
di Angelo Stella, Paolo Mazzarello, Mariella Goffredo e Emanuela Sartorelli
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«Alessandro Manzoni era tormentato da numerose ansie. Taluni ricordano che, quando trovava pozze d’acqua davanti a casa, rientrava infastidito, quasi fosse impossibilitato a cominciare la passeggiata. Altri fanno notare quanto soffrisse di agorafobia, disturbo ansioso che si manifesta quando ci si trova in situazioni o luoghi gremiti di folla da cui non si può scappare facilmente o in cui si potrebbe non essere aiutati. Ne I promessi sposi l’assalto alla casa del vicario di provvisione, che evoca l’offensiva che spinse i milanesi a scovare nella sua dimora il ministro delle finanze napoleonico Giuseppe Prina e a linciarlo, descrive una situazione ansiosa vissuta da Manzoni. Che conobbe bene, da testimone, quest’ultima vicenda risalente all’aprile 1814. […]
Due professori, Angelo Stella e Paolo Mazzarello, rispettivamente presidente del Centro Nazionale di Studi Manzoniani e docente di Storia della medicina all’Università di Pavia, hanno contribuito a ricostruire quei problemi di salute che disturbarono direttamente o indirettamente il grande scrittore.
Pur limitandoci a introdurre un argomento vasto più di quanto si creda, conviene partire direttamente da alcune osservazioni di Mazzarello. Ricordano senza infingimenti l’infanzia e l’ambiente in cui mosse i primi passi Alessandro Manzoni: «Fu un bambino non desiderato, nato per caso nel 1785 e subito lasciato alla sua solitudine. Nessuno lo attendeva». La madre, Giulia Beccaria, figlia del grande giurista e pensatore Cesare, «lo considerava un fardello, una minaccia per la vita salottiera cui le piaceva abbandonarsi». Il padre legittimo, il conte Pietro Manzoni, di ventisei anni più vecchio della moglie, non aveva e non sentì particolare affezione per quel figlio, «sul quale pendevano prove tangibili della dubbia paternità». Del resto, il probabile padre naturale è considerato il libertino Giovanni Verri — fratello minore di Pietro e Alessandro — che conduceva vita mondana e avventurosa. Intrecciò prima e dopo l’incontro con Giulia molteplici relazioni, e non era certamente pronto a sobbarcarsi l’onere di un riconoscimento imbarazzante. […]
Natalia Ginzburg, ne La famiglia Manzoni, definì l’autore de I promessi sposi «un uomo dal carattere strano, tortuoso e complesso». […] Tra le molte situazioni, è bene ricordare che nell’ottobre 1791, quando Alessandro ha poco più di sei anni («un’età in cui l’indifferenza e l’assenza della madre sono destinate a lasciare segni perenni»), si decide di affidarlo ai padri somaschi del collegio San Bartolomeo di Merate. Il piccolo si ritrova solo, «privo dell’affidabile tranquillità dei legami familiari, in un ambiente chiuso e tetro». Un’uscita di sicurezza la scopre dentro di sé, alimentando o cercando una predisposizione precoce, che diventa vocazione: la poesia. Quando gli era possibile, il piccolo Alessandro si chiudeva in una stanza e componeva versi.
Nel febbraio 1792 Giulia e Pietro, i genitori, si separano: la madre andrà a vivere a Parigi con il ricco possidente milanese, il conte Carlo Imbonati. Alessandro ha sette anni e intorno a sé ha soltanto un deserto di affetti. E dovette essere traumatico anche il 1796, anno dell’arrivo dei francesi in Lombardia: il ragazzo è trasferito al collegio Sant’Antonio di Lugano, tenuto anch’esso dai padri somaschi. Due anni dopo, ancora un cambio: è un collegio religioso dei barnabiti.
Non occorrono soverchie congetture psicologiche per spiegare come il giovane Manzoni, uscito dal convitto nel 1801, fosse anticlericale e giacobino. Per quattro anni vivrà con l’anziano padre legale Pietro e frequenterà salotti, luoghi ove si gioca d’azzardo; è questo il momento delle prime infatuazioni. Il matrimonio con la sedicenne calvinista ginevrina Enrichetta Blondel cambierà la sua vita, anche per quanto accade il 2 aprile 1810, quando la coppia si trova in una Parigi festosa per le nozze di Napoleone con Maria Luisa d’Austria. I Manzoni, finiti nella folla di Place de la Concorde, si perdono dopo alcune esplosioni di petardi e Alessandro si rifugia nella chiesa di San Rocco, dove prega per chiedere la grazia di ritrovare la moglie sana e salva. Ed Enrichetta appare poco dopo. Stando alla testimonianza dell’abate Giacomo Zanella, che fu amico di Manzoni, proprio allora, dopo quella preghiera carica di affanni, «si levò da terra credente». Comunque inizia la sua vita di fede, la medesima che diventerà sostegno alle fragilità e a quanto lo intimoriva.
Ma qui la malattia comincia a essere presente nella vita di Alessandro. Nel viaggio di ritorno da Parigi, Enrichetta si ammala e necessita, secondo le consuetudini di allora, di essere sottoposta a salassi: uno a Lione, l’altro a Torino, e infine un terzo appena arrivata a Brusuglio.
Inoltre Manzoni soffre di attacchi di panico, ha difficoltà a esprimersi verbalmente, insomma l’emozione lo fa balbettare; malesseri e malanni gli riducono notevolmente la libertà, perseguitandolo. La Blondel muore quarantaduenne nel 1833; la seconda moglie, Teresa Borri, se ne va a sessantadue anni, nel 1861. Delle sette figlie che ebbe dal primo matrimonio, soltanto una gli sopravvive, Vittoria, che mancò nel 1892 a settant’anni, mentre le altre scomparvero tutte prima dei trenta. E anche il destino dei tre figli necessita di qualche riflessione: il primo, Pietro Luigi, morì il 28 aprile 1873, precedendo il padre di meno di un mese; il secondo, Enrico, gli sopravvisse fino al 1881, ma mancò sessantaduenne; il terzo, Filippo, scomparve nel 1868, ad appena quarantadue anni.
Quale fu la causa principale che determinò questa sorte non clemente toccata ai Manzoni? Secondo Mazzarello […] la risposta ha un nome preciso: tubercolosi.»