
Se guardata con mente sgombra l’antichità ha visto un grado di sviluppo tecnologico notevolissimo, come dimostra la lunga e in certi casi lunghissima durata di macchine che offrivano soluzioni che sono rimaste in uso fino al XVIII secolo, soppiantate solo dalle novità introdotte a seguito della rivoluzione industriale. Agli occhi di un viaggiatore che avesse attraversato il Mediterraneo in lungo e in largo, già dal III a.C. il paesaggio doveva essere caratterizzato dalla presenza di ruote idrauliche, torchi, presse e macine per i vini e le uve, soluzioni meccaniche per trascinare e sollevare le pietre usate in edilizia; torri da assedio mobili, catapulte e balliste dovevano fare mostra di sé negli arsenali del tempo, smontate e pronte per essere ricomposte secondo i principi della costruzione tramite assemblaggio di parti opportunamente misurate. Quel mondo, nel quale si era progressivamente imparato a sfruttare la forza dell’acqua come fonte di energia, era attraversato da imbarcazioni di ogni sorta che non trasportavano solo materiali, merci e beni di consumo, ma trasferivano anche libri, idee, conoscenze e mezzi per metterle in pratica.
Una risposta esaustiva a questa domanda richiederebbe una diversificazione per epoca e per aree geografiche. In linea generale, dal VI secolo a.C. fino alla caduta di Roma nel 476 d.C. noi vediamo una lenta, continua e inarrestabile crescita della presenza di strumenti, apparati e macchine. Al punto che, nel tardo antico, si affaccia in modo quanto mai chiara la convinzione che per salvare l’impero minacciato dai barbari si debba fare ricorso a un ingente apparato di macchine belliche, un ambito nel quale i Romani sanno di avere sempre primeggiato rispetto agli altri popoli.
Tra il VI e il III secolo a.C. tutto il repertorio fondamentale di macchine per il cantiere, per l’agricoltura, per la guerra e le operazioni di carico e scarico dalle navi nei porti è stato introdotto. A questo punto succede, di conseguenza, un fatto molto interessante e di per sé indicativo del livello di tecnologia raggiunto almeno in alcune aree del Mediterraneo: individuato il repertorio di tecnologie di base si comincia a lavorare alle macchine per lo spettacolo, ovvero a quella parte della tecnologia meccanica che si suole ritenere “non necessaria”. Nel teatro stabile si perfezionano gli apparati e i dispositivi che governano i cambiamenti di scena e gli effetti speciali. Parimenti, nei teatrini di automi, rappresentazioni che appassionano notevolmente il pubblico, si sviluppa una meccanica di grande precisione che governa il movimento dei personaggi sulla scena. Inoltre, dal III secolo a.C. irrompe con tutta la sua novità la pneumatica, una disciplina scaturita dalle discussioni dei filosofi sulla natura elastica dell’aria e volta a studiare le conseguenze della contiguità degli elementi, ovvero le reazioni che avvengono quando aria, acqua e vapore siano costretti a scorrere dentro cavità, cannelli e tubi opportunamente creati. Un mondo che inventa principalmente per divertimento dispositivi sofisticati come quelli della pneumatica e alla base del funzionamento degli automi non può dirsi arretrato ma, al contrario, molto concentrato sull’innovazione.
Per quali ragioni resiste la tesi della “stagnazione tecnologica” del mondo antico?
La tesi della stagnazione tecnologica è stata e continua a essere una delle più tenaci e resistenti visioni sul mondo antico. Figlia della Rivoluzione Industriale, scaturisce dal clima di assoluta fiducia nel cammino dell’uomo verso il progresso. Liberatosi finalmente da ogni falsa credenza, superstizione, errata conoscenza, l’uomo concepisce una realtà fondata sulla convinzione che civiltà sia sinonimo di progresso e progresso di invenzioni.
Da questa certezza gli studiosi hanno visto nel mondo antico un’epoca della durata di circa duemila anni priva di significato all’interno del trionfale cammino compiuto dall’uomo verso il progresso. La forza di questa tesi discende anche dal fatto che essa è il risultato di osservazioni portate avanti da diverse categorie di studiosi. Si tratta di un caso raro, che ha visto antichisti, storici della scienza, della filosofia e dei sistemi economici concordare sulla presunta incapacità di mettere in relazione teoria e pratica, di dare luogo alla sperimentazione, di investire in mezzi meccanici per accelerare i tempi della produzione. Anche gli archeologi, dal canto loro, privilegiando la ricerca del bello sono andati riempiendo i musei di opere di elevato valore estetico mentre attrezzi da lavoro, strumenti e parti di macchine finivano nei depositi; se gli storici dei sistemi economici erano propensi ad ammettere l’esistenza di qualche macchina, essi negavano tuttavia che questi mezzi avessero avuto una qualche ricaduta sui modi di produzione, rimasti allo stadio tipico della civiltà pre industriale. I filosofi dal canto loro individuavano nella mancanza di una mentalità adeguata e nella incapacità di proporre una relazione tra scienza e tecnica i fattori che avevano caratterizzato l’antichità tutta come epoca priva di macchine. Caso forse unico, la supposta mancanza di macchine nel mondo antico ha generato una storiografia alla rovescia, una storia “del non”, tutta volta a sottolineare ciò che non sarebbe accaduto (la presenza delle macchine) e le ragioni per cui ciò sarebbe avvenuto. Nelle pagine di moltissimi manuali di storia della scienza l’antichità si risolve in poche pagine oppure si sovrappone alla storia della filosofia, esaltando il ruolo dei pensatori che per primi indagarono la natura in modo razionale. Per rovesciare questa visione sono occorsi decenni di studi e l’affermazione di un metodo di indagine sull’antichità che molto deve alla valutazione positiva della cultura materiale. Con una maggiore attenzione nei confronti di ritrovamenti tradizionalmente trascurati come attrezzi da lavoro e strumenti, ragionando sulle tecniche e sui mezzi di produzione si è scoperta un’antichità diversa, capace di raccontare storie non necessariamente di eroi, imperatori, re e regine. La convinzione che questa storia non possa essere scritta basandosi esclusivamente sulle fonti letterarie, che pure non sono poche, ha portato a prestare notevole attenzione ai ritrovamenti dell’archeologia. Il caso più eclatante è stato quello dei mulini. Sebbene questa macchina fondamentale sia descritta precisamente da Vitruvio in un passo del De architectura, gli storici hanno spesso affermato che doveva trattarsi di un caso isolato, sostanzialmente estraneo al mondo antico; la vera diffusione del mulino ad acqua sarebbe pertanto avvenuta nel Medioevo, epoca in cui i documenti scritti menzionano numerose strutture di questo tipo. Tuttavia, dagli anni Settanta del Novecento in poi le sistematiche campagne di scavo archeologico condotte nelle regioni sottoposte al dominio di Roma hanno evidenziato la presenza di resti precisamente riferibili ai mulini lungo numerosi corsi d’acqua, dimostrando così la validità del passo vitruviano e la diffusa conoscenza di questa rivoluzionaria macchina anche nell’antichità.
In quali ambiti venivano utilizzate le macchine?
Il repertorio di macchine ideato nel mondo antico attraversa tutti gli ambiti dell’esistenza, dal lavoro nei campi alla trasformazione degli alimenti, dall’edilizia all’arte della guerra, dall’ingegneria idraulica alla navigazione, dal mondo del teatro e dei teatrini di automi al calcolo delle miglia percorse durante un viaggio. Anche la più nobile delle scienze, l’astronomia, dovette cedere alle stupefacenti novità della meccanica introducendo strumenti e macchine capaci di agevolare il dibattito sulla configurazione e funzionamento del cosmo. Il ritrovamento delle ruote dentate e di numerosi ingranaggi che compongono il bellissimo meccanismo di Antikhytera, lo straordinario planetario meccanico della metà del II secolo a.C. oggi esposto al Museo Archeologico Nazionale di Atene, ci ricorda che l’archeologia, con i suoi ritrovamenti improvvisi, in qualunque momento può portare alla luce oggetti che impongono una profonda revisione di ipotesi date per acquisite.
Come detto, macchine e dispositivi erano impiegati anche nella pneumatica, la più innovativa delle scienze che componevano la conoscenza della meccanica nel mondo antico. Il grande successo di questa disciplina ci ricorda inoltre l’esistenza di dispositivi che, strettamente collegati al tema del banchetto e del simposio, venivano presentati in tavola per sorprendere i propri ospiti. L’insistenza con cui vengono descritte fontane a sorpresa e uccellini di metallo che cinguettano sui rami degli alberi sottolineano l’esistenza di una tecnologia per meravigliare e divertire, volta a replicare l’atmosfera serena dei giardini, luogo di riposo per eccellenza. Non a caso, le meraviglie meccaniche della pneumatica greca torneranno in vigore nel medioevo islamico come conoscenza essenziale per creare l’atmosfera magica dei giardini delle “mille e una notte”.
Quali erano le macchine più avanzate conosciute nell’antichità?
Il settore nel quale viene profuso un evidente sforzo per raggiungere risultati sempre più innovativi è certamente quello della guerra. La catapulta, che gli antichi ritengono comparsa a Siracusa al principio del IV secolo a.C., viene sottoposta a serrate osservazioni circa il suo funzionamento e potenziamento. Da questo punto di vista è di fondamentale importanza l’opera di Filone di Bisanzio (metà del III secolo a.C. circa), che dedica approfondite osservazioni al problema dell’aumento di scala della macchina in base al variare delle dimensioni e del peso del proiettile da scagliare. Nelle sue pagine riecheggiano le fondamentali esperienze, da lui stesso menzionate, compiute negli arsenali di Rodi prima e di Alessandria d’Egitto poi. Vi si coglie l’entusiasmo dell’esperto che, ritenendo di avere individuato empiricamente la formula che governa la scala delle macchine in base al peso del proiettile da scagliare, decide di registrare queste conoscenze in forma scritta perché ne rimanga il ricordo. Oggetto di continui perfezionamenti, la catapulta rivoluziona l’arte della guerra al punto di rendere necessaria la comparsa della figura dello stratega che pianifica l’assedio in tutte le sue tappe. Allo stesso modo, agli architetti è ora richiesto di progettare fortezze capaci di resistere ai violenti colpi scagliati da queste macchine. Non a caso, anche la costruzione di fortificazioni diventa materia di trattazione scritta da parte degli esperti di poliorcetica. Sebbene le enormi torri mobili da assedio vengano ancora impiegate, sono le catapulte e le balliste a destare l’attenzione dei sovrani dei regni scaturiti dalle ceneri dell’impero di Alessandro Magno, i quali cominciano a stabilire una proficua relazione con ingegneri esperti nell’arte della guerra. Si pensi a Ierone II e Archimede a Siracusa, ai Tolomei e agli studiosi che frequentarono Alessandria d’Egitto nel III secolo a.C., a Attalo I di Pergamo e a un certo Biton, il loro meccanico di fiducia e autore di un trattato su questo argomento. In questa direzione vanno anche la carriera di esperto militare di Vitruvio, che dedica il suo lavoro a Ottaviano Augusto, e di Apollodoro di Damasco che lega buona parte delle sue fortune a Traiano.
Un altro ambito soggetto a continui perfezionamenti fu quello delle macchine idrauliche per sollevare l’acqua. Le testimonianze in nostro possesso indicano nella valle del Nilo, sin dal III secolo a.C., la terra in cui ruote a cassette e a catena, norie e viti idrauliche fecero la loro comparsa. È da queste premesse che scaturisce l’idea del mulino, la rivoluzionaria macchina che permetterà di sfruttare l’energia dell’acqua per macinare i cereali. La stessa forza dell’acqua venne presto impiegata per mettere in funzione altre macchine che sottraevano lavoro all’uomo: dal pestello idraulico di cui parla Plinio il Vecchio fino ai dispositivi per il taglio di lastre di pietra utilizzati a Hierapolis in Frigia nel III secolo a.C. noi assistiamo a una costante ricerca di innovazione che in qualche modo anticipa le soluzioni che troveranno campo nelle officine del Medioevo.
Anche l’edilizia vide la comparsa di macchine per il sollevamento degli ingenti blocchi lapidei adoperati nei cantieri. Per quanto necessitiamo di informazioni supplementari per capire l’organizzazione umana, tecnica e meccanica alla base della costruzione di monumenti e edifici che ancora oggi suscitano la nostra più viva ammirazione per le dimensioni delle pietre adoperate, grazie all’attento uso di fonti letterarie, archeologiche, epigrafiche, iconografiche e numismatiche siamo in grado di avvicinarci a questo aspetto delle civiltà antiche. Basta pensare all’impero romano, struttura nella quale l’efficienza organizzativa, l’efficacia dei sistemi logistici, le eccellenti capacità operative dell’amministrazione centrale e periferica furono i presupposti che resero possibile lo spostamento di ingenti masse di marmi pregiati da un capo all’altro del Mediterraneo, un fenpmeno senza confronti fino all’inizio dell’Era Industriale. La gigantesca struttura dell’impero di Roma, creata con le armi, rimase in vita per secoli grazie alla sua amministrazione, efficiente e capillare, e al suo buon governo, in grado di assicurare per lungo tempo prosperità e pace ai suoi abitanti.
Protagonisti indiscussi dell’ambizioso progetto di costruire ovunque edifici tipici della civiltà romana furono gli architetti, gli ingegneri esperti nella scienza delle macchine e le gru da cantiere. Tra queste, occupa un posto particolare la gru calcatoria, la più potente e spettacolare macchina per costruire ideata nell’antichità. Caratterizzata dalla presenza di una grossa ruota lignea all’interno della quale uno o più uomini col loro moto fornivano l’energia necessaria al sollevamento di blocchi pesanti diverse tonnellate, è descritta da Vitruvio e, nella sua più nota versione, raffigurata sulla lastra tombale degli Haterii, una famiglia di imprenditori che nel I secolo d.C. aveva investito in tecnologia meccanica per velocizzare la costruzione di edifici tra cui il Colosseo e l’arco dell’imperatore Tito a Roma. Questo rilievo, oggi ai Musei Vaticani, ci ricorda quanto sia importante illustrare le fonti letterarie in nostro possesso con iconografia coeva e non con disegni realizzati in età moderna.
Analoghe considerazioni possono farsi per il settore dell’astronomia, che vide dapprima la comparsa di globi statici e sfere armillari, per poi realizzare il sogno di meccanizzare il globo celeste. Alla base di queste meraviglie meccaniche vi è la possibilità di effettuare calcoli di notevole complessità concettuale e matematica, come del resto aveva fatto anche Eratostene nel III secolo a.C. arrivando a stabilire con grande precisione la lunghezza del meridiano terrestre. Il planetario meccanico di Antikhytera va in questa direzione e mostra che la precisione delle misure e la complessità di calcolo non erano estranee all’orizzonte concettuale degli antichi. Gli ingranaggi di questo planetario, caratterizzato da ben 32 ruote dentate, rendono conto del moto dei pianeti attorno alla Terra, delle eclissi e delle fasi lunari, nonché del calendario dei giochi olimpici, un evento della massima importanza per la civiltà ellenica. È proprio questo ritrovamento, tra l’altro, ad avere reso plausibili le notizie che le fonti letterarie antiche riportano sui planetari meccanici costruiti da Archimede a Siracusa e da Posidonio a Rodi, descritti da Cicerone. Come le marionette dei teatrini di automi, queste macchine astronomiche erano programmate per compiere un dato movimento in un determinato tempo, introducendo così un concetto di enorme importanza per lo sviluppo della meccanica di precisione. Si poteva quindi dire che quelle macchine avevano una sorta di memoria che immagazzinava il messaggio ricevuto per poi metterlo in atto.
Chi furono i principali artefici del progresso tecnologico antico?
La storia ha selezionato i nomi dei grandissimi, arrivati fino a noi per le opere realizzate e per averle accompagnate con la stesura di testi in cui raccontavano i nuovi traguardi raggiunti e le novità di cui si dichiaravano portatori. La letteratura antica ci ha tramandato i nomi di personaggi che costituirono un punto di riferimento ciascuno nel proprio ambito. Da Vitruvio a Apollodoro di Damasco, da Filone di Bisanzio e Archimede a Erone di Alessandria noi vediamo una nutrita schiera di studiosi interessati alle macchine, ai principi che ne governano il funzionamento e al loro processo costruttivo. Dotati di cultura superiore, essi furono anche autori di testi che hanno ampiamente influenzato la nostra cultura fino al Rinascimento. Tuttavia, la grandezza di questi studiosi rischierebbe di oscurare un panorama che in realtà è ben più ricco; essi infatti non navigano in uno spazio vuoto e dietro ognuno di loro si celano le fondamentali esperienze di generazioni e generazioni di tecnici di cui si è perso il nome. Non potremmo capire macchine come il planetario di Antikhytera, le ruote idrauliche più avanzate, le catapulte più innovative e gli automi se continuiamo a considerarli prodigi inspiegabili per quel mondo. Se il grandissimo Archimede e Filone di Bisanzio, Vitruvio, Erone di Alessandria e Apollodoro hanno lasciato un segno indelebile nello studio della meccanica e della scienza delle macchine ciò è anche dovuto alle fondamentali esperienze di generazioni e generazioni di tecnici senza nome che non sapevano né leggere né scrivere: è il vasto mondo della tecnica che riecheggia nelle loro opere e spiega i grandissimi che seppero scrivere manuali nei quali la macchina diviene l’oggetto per eccellenza della meccanica e della professione dell’architetto. Lo stesso fenomeno appare con analoga evidenza nell’arte e nell’architettura. Non potremmo capire Il Canone, il trattato sulle proporzioni del corpo umano scritto da Policleto di Argo verso la metà del V secolo a.C. se non sullo sfondo della pratica artistica di generazioni e generazioni di scultori che prima di lui si cimentarono con questo tema e non saremmo in grado di comprendere i pochissimi architetti scrittori arrivati fino a noi se non in funzione dell’opera dei moltissimi altri che non composero manuali ma si cimentarono in sfide architettoniche assai complesse.