminio di Goti e Vandali non era affatto dietro l’angolo (e almeno i primi erano decisamente più propensi dei secondi all’integrazione): «Il popolo più vile – avrebbe commentato un illustre critico di Salviano – ha battuto il più vizioso», e quella dell’anziano monaco germanico sarebbe risultata una lettura sia teologicamente ispirata sia storicamente sensata. Nei marosi della storia dei popoli, infatti, i popoli vengono integrati (o annientati e sostituiti) da altri popoli quando la loro carica vitale si fiacca o si esaurisce (il che è uguale a dire “regredisce”): perché ciò avvenga resta una delle domande più pregnanti e cariche di mistero che gli storici possano farsi, ed è questa la ragione per cui il De gubernatione Dei mi è sembrato, considerando la datazione, un testo congruo agli snodi della ricerca confluita nel mio saggio. Salviano propone un’impostazione che diremmo “moralistica”, sì, ma si sbaglierebbe a ritenerla meccanicistica: stando a lui (e solo a lui, su questo), i Vandali avrebbero addirittura riscattato e rieducato le prostitute cartaginesi! La sua lezione è dunque “i romani/cristiani vengono sconfitti dai barbari/eretici perché quelli sono corrotti e vili, questi onesti e forti”, sì, ma essa non corrisponde appieno a ciò che potremmo dire noi, ad esempio “gli italiani/europei vengono stracciati dai mercati asiatici perché noi ci bruciamo le pensioni dei nonni alle slot mentre i cingalesi stanno h24 al chiodo in bottega”. Ciò non solo per le macroscopiche (e arbitrarie, quindi indebite) generalizzazioni, bensì perché – rispetto a noi – Salviano pone il tema del motivo per cui ciò accade (l’oblio di Dio), il quale è insieme anche il farmaco che in ogni momento può intervenire a contrastare il declino. Una ricetta teologica e politica che, su tutt’altro piano, ben si armonizza con la lezione di Agostino e mostra che gli intemperanti travisamenti di quella stessa lezione (Orosio) sono individuabili e correggibili già al livello della vita activa (da Hannah Arendt ricalcata proprio sul bios politikòs greco).
Quale parallelismo è possibile tracciare tra il contesto presente delle migrazioni e quello tardo-antico?
Quando arriviamo a questo punto mi viene sempre da fermarmi, perché il pericolo di fare della storia una premessa all’etica è sempre grande. È sempre risuonata molto ambigua, quella frase – «historia […] magistra vitæ» – che il De oratore di Cicerone ha consegnato a tutti i secoli, soprattutto perché l’esperienza comune ci mostra che l’umanità sembra imparare dai propri errori collettivi anche meno di quanto (poco) i singoli uomini imparino dagli errori individuali. Poi i parallelismi corrono sempre il rischio di dire la somiglianza tra due circostanze e al contempo (quasi per sfregio) l’assoluta incomunicabilità tra le stesse.
Prima di provare a rispondere possiamo chiederci donde nasca l’ambiguità dell’assunto tacitamente accolto, che cioè la storia possa insegnarci qualcosa su come vivere. Mi affiora allo spirito il celebre passo della Poetica di Aristotele in cui si afferma che «la poesia è impresa di maggiore fondamento teorico e più importante della storia, perché la poesia riferisce maggiormente le cose universali, la storia maggiormente quelle particolari» (Poet. 51b). E ricordiamo come non a caso nella culla del “bios politikos” più progredito nella “città degli uomini” – ad Atene – si curasse la vita buona delle persone non iscrivendole ai corsi dei filosofi (di cui pure la polis abbondava), bensì portandola a teatro a vedere la Tragedia (c’era pure un fondo pubblico perché nessuno potesse addurre il censo a scusa per non partecipare). Lo stesso Heidegger, in quella famosa intervista a cui già mi rifacevo sopra, spiegava il suo riferimento a “il Dio” così: «Vedo, come unica possibilità di via di scampo, questo: preparare, nel pensiero e nella poesia, una disponibilità e una prontezza per l’apparizione del Dio oppure per l’assenza, il dis-stanziarsi, del Dio nel tramonto; in modo che il nostro destino non sia quello, per dirla brutalmente, di “crepare”, ma che sia, se dobbiamo tramontare, quello di tramontare al cospetto del Dio assente».
La mia ricerca è nata dallo spunto involontario che qualche alto ecclesiastico, all’inizio dell’anno scorso, mi ha dato dicendo che “Dio non vuole le migrazioni dei popoli”: «Bislacco! – mi sono detto –: e sì che quasi tutta la Bibbia racconta di viaggi di singoli e migrazioni di popoli!». Al di là della facile battuta, e bando a strumentalizzazioni partitiche che sarebbero bieche, mi sono voluto immergere nella piscina dei Padri, dove spesso si rinvengono istituzioni fondative proposte davanti a problematiche ricorsive: l’idea di un solo popolo, immenso e che includa tutti gli altri popoli, senza violentarli nella loro identità ma anzi esaltandone le singole peculiarità, mi sembra sublime e decisiva; sfortunatamente, essa è impraticabile senza la coltivazione diuturna del memoriale di una vera ed effettiva redenzione, ossia senza la Chiesa e senza il culto cristiano. A questo punto (se mai qualcuno stesse ancora seguendo il discorso), sarebbe forte la tentazione della “deriva orosiana”, cioè dell’immaginarci la “statalizzazione della Chiesa” e la “clericalizzazione della nazione” – due prospettive complementari nell’aberrazione e che certamente non sarebbero preferibili neppure alla guerra totale, perché sarebbero la perversione della più alta forma di Poesia possibile, per citare ancora Heidegger.
Il filosofo di Freiburg, anzi, lasciava cadere l’ipotesi che un Dio venga davvero a salvarci e sembrava rassegnarsi, un po’ disperatamente, alla prospettiva del “tramonto davanti al Dio assente”: la prendo per il verso costruttivo e dico che in questa dichiarazione leggo l’invito a non tentare di fare quel che non possiamo fare, cioè la salvezza del Dio. E converso, però, dobbiamo porre attenzione a un’altra cosa: l’utopica e titanica pretesa di “creare l’uomo nuovo” a forza di corsi, master, campi (formativi e/o rieducativi), bonus e programmi sbocca facilmente nella versione secolarizzata della “salvezza del Dio”. Non si possono integrare gli uomini – i migranti oggi, i “barbari” ieri – inculcando in loro l’idea della fratellanza universale: ogni volta che se n’è tentata la via è stato un bagno di sangue, per di più inutile. La salvezza degli uomini o c’è, se e perché è stata operata da un Dio, oppure pretendere di darsela è velleitario e di solito preludio a grandi disastri (dai quali non impariamo granché).
Prepararsi sì, mi sembra un’indicazione ragionevole e sapiente: “nel pensiero e nella poesia”, che vuol dire (anche) in una rilettura sapienziale della storia propria e altrui, in un logos carico di umanità che resti desideroso dell’irruzione di un Evangelo. Aristotele non sarebbe stato d’accordo, ché il suo dio è così intento a pensare sé stesso pensante da non sapere neppure di aver generato il mondo (figuriamoci salvarlo!)… però una buona teologia, anche una teologia della storia, è cosa estremamente poetica: «Il cristianesimo – scrisse acutamente Marc Bloch – è religione di storici».
Giovanni Marcotullio è nato a Pescara nel 1984. Tra la città natale, Milano e Roma, ha compiuto studi classici laureandosi in teologia e in filosofia, e specializzandosi nell’incidenza della dogmatica patristica nel pensiero tardo-antico. A questi è dedicata la co-curatela de Il cuore indurito del faraone per i tipi di Città Nuova, nonché la breve antologia Misericordia, fede, giudizio per i tipi di Tau. La sua attività di traduttore, che pure esercita su Aleteia, ha portato alle versioni italiane di Una gioventù sessualmente liberata (o quasi) di Thérèse Hargot (Sonzogno) e di Il mistero della donna di Jo Croissant (Berica). Ha un blog (www.breviarium.eu) e mensilmente cura la rubrica Padri Nostri su Radio Maria.