
La loro importanza è cruciale sotto diversi punti di vista. Quella più evidente e maggiormente sviluppato nel volume (che raccoglie molti contributi redatti da storici medievisti) è quella di tipo biografico. Difficile riassumere tutte le correzioni di dettaglio sulla vita di Dante in questa fase, di cui non sappiamo molto (e soprattutto le date sono spesso soggette a incertezze). Sul piano più generale del percorso di Dante, dopo le nostre indagini possiamo dire che i suoi cambiamenti di campo sono meno repentini di quanto si sia pensato finora. In molti interventi infatti viene dimostrato come questi cambiamenti maturino in maniera accidentata, fluida, in notevole autonomia. Su un piano più di dettaglio, ecco alcuni elementi che ci sembrano di rilievo e che abbiamo anche ridiscusso nelle “conclusioni” del volume:
– le lettere I e II sono scritte nel primo periodo dell’esilio di Dante, quando egli risulta in rapporto con l’organizzazione militare dei Bianchi banditi da Firenze; esse mostrano sia il forte coinvolgimento del poeta nella struttura sia momenti di distacco;
– le lettere III e IV sono una cerniera fondamentale, perché ci fanno vedere Dante attivo in un contesto di corte, più specificamente nella corte dei Malaspina. Tutt’e due le lettere accompagnano poesie d’amore, ma non si limitano ad essere un momento di gioco cortese. La corte malaspiniana diventa un luogo non solo di impegno ‘cancelleresco’ per Dante (qui egli è incaricato di un atto, la pace di Castelnuovo, che pacifica la famiglia signorile con il vescovo di Luni), ma anche di riflessione nella quale viene incubata l’idea che l’istituzione dell’impero sia necessaria;
– le lettere intorno all’arrivo di Enrico VII, famosissime, permettono di ribadire due concetti fondamentali: Dante, convinto del carattere provvidenziale della missione di Enrico, mostra un’idea molto diversa di come il progetto imperiale si debba sviluppare. Se l’imperatore pensa soprattutto a rivitalizzare il Regnum Italiae (Italia del Nord), in Dante emerge l’idea “virgiliana” di Italia, coincidente sostanzialmente con la configurazione geografica attuale; in questo momento Dante sembra non avere un pubblico o un gruppo di riferimento, ma parla a una comunità che non esiste, quasi per crearla lui stesso;
– la lettera XI, ai cardinali riuniti in conclave (1314), è uno squarcio su quello che succede dopo la morte dell’imperatore. Ora Dante, privo di un riferimento storico e istituzionale, si auto-inventa come profeta, e lo fa in maniera molto precisa: è un profeta come il Geremia dell’Antico Testamento, che piange la distruzione di Gerusalemme e su quella base cerca di prevedere il futuro.
Quest’ultima osservazione permette di intravedere anche gli altri aspetti del valore di questi testi: esse ci fanno comprendere, spesso in una maniera diversa rispetto a come Dante ce la racconta nella Commedia – dove egli riscrive la propria biografia in maniera esemplare – le strategie con cui il poeta si presenta e acquisisce la consapevolezza della propria autorevolezza e del proprio, ambizioso, progetto letterario. Ma anche altri temi potrebbero essere richiamati: uno per tutti, è lo stile di questi testi, redatti in latino di qualità elevatissima e non privo di sperimentazione.
Nel testo non vengono analizzate l’epistola a Guido da Polenta e la controversa lettera a Cangrande, «vera crux desperationis della critica dantesca», come la definisce nel libro: quali le ragioni di questa scelta?
Abbiamo deciso di limitare questo approfondimento alle 12 lettere attribuite con sicurezza a Dante, escludendo sia l’epistola a Guido da Polenta, che, pur sorgendo da un nucleo che ha qualche tratto di plausibilità, sembra non far parte delle autentiche, sia la controversa lettera a Cangrande, vera crux desperationis della critica dantesca, in ragione soprattutto dello squilibrio stilistico e contenutistico tra prima e seconda parte. La prima parte, com’è noto, è intesa a offrire al destinatario scaligero l’ultima cantica («sublimis cantica») della Commedia, titolata Paradiso («que decoratur titulo Paradisi»), in forma di dedica e di iscrizione di accompagnamento al testo (Ep. XIII, 11). La seconda costituisce una lectura dei primi 12 versi del testo che la accompagnava; una volta esplicitamente chiusa la parte dedicatoria, si apre un’introductio all’opera scritta nelle vesti di un lettore («itaque, formula consumata epistole, ad introductionem oblati operis aliquid sub lectoris officio compendiose aggrediar», Ep. XIII, 13). A parte la discussione sulla sua autenticità, ancora vivace tra gli studiosi, è soprattutto la natura del testo, nonché la sua trasmissione indipendente rispetto al resto del corpus, ad averci convinti a escluderla dal nostro studio.
Come si è sviluppata la tradizione manoscritta delle epistole dantesche?
La conservazione delle lettere è accidentata, forse più che per le altre opere di Dante. Il confronto con Petrarca è sorprendente. Petrarca, difatti, curò con ossessiva puntigliosità l’organizzazione della propria corrispondenza, privata, pubblica e talvolta fictional, organizzandola in vere e proprie opere letterarie a tutto tondo. Questo atteggiamento, che deriva dal modello di Cicerone, fu però profondamente innovativo al suo tempo. Prima di lui, le grandi raccolte epistolari erano in gran parte organizzate e pubblicate all’interno di ambienti cancellereschi, interessati a trasformare quelle serie di testi in modelli di scrittura legate alla comunicazione curiale, che poteva assumere un aspetto propagandistico (talora, addirittura di manifesto politico) ma a volte anche privato (quali potevano essere le missive inviate tra le varie corti in occasione di lutti famigliari). Dante – che per lo più collaborò con signorie di entità non così rilevante – non conservò le sue epistole, che noi conosciamo soprattutto grazie all’amorevole attenzione di due personaggi molto diversi tra loro: Giovanni Boccaccio, che ne copiò tre nei suoi grandi zibaldoni di lavoro (probabilmente da copie conservate presso il Regno di Napoli), e Francesco Piendibieni da Montepulciano, cancelliere a Perugia e poi vescovo di Arezzo, che invece ne ritrovò ben 9 (ma ne possedette forse di più). Solo le lettere arrighiane V e VII sono pluritestimoniali (e plurilingui, per dir così): la V essendo trasmessa anche dal codice Roma, Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele, S. Pantaleo 8 (101) ed essendo stata volgarizzata nel XV secolo a Firenze; mentre la VII è trasmessa da ulteriori due codici in latino, ne sono testimoni anche Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Latino XIV 115 (4710) e Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati, F V 9, e tràdita in volgare (in almeno due versioni, forse entrambe di pieno e tardo Trecento) da molti codici.
Una serie di indagini ravvicinate di questa tradizione manoscritta hanno fatto emergere notevoli risultati interpretativi. Prima di tutto sul piano della ricezione: non è Firenze, per esempio, la protagonista della conservazione dei testi, nonostante qui esse vengano precocemente discusse (come testimonia Villani) e presto volgarizzate; più attiva sembra, invece, la Toscana orientale (in particolare il Casentino e Siena) e forse anche le scuole di retorica dell’Italia meridionale, dove, come abbiamo detto, Boccaccio raccoglie un nucleo di testi (e ne riutilizza qualcuno per la propria scrittura epistolare). Ancora più interessante – anche se entriamo qui nel campo scivolosissimo delle ipotesi – è il fatto che la tradizione manoscritta, e le particolari tipologie di testi che essa trasmette, ci permette di “immaginare” la concreta modalità con cui questo gruppo di lettere si è conservato mentre Dante era in vita. L’analisi di Bartoli Langeli sulle epistole VIII, IX e X, i biglietti scritti per la contessa Gherardesca in risposta a lettere provenienti dalla imperatrice Margherita di Brabante, prospetta, in maniera cauta, la possibilità di un registro personale di Dante rimasto e copiato in Casentino. Non è poco, se pensiamo che di Dante non abbiamo autografi.
Come si inseriscono le epistole dantesche nella prassi duecentesca dell’ars dictaminis?
Su questo piano, il volume ha permesso di aggiungere particolari inediti alla nostra visione di Dante. Partiamo dal fatto che l’Alighieri conobbe in profondità la tradizione del dictamen: ne abbiamo numerose prove sostanziali, esterne ed interne; in particolare, se analizziamo più da vicino lo stile delle lettere che del poeta ci sono rimaste, colpisce particolarmente la sua padronanza delle tecniche di scrittura del latino, che egli è capace di adattare a contesti, situazioni e mittenti differenti (diverso è scrivere a un amico o all’imperatore, per il cordoglio di un defunto o per una trattativa militare) e di arricchire con un ventaglio importante di figure retoriche e di risorse ritmiche. Sembra di poter dire, dunque, che l’ars dictaminis fece parte della formazione di Dante, che a Firenze potette leggere un importante nucleo di testi epistolari, in latino e volgare, eventualmente verificando nei manuali di scrittura l’ampia teoria grammaticale e retorica che ne presiedeva la realizzazione. Tracce di questa formazione, non così lontana da quella di un notaio o di un uomo impegnato in mestieri diplomatici e di cancelleria, emergerà più tardi, in alcuni passaggi tecnici dell’incompiuto De vulgari eloquentia (in particolare nel libro II, quando si parla di suprema constructio, la costruzione sintattica dotata di maggior eleganza).
Ma non basta. Diversi contributi provano a misurare il livello di competenze di Dante nella scrittura epistolare, che era un mestiere di cancelleria di medio e alto livello all’epoca. Ebbene, Dante, che pure, come abbiamo detto, non ha un cursus di studi regolare, ha una conoscenza delle tecniche di questa scrittura latina altissima, precisissima e raffinata. Come mobilita queste competenze il poeta? In maniera inattesa, per una scrittura latina così legata al formulario e in qualche modo rigida, egli si dimostra uno sperimentatore consapevole: nel già citato De vulgari eloquentia egli rivaleggia esplicitamente coi grandi maestri bolognesi di retorica come Guido Faba.
Un ultimo elemento riguarda il profilo “sociale” di Dante. Come si è detto, per la gran parte queste lettere testimoniano l’attività di cancelleria che Dante ha esercitato presso alcune corti. L’articolo di Bartoli Langeli, su questo, è particolarmente esemplificativo. Come abbiamo ricordato, lo studioso analizza i tre bigliettini che Dante scrive in nome della contessa Gherardesca Guidi di Battifolle alla principessa Margherita nel 1311. Qui è sorprendente vedere come Dante scriva per altri, in una scrittura puramente di servizio; in più, scrive per una donna, circostanza eccezionale; la scrittura è sempre originale (per esempio, una contessa scrive all’imperatrice, come qui, con scambio di cortesie ma su un piano di parità: non succede mai); come se non bastasse, Dante riesce a lasciare la sua firma, con un tono fortemente filoimperiale. Si tratta di una delle prove di come egli concepì il suo lavoro di ‘cancelleria’, ma allo stesso tempo ci dice dove, un uomo del suo profilo, poteva farlo: in una struttura certo importante – una corte, come quella dei Guidi, in relazione con l’imperatore – ma non fortemente strutturata; laddove la cancelleria era in mano a una forte corporazione di notai, come a Verona, non sembrano emergere sue tracce esplicite.
Quale ruolo ebbe lo strumento epistolare nel percorso di Dante e nella costruzione della sua presenza come intellettuale e scrittore nella società del suo tempo?
Un ruolo importante, senza dubbio. In primo luogo per ragioni che da Dante in qualche modo prescindono: lo strumento epistolare si fondava su quell’ ars dictaminis che all’epoca costituiva la forma standard di ogni comunicazione pubblica, quella che Benôit Grévin ha definito una “retorica del potere medievale”. Ripetiamo: la qualità della sua epistolografia lascia pensare che all’altezza della sua prima lettera giunta fino a noi, scritta nei primi anni dell’esilio, Dante fosse già padrone di questa tecnica di scrittura che probabilmente aveva costituito una parte importante dei suoi studi superiori. In secondo luogo perché per le epistole passano a partire da allora tutte le relazioni pubbliche che egli annoda o tenta di annodare con i poteri che lo circondano: Firenze, signori come i Guidi, i Malaspina, l’imperatore Enrico VII, i Cardinali riuniti in conclave. Anche quando le lettere appaiono più “private” (come per la III a Cino o la XII all'”amico fiorentino”), esse hanno quasi sempre una doppia funzione: quella di raggiungere uno scopo preciso (di volta in volta, salutare, consolare, esortare, accompagnare un altro testo) e quella di scolpire un ritratto, cangiante, del loro autore (esule senza colpa, intellettuale colto, scrutatore dei disegni di un destino provvidenziale).
Quale circuito sociale e comunicativo emerge dall’analisi degli scambi epistolari danteschi?
Nonostante la relativa povertà del suo epistolario che, ricordiamolo, è composto in modo alluvionale da una scarsa dozzina di pezzi, di circuiti ne emergono diversi, almeno tre diremmo, distinguibili in base alla posizione che Dante occupa. Da epistole come la II o l trittico VIII-X emerge un circuito in cui un autore che conosce il latino e la retorica scrive per conto di qualcun altro, mettendo le proprie competenze al suo servizio. Da altre (la II, la IV) emerge un circuito diverso, interpersonale in cui un intellettuale scrive a qualcuno per stabilire relazioni, ottenere risorse o protezione. Dalle epistole arrighiane, dalla epistola a Cardinali e forse anche dalla XII, emerge un circuito più ampio in cui Dante scrive perché le proprie lettere vengano lette, analizzate e discusse da cerchie più ampie di lettori, un circuito in cui le lettere si avvicinano alle altre opere. Non di rado, nelle epistole si fa riferimento ad altri testi e a una corrispondenza ben più larga di quella conservata, facendoci quindi intuire come l’elaborazione concettuale di Dante, così tormentata eppure così fortemente unitaria se vista dalla specola delle opere maggiori, sia in realtà sottoposta a una discussione continua, che spesso mostra linee alternative e momenti di ripensamento.
Antonio Montefusco è professore di Filologia e Letteratura latina medievale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia
Giuliano Milani è professore di Storia medievale presso l’Università Paris Est Marne la-Vallée